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Nata per sbaglio

Alla fine, è successo. La Cassazione, in una recente sentenza, è riuscita a risarcire il danno ad una bimba down nata “per sbaglio”, ossia perché la madre non è stata messa in condizione di abortire per difetto di informazione da parte del ginecologo.


Nata per sbaglio

da Quaderni Cannibali

 

Alla fine, è successo. La Cassazione, in una recente sentenza, è riuscita a risarcire il danno ad una bimba down nata “per sbaglio”, ossia perché la madre non è stata messa in condizione di abortire per difetto di informazione da parte del ginecologo.

La donna aveva detto al medico che “la nascita di un bimbo sano sarebbe stata condizione imprescindibile per la prosecuzione della gravidanza” e aveva chiesto “di essere sottoposta a tutti gli accertamenti necessari ad escludere malformazioni del feto”. Il medico aveva fatto eseguire alla gestante il solo “tritest”, omettendo di prescrivere accertamenti più specifici (con chiaro riferimento all’amniocentesi, esame che permette di effettuare la diagnosi prenatale per diagnosticare la sindrome di Down).

Ed era così nata la piccola Sara (nome ovviamente di fantasia), affetta dalla suddetta sindrome.

I giudici di primo e secondo grado avevano respinto la domanda di risarcimento del danno, in quanto – da una parte – “la sola indicazione del tritest, quale indagine diagnostica funzionale all’accertamento di eventuali anomalie, doveva ritenersi del tutto giustificata, alla luce della giovane età della signora e dell’assenza di familiarità con malformazioni cromosomiche, “sicché un test più invasivo avrebbe potuto giustificarsi solo con un’esplicita richiesta”; e – dall’altra – “l’accertamento di una malformazione fetale non è di per sé sufficiente a legittimare un’interruzione di gravidanza”, non sussistendo alcuna prova in ordine all’esposizione della donna al grave pericolo per la sua vita o per la sua salute psicofisica, in caso di prosecuzione della gravidanza con la consapevolezza della anomalia del feto.

La Corte di Cassazione ribalta le suddette decisioni e riconosce il diritto al risarcimento del danno, oltre che dei genitori, anche dei fratelli e di Sara (questi ultimi ovviamente rappresentati in giudizio dagli stessi genitori).

La sentenza apre scenari innaturali, ma vale la pena commentarla, almeno per gli effetti che ne conseguono.

1. Innanzitutto, si pensi alle conseguenze sulla responsabilità dei medici ginecologici, in relazione al cosiddetto aborto terapeutico (che non cura assolutamente nulla, anzi sopprime una futura vita umana). La L. 194 consente l’aborto quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni nel nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.

Il rischio – dopo questa sentenza – è che un esame invasivo per il feto, come l’amniocentesi, venga prescritto sempre e comunque dai medici (“a prescindere” come si dice), a meno che non sia rifiutato espressamente dall’interessata; ciò, per evitare che il ginecologo possa essere chiamato, in futuro, a rispondere per la sua omissione, in caso di nascita di un bimbo con malformazioni che avrebbero potuto essere diagnosticate con quell’esame e che avrebbero dissuaso la donna dal portare a termine la gravidanza.

In sostanza, per la Cassazione, è sufficiente che la donna dica al medico di volere far nascere solo un bimbo sano. Il medico, allora, per evitare responsabilità, dovrebbe far eseguire tutti gli accertamenti che consentano una completa diagnosi prenatale che escluda l’evento non voluto.

Di fronte a ciò, mi domando con quale coraggio si continui a negare che oggi l’aborto terapeutico non sia altro che una forma di eugenetica negativa (con la quale si ricerca la miglior discendenza, evitando la nascita di individui affetti da determinate malattie, quand’anche gravi, e magari a fin di bene, come si dice, per evitare sofferenze e una vita non degna al nascituro), se il presupposto per ottenere la diagnosi prenatale finalizzata all’aborto è la mera autodeterminazione della donna di non volere che un bimbo sano.

L’aspetto del grave pericolo per la salute psicofisica della donna (per quanto di per se stesso evanescente, essendo sufficiente un danno psichico) passa del tutto in secondo piano, se è vero – come è vero – che la sentenza afferma nella specie il principio della “presunzione di una patologia materna destinata ad insorgere a seguito della paventata malformazione fetale” (punto 4 dei motivi di diritto). Ossia, non sarebbe più necessario provare l’esistenza di un danno per la salute psicofisica della donna connesso alla nascita di un bimbo down. Il danno alla salute, lo si presume esistente in tutti i casi, salvo che venga data la prova contraria (che, peraltro, non potrebbe darsi se non con una espressa e consapevole dichiarazione della donna di accettare quella nascita, così per come è).

2. Una seconda conseguenza della sentenza, che mi pare rilevante, è l’estensione del risarcimento del danno, oltre che ai genitori, madre e padre, anche a fratelli e sorelle (ed anche alla stessa Sara).

Già c’erano state sentenze che avevano risarcito ai genitori il danno per l’handicap fisico del figlio, perché la madre non aveva potuto esercitare in termini il diritto di abortire.

Il presupposto del riconoscimento è stato rinvenuto nella “radicale trasformazione delle prospettive di vita dei genitori”, costretti a prendersi cura e far crescere un bimbo down (che non ci sarebbe stato se avessero potuto autodeterminarsi). Così è stato liquidato, come danno patrimoniale, non solo il differenziale tra la spesa necessaria per il mantenimento di un figlio sano e invece la spesa, maggiore, per il mantenimento di un figlio con deficit; è stato invece liquidato l’intero onere economico per il mantenimento del figlio down, ossia per il fatto di dover “sopportare per intero un costo economico che altrimenti la coppia non avrebbe avuto”. Ed è stato liquidato anche il danno non patrimoniale per la “nascita indesiderata”, ossia una somma a compensazione del fatto che i genitori “si troveranno esposti a dover misurare la propria vita quotidiana, l’esistenza concreta, con le prevalenti esigenze della figlia, con tutti gli ovvi sacrifici che ne competono”.

La domanda che credo si ponga pressante, alla nostra società, è come potremo guardare negli occhi quella figlia, la cui sola esistenza abbiamo considerato essere un danno, tanto da riconoscere un risarcimento per i sacrifici che essa comporta. Non so come potremo guardare negli occhi i nostri figli pensando al mondo che stiamo loro lasciando.

2. 1. Non si era ancora arrivati, però, al risarcimento del danno in favore dei fratelli e della stessa figlia down, in tal caso di Sara.

Ecco qual è il danno che viene risarcito ai fratelli: “il danno consistente nella inevitabile minor disponibilità dei genitori nei loro confronti, in ragione del maggior tempo necessariamente dedicato al figlio affetto da handicap, nonché nella diminuita possibilità di godere di un rapporto parentale con i genitori stessi costantemente caratterizzato da serenità e distensione; le quali appaiono invece non sempre compatibili con lo stato d’animo che ne informerà il quotidiano per la condizione del figlio meno fortunato; consci – entrambi i genitori – che il vivere una vita malformata è di per sé una condizione esistenziale di potenziale sofferenza” (punto 5).

E’ ben riduttivo questo amore genitoriale che si misura con il bilancino, che ha una consistenza limitata e che deve essere egualmente ripartito in parti eguali, tanto che, se un figlio richiede più cure, ciò pregiudica la possibilità di offrirne agli altri, che ne soffrono a loro volta.

Una volta le mamme dicevano che nel loro cuore c’era posto per tutti i figli. Anche la nascita di un fratello sano, allora, potrebbe rappresentare un danno per il primogenito che si vede egoisticamente spodestato dall’amore esclusivo dei genitori.

Insomma, non credo che l’amore possa essere misurato in tal modo. Non credo sia riducibile a mero dato quantitativo.

Mi chiedo se sia corrispondente all’uomo un decisione che guardi all’amore in tal modo o se non sia invece più saggia la sentenza di Salomone, che – nella contesa di due donne – ha riconosciuto la madre in quella che alla fine ha voluto salva la vita del figlio, pur perdendolo.

2. 2. Evidentemente, anche i giudici si devono essere resi conto di avere esagerato un po’, se sentono la necessità di aggiungere, almeno a parole: “pur senza che questo incida sull’orizzonte di incondizionata accoglienza dovuta ad ogni essere umano che si affaccia alla vita qual che sia la concreta situazione in cui si trova”.

Mi chiedo di quale accoglienza stiamo parlando, se si sta liquidando un risarcimento per il “danno di una esistenza diversamente abile” che non avrebbe dovuto esserci.

Come può esservi accoglienza, accettazione dell’altro, se si parte dal presupposto che la sua vita è stata il frutto di un errore che – se non ci fosse stato – avrebbe consentito all’altro di non esserci?

Qui non si sta parlando di risarcire un errore che – se non si fosse stato – avrebbe evitato il danno di una nascita – pur desiderata – malformata invece che sana. Qui si sta parlando di una nascita malformata indesiderata, che sarebbe stata abortita se si fosse potuto. E’ il germe iniziale del motivo del risarcimento che è l’esatto contrario dell’accoglienza. Non si è voluto il bimbo down, ma siccome è nato per errore, allora deve risarcirsi il danno.

Anche qualora voglia intendersi il risarcimento come un mezzo “affinché quella condizione umana ne risulti alleviata, assicurando al minore una vita meno disagevole” (l’unica frase condivisibile, non solo del punto 7. 3 in cui è contenuta, ma di tutta la sentenza), esso non giustifica l’abnormità della causa risarcitoria, insita nella negazione di una vita per essere fatta in un certo modo.

3. Infine, deve sottolinearsi il paradosso di un risarcimento riconosciuto anche alla piccola Sara, per il fatto di essere stata concepita con malformazioni congenite e di essere nata perché la madre non ha potuto esercitare il diritto di abortire.

Il danno risarcito a Sara consiste nella sua stessa condizione umana di handicap. Il danno è in questo caso coincidente con l’essenza personale della bimba, con l’essere (essere costitutivamente) in un certo modo, con certe caratteristiche psicofisiche, invece che con altre.

Non è qui affermato un mero risarcimento del danno alla persona (una menomazione, una limitazione, una malattia causata dal comportamento altrui). Il danno non è in questo caso costituito da una causata malformazione che lede la persona, ma dallo stesso venire ad esistenza di una persona, fatta in un certo modo, che solo un errore ha permesso che nascesse. Qui è la stessa persona, solo perché c’è, e così per come è stata concepita e per come è nata, ad essere un danno, obbligando chi ne ha causato l’esistenza a risarcire quell’evento infausto costituito dalla sua stessa presenza sulla terra, a favore di coloro che abbiano subito conseguenze negative da quella nascita.

Il risarcimento del danno alla piccola Sara rappresenta quindi un paradosso: la piccola bimba down è considerata un danno da evitare e quindi non certo un soggetto titolare di diritti (tanto che solo per un errore è venuta ad esistenza), ma paradossalmente la si riconosce anche titolare di un diritto al risarcimento, una volta nata, proprio per il fatto di non essere riusciti ad impedire quella nascita.

In termini giuridici, Sara rappresenta al tempo stesso l’evento di danno e la titolare del diritto al risarcimento di quel danno.

La Cassazione sembra avvitarsi su se stessa e sulle proprie conclusioni contraddittorie.

3. 1. Meglio sarebbe se non fosse mai esistita, quella piccola bimba down, dice la Cassazione, in attuazione della scelta di autodeterminazione della madre. Il suo stesso esserci è una sciagura che non si è riusciti ad evitare.

Ecco come la sentenza motiva il risarcimento a Sara: “la legittimità dell’istanza risarcitoria iure proprio del minore deriva da una omissione colpevole cui consegue non il danno della sua esistenza, né quello della malformazione di sé sola considerata, ma la sua stessa esistenza diversamente abile, che discende a sua volta dalla possibilità legale dell’aborto riconosciuta alla madre in una relazione con il feto non di rappresentante-rappresentato, ma di includente-incluso” (punto 7. 3).

Circa il rapporto tra madre e figlio, poi, la sentenza ha parole durissime. Prima della nascita esisterebbe solo il diritto della donna ad autodeterminarsi nei confronti del figlio (che è meramente “incluso” nella volontà consapevole della donna), senza che essa debba tener conto di eventuali suoi diritti (compreso quello di nascere) che non esistono e che quindi non possono essere da lei “rappresentati”.

“Non assume pertanto alcun rilievo giuridico – afferma la sentenza – la dimensione prenatale del minore, quello nel corso della quale la madre avrebbe, se informata, esercitato il diritto all’interruzione della gravidanza”. Il concepito sarebbe una sorta di “inqualificazione giuridica tout court” (come se si parlasse di una nullità negoziale). “Ciò che è giuridicamente inqualificato non ha cittadinanza nel mondo del diritto, onde l’assoluta irrilevanza dell’affermazione secondo la quale ‘nessuno potrebbe preferire la non vita alla vita’, funzionale ad un ‘dovere di vivere’ – ancora una volta relegato entro i confini di una specifica visione e dimensione etica delle vicende umane priva di seri riscontri normativi, come già affermato da questa Corte in tema di diritti di fine vita (è qui richiamata la sentenza Englaro) – che in nessun caso può costituire legittimo speculum del diritto individuale alla vita” (punto 7. 2).

Traducendo, il concepito non ha rilevanza alcuna per il diritto e non può affermarsi, per esso, un “obbligo di vivere”, che non ha alcun significato reale, e che comunque “resta ai margini del discorso giuridico, così come estraneo al diritto positivo”, “avendo di converso l’ordinamento positivo eletto ad essenza dei diritti dell’uomo, prima ancora della dignità, la libertà dell’individuo”.

L’autodeterminazione prevale sulla dignità dell’uomo.

3. 2. Alcune precedenti sentenze della Cassazione avevano negato il diritto di avere un figlio sano, precisando che “il diritto a nascere sani significa solo che nessuno può procurare al nascituro lesioni a malattie e, sotto il profilo pubblicistico, che siano predisposti quegli istituti normativi o quelle strutture di tutela, di cura e di assistenza della maternità, idonei a garantire, nell’ambito delle umane possibilità, la nascita sana… Non significa invece che il feto, che presenti gravi anomalie genetiche, non deve essere lasciato nascere”.

Allo stesso modo, si era precisato che non poteva affermarsi un diritto del concepito malformato di non nascere se non sano, in quanto la tutela giuridica del nascituro, pure prevista dal nostro ordinamento, “è regolata in funzione del diritto del concepito a nascere”. “Un eventuale diritto del concepito malformato di non nascere sarebbe un diritto adespota”, in quanto significa concepire un diritto che, solo se violato, ha, per quanto in via postuma, un titolare, ma se tale violazione non vi è (e quindi non si fa nascere il malformato per rispettare il suo diritto di non nascere), non vi è mai un titolare. Il titolare di questo presunto diritto non avrà mai la possibilità di esercitarlo.

La sentenza si dilunga (per quasi 80 pagine e con un linguaggio incomprensibile ai non addetti ai lavori) a cercare di superare i precedenti orientamenti, aprendo potenzialmente la strada al risarcimento per chiunque nasca con problemi fisici o psichici, anche nei confronti della stessa madre, per il semplice fatto di aver deciso di non abortire. Si può discutere, a questo punto, se tenuto al risarcimento sia solo il medico che non ha informato bene la madre e non la ha permesso di abortire, oppure la madre stessa che, esercitando la sua autodeterminazione, abbia scelto di non abortire. Se infatti il frutto della nascita è un bimbo down al quale si riconosce il diritto ad un risarcimento per il solo fatto di essere nato e di essere nato con handicap, significa che egli ha diritto a non nascere se non sano, e questo suo diritto potrà essere fatto valere nei confronti di chiunque glielo lede (facendolo nascere), madre compresa.

La sentenza cerca di superare questo punto sostenendo che il piccolo farebbe valere il proprio diritto alla salute, ossia si dolerebbe non della nascita ma del proprio stato di infermità (che sarebbe mancato se egli non fosse nato). E’ però evidente che si tratta di un gioco di parole. Dolersi del proprio stato di handicap che sarebbe mancato se egli non fosse nato, significa dolersi di essere nato.

Stefano Spinelli

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