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Piace a Francesco l'hobbit inquieto

"Il Signore degli Anelli" evidentemente ha raggiunto e conquistato l'attuale pontefice preso «alla fine del mondo».


Piace a Francesco l'hobbit inquieto

 

Un po’ li ha citati lui, come nel caso di Bloy e Malègue, un po’ le notizie girano e su Jorge Mario Bergoglio lo fanno vorticosamente dal 13 marzo scorso, e quindi già si conoscono alcuni dei poeti e romanzieri preferiti da Papa Francesco: oltre ai due suddetti francesi, ecco due nomi che ci saremmo potuto aspettare, Manzoni e Dostoevskij, ma anche il poeta tedesco Hölderlin, l’argentino Borges (di cui è stato amico personale) e l’inglese Chesterton. Ma ce n’è un altro, sempre inglese, che non è ancora emerso, Tolkien, l’autore di uno dei libri più letti al mondo, Il Signore degli Anelli, che evidentemente ha raggiunto e conquistato l’attuale pontefice preso «alla fine del mondo».

Proprio sessant’anni fa, nel 1953 veniva pubblicata la prima parte della più famosa trilogia letteraria, La Compagnia dell’Anello, e venti anni dopo, esattamente il 2 settembre 1973, in Inghilterra, a Bournemouth, si spegneva l’autore del romanzo che già era diventato uno dei più grandi successi della storia della letteratura mondiale, al punto che Tolkien stesso pare abbia etichettato con l’espressione «deplorevole culto» il fenomeno di fanatismo che specie a partire dalla metà degli anni ’60 (quando negli Usa il romanzo uscirà in edizione paperback) aveva contagiato tutto il mondo anglofono e non solo. A quarant’anni dalla sua morte, oggi l’opera di Tolkien è universalmente conosciuta anche grazie alla cassa di risonanza dei film che il talentuoso regista neozelandese Peter Jackson è andato realizzando, arrivando a quota quattro, ma altri due stanno arrivando, e non è facile fare il punto e dare un giudizio sulla «eredità di Tolkien» (è questo il titolo del convegno che l’associazione culturale La Contea ha organizzato per il 5 settembre a Messina).

Forse il cespite più pregiato del vasto inventario di beni che Tolkien lascia ai lettori di oggi e di domani è rappresentato proprio dall’invenzione degli Hobbit. A parte questi piccoli ometti così buffi e al tempo stesso decisivi per lo sviluppo e l’esito della storia, tutto il resto (cavalli e cavalieri, torri e stregoni, foreste e incantesimi, spade, nani e draghi) Tolkien infatti non lo inventa ma lo attinge dall’immenso bagaglio degli antichi miti e delle leggende medioevali che da raffinato filologo conosceva perfettamente, ma gli Hobbit no, non si sa, non lo sa nemmeno lui, da dove sono spuntati. E gli Hobbit sono davvero molto interessanti; sono il «tocco di Novecento» in questa saga medioevale, sono uomini (anzi, mezzi-uomini) così comuni da essere fuori dal comune nella Terra-di-Mezzo così simile al nostro mondo; sono tutto e il contrario di tutto, forse siamo noi, lettori ad un tempo impigriti e spaesati, nostalgici non si sa bene di cosa, in quest’alba di terzo millennio. Abitano nei buchi come conigli, ma possono rivelare un coraggio da leoni, vivacchiano tra «cavoli e patate» ma vogliono incontrare «elfi e draghi», sono buffi, gretti e goffi ma tenaci e resistenti come pochi alle avversità, pieni di mille risorse ( in primis un inguaribile humour) che li rende capaci di sopravvivere ai più grandi disastri. E poi, soprattutto, sono pronti.

Readiness it’s all, la prontezza è tutto, diceva Amleto, e questo è vero per alcuni tra gli abitanti della Contea, la dolce e verde regione collinare dove vegetano pigramente quasi tutti gli Hobbit della mitica Terra-di-Mezzo. Per alcuni, non per tutti: Tolkien parla solo degli Hobbit più “trasgressivi” nel senso etimologico del termine, quelli che fanno il passo al di là, che, spezzando le abitudini, si mettono in cammino e viaggiano oltre i tranquilli confini della Contea.

Sono questi Bilbo e poi suo nipote Frodo Baggins con i quali «ritorna nella letteratura contemporanea l’immagine dell’uomo che è chiamato a mettersi in cammino e, camminando, conoscerà e vivrà il dramma della scelta tra bene e male». A parlare con cognizione di causa è proprio Jorge Mario Bergoglio, che ha dedicato queste parole a Bilbo e Frodo nell’omelia per la Pasqua del 2008, in cui ha parlato anche di altri viaggiatori, Enea, Ulisse e, soprattutto, Abramo, che «chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava» ( Ebrei 11,8), proprio come Frodo che, animato da un « corazón inquieto », parte fedele ad una missione, ad una «vocazione», di cui però non conosce molti dettagli e non controlla l’esito finale (come è noto dirà, nel grave momento della decisione: «Prenderò io l’anello, ma non conosco la strada»).

Al cardinale Bergoglio, e oggi a Papa Francesco, sta molto a cuore questo tema dell’uomo in cammino, che si mette in strada realizzando così il benefico « éxodo de sí mismo », proprio come dovrebbe fare una Chiesa capace di uscire dalle paludi dell’auto-referenzialità e di affidarsi ad un cammino che non è stabilito né controllato ma appunto «obbediente», che nasce cioè dall’ascolto e dall’abbandono fiducioso.

 

 

Andrea Monda

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