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Il difficile apostolato di un salesiano discreto. Incontro con don Elio Lago

L'episodio di don Bosco dopo la visita al carcere di Torino mi ha impressionato. Il carcere in Italia per il 90% è popolato di giovani dai 18 ai 26-27 anni...


Il difficile apostolato di un salesiano discreto. Incontro con don Elio Lago

 

Si vuole presentare?

 

Sono un Salesiano di Verona. Ho studiato a Castello di Godego (TV), un'opera nuova appena aperta proprio in quel periodo, 1954. Sono sacerdote dal 1967.

Dopo un periodo di formazione religiosa, umana e culturale, molto utile per me, mi sono diplomato in disegno e storia dell'arte. Più tardi ho conseguito la laurea in teologia alla Pontificia Università Lateranense a Roma, e la laurea in filosofia all'università statale a Siena. Subito ho conseguito l'abilitazione in Lettere.

Sono stato all'oratorio di Schio (VI) dal 1971 al 1973 come responsabile del Palazzetto dello sport, costruito per rilanciare quel centro giovanile. Nel 1973 ho aderito alla proposta dell'ispettoria salesiana del Veneto per iniziare un'attività giovanile con gli emigrati italiani in Germania.

Qui ho scoperto la ricchezza umana e spirituale di tanti nostri connazionali provenienti in gran parte dal Sud Italia. È una continua difesa della propria libertà interiore e della propria cultura.

Per loro ho organizzato corsi di scuola per conseguire un titolo di studio: magistrali, segretari d'azienda, scuola media. In Germania ho avvicinato il mondo del carcere: mondo ignorato, sconosciuto. È un'isola tabù, dove hanno origine depressioni, suicidi, solitudine.

L'immigrato detenuto in una casa di pena è doppiamente penalizzato. Come prete salesiano ho scoperto un mondo da me totalmente ignorato. La conoscenza di tante tristi situazioni mi ha aiutato a ringraziare Dio del grande dono della fede e di essere salesiano. Ho scelto, così, di occuparmi di più di queste persone. Il dolore chiede sempre grande rispetto. Mi ritengo veramente fortunato per quanto mi è stato regalato nella vita: una famiglia, una casa, la possibilità di studiare, lo stile educativo di don Bosco, la fede.

Con l'aiuto del Consolato e dell'Ambasciata ho cercato di far convogliare nella casa di detenzione a Remscheid (NRW) i detenuti italiani interessati alla scuola. Agevolato anche dalla mia posizione di insegnante di ruolo, per 12 anni mi sono adoperato per vari interventi scolastici.

 

Come mai questo aggancio con il carcere?

 

È stato quasi casuale. Immergendomi in un'esperienza umana, cristiana e salesiana che mi ha coinvolto profondamente, ho capito che non basta più l'ascolto, e che anche i forti spesso hanno bisogno dei deboli.

L'episodio di don Bosco dopo la visita al carcere "la Generala" di Torino nel 1848 e le sue parole, mi hanno impressionato fin da giovane: "Giuro che farò di tutto perché tanti giovani non finiscano in questi luoghi". Il carcere in Italia per il 90% è popolato di giovani dai 18 ai 26-27 anni. È un mondo di giovani.

Tornato poi in Italia nel 1986 ho continuato il mio servizio nel mondo della detenzione nel carcere di Venezia, di Vicenza, di Verona, dove opero ancora oggi.

 

Com'è la sua giornata?

 

Cerco di lavorare senza troppo rumore. Il riserbo spesso è quasi imposto per la delicatezza di tante situazioni difficili.

L'aiuto dei confratelli e dei superiori mi hanno sempre incoraggiato. Ogni domenica aiuto il cappellano per le messe e le liturgie varie. A Verona ci sono 800 detenuti al maschile, e 70 al femminile. Di questi il 33% sono tossicodipendenti.

La sera, insegno all'Istituto Tecnico serale San Zeno dei salesiani, qui a Verona, mentre al mattino opero in carcere dove, con l'aiuto di tanti volontari e dell'Associazione Arca '93, ho istituito corsi di scuola media, corsi professionali di meccanica, di giardinaggio, di informatica, di sartoria al femminile, di pittura e murales per dare anche una nota di colore ai muri freddi e tristi di una casa di pena.

 

In che cosa consiste questa sua missione?

 

I corsi sollecitano un momento di incontro e confronto con i vari insegnanti, persone spiritualmente preparate e motivate: queste figure sono viste come persone al di fuori della struttura organizzativa e giuridica tipica del personale del carcere.

Con loro il detenuto o la detenuta parlano volentieri, si confidano, si aprono con loro e percepiscono che questi docenti lavorano senza tanto rumore, e, soprattutto, perché sanno di non essere giudicati.

È un momento privilegiato oltre ai colloqui, per parlare con animo aperto, per uscire dalla solitudine, per creare ponti e ricucire affetti familiari spesso logorati o interrotti.

Anche il tipo di corso è scelto per imparare e suggerire manualità più che lavoro di cervello. L'intervento, quindi è in funzione di un'operatività pratica e concreta del detenuto e della detenuta.

 

Chi opera con lei in questa esperienza?

 

È stato dato un volto giuridico a questa attività: una quindicina di volontari sono l'anima dell'Asssociazione "Arca '93", costituita tutta da persone che si alternano per i vari interventi e servizi: colloqui su richiesta del detenuto, momenti di catechesi o di riflessione spirituale, aggancio, tramite l'Associazione, con le famiglie in particolari difficoltà economiche o di alimenti. L'associazione usufruisce del contributo di generi alimentari da parte del Banco Alimentare regionale di Verona.

La frequenza al carcere poi, ci ha resi consapevoli della necessità di dare un'assistenza ad alcuni di coloro che a fine pena escono dal carcere e non trovano nessun riferimento familiare o sociale cui aggrapparsi per non ricadere ancora in situazioni illegali. È nata così una struttura di accoglienza provvisoria.

 

Ostacoli che incontra?

 

È chiaro che non è tutto rose e fiori. Da parte della direzione l'Associazione ha goduto sempre della massima stima e approvazione su ogni attività svolta. Si incontrano invece difficoltà all'esterno del carcere quando si cerca un lavoro o un'abitazione per un reinserimento sociale.

 

Come vede il futuro?

 

Voglio sperare che il dibattito attuale al parlamento italiano sulla giustizia e sulla carcerazione contribuisca a risolvere, almeno in parte, annosi problemi: il sovraffollamento nelle celle, la carcerazione preventiva (oggi il 43% dei detenuti è in attesa di giudizio) la dignità della persona da porre sempre al primo posto. Sono valori profondamente cristiani, alla base del sistema educativo e formativo di don Bosco. Come cristiano e prete a volte mi sento disturbato da una mentalità che vede nella detenzione la massima sicurezza per la società.

La realtà, poi, dimostra il contrario: la tenerezza sulla quale insiste papa Francesco, la misericordia, sono note che cambiano il cuore, perché sono frutto di un atteggiamento buono, non di compassione o di errata chiusura degli occhi di fronte al male: la pena deve tendere alla rieducazione e alla socializzazione della persona (Costituzione italiana art. 27), anche di fronte a questa realtà scomoda.

 

 

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