Testi Salesiani

DON BOSCO CHE RIDE - Luigi Chiavarino


 


Don Bosco che ride

I «fioretti» di san Giovanni Bosco
LUIGI CHIAVARINO

 


Don Bosco che ride

I «fioretti» di san Giovanni Bosco
LUIGI CHIAVARINO

 

Edizioni San Paolo, 1988, Cinisello Balsamo.

 

 

NOTA DELL'EDITORE

«Pochi uomini al mondo ebbero, fin dalla fanciullezza, tante peripezie e furono protagonisti di tanti episodi amenissimi, quanto don Bosco. Tutta la sua vicenda si può descrivere a mezzo di fatti, racconti, strategie e cose simili, come appunto intendo fare col presente volumetto che licenzio alle stampe e presento ai lettori per informarli sulle due età più belle della sua vita: la sua storia di ragazzo così provato e pur lieto e simpatico, e gli anni eroici della vita dell'Oratorio. Scelgo di preferenza fatti esilaranti; e siccome anche ridendo s'impara, il lettore, scorrendo queste amenità, imparerà a conoscere meglio questo santo così singolare per il suo genio, il suo carisma e il suo temperamento. Essendo io vissuto parecchi anni a fianco del santo...».

Con queste parole don Luigi Chiavarino, nel lontano 1935, presentava la prima edizione del suo fortunatissimo Don Bosco che ride, un libro che ha incontrato il favore del pubblico per il suo «francescano» sapore di fioretti.

A somiglianza di testi famosi - quali la Legenda aurea, le Vite dei Padri del deserto e i Fioretti di santo Francesco - anche le pagine, certamente più modeste, di Don Bosco che ride lumeggiano la figura di un protagonista dandoci nel contempo squarci d'ambiente, magari un po' anacronistici per il lettore di oggi, ma agresti e semplici come le fiabe della nonna.

A questo punto non è più necessario soffermarsi sui limiti di questo tipo di agiografia: lo spirito con il quale l'editore rimette in libreria l'operetta, completamente rifusa nel 1983 a cura di Eugenio Fornasari, è semplicemente quello di non lasciar scomparire un libro che, come pochi altri, contribuì in misura notevole a far amare san Giovanni Bosco.

 

 

CARTA D'IDENTITÀ DI SAN GIOVANNI BOSCO

 A 58 anni, per ordine del Papa, don Bosco scrisse la storia dei suoi primi decenni. A quell'età quasi nessuno ricorda, se non ha tenuto un diario, ciò che gli è accaduto pochi anni prima. Ma quasi tutti ricordano, come fosse ieri, i loro nove, dieci, quindici anni. Con quella sua memoria così simile a una cinepresa, don Bosco riempì tre grossi quaderni (180 pagine); con le date fece un po' di pasticcio, ma episodi, ricordi, scorci di vita hanno una freschezza unica. Da queste Memorie attingiamo questi «fioretti» di San Giovanni Bosco. 

Diamo una schematica cronistoria della sua vita.

1815, 16 agosto. Giovanni Bosco, di Francesco e di Margherita Occhiena, nasce ai Becchi, piccola località di dieci case sparse su un'altura, immerse in una campagna ondulata di vigneti e boschi, nella frazione di Monaldo, a cinque chilometri dal capoluogo comunale, Castelnuovo d'Asti (ora Castelnuovo don Bosco). Fu subito chiamato Giuanìn, un diminutivo familiare. A due anni perdette il padre. Margherita si trovò sulle braccia la famiglia in una stagione afflitta da grande miseria. Contadina analfabeta, manifestò straordinaria energia nel provvedere ai suoi due figli Giuseppe e Giovanni (quattro e due anni).

1819. Margherita aveva 29 anni quando le morì il marito e non spese tempo per piangersi addosso. Si rimboccò le maniche e cominciò a lavorare.

Lei, come altre sode contadine, falciava l'erba, arava, mieteva il grano e trebbiava. Rincarava le viti, e pensava alla vendemmia e alla svinatura. Ai ragazzi toccavano i servizi di casa, andare a far legna, accendere il fuoco, attingere acqua, sbucciare i legumi, pulire la stalla, portare le mucche al pascolo e poi... via a giocare. Amichetti forti e vivaci li attendono, vanno per nidi, a caccia di talpe, a giocare alla «lippa», un primitivo base-ball.

1822. Nel Piemonte ove, dopo le Campagne napoleoniche, sono tornati i Savoia, esce una legge che rende obbligatorie le scuole rurali e popolari: frequenza di tre ore al mattino e tre al pomeriggio, dai «Santi» all'«Annunziata», in concomitanza con la sospensione dei lavori campestri.

1823. A otto anni Giovannino dovrebbe essere iscritto alla scuola di Castelnuovo. Il paese è lontano 5 chilometri, troppi per un bambino. E poi il fratellastro Antonio fa delle difficoltà - perché mandarlo a scuola? Prenda la zappa come l'ho presa io.

1824. Per interessamento della zia, Marianna Occhiena, Giovannino è accolto nella scuola di don Giuseppe Lacqua, prete-maestro di Capriglio, a un tiro di sasso dal colle. Appena impara a leggere, i libri divengono la sua passione e ne chiede a tutti in prestito.

1825. Giovannino ha il primo sogno profetico. Vede un misterioso Personaggio che gli comanda di istruire «quei giovani» ossia il branco di scalmanati che vede in sogno e gli assegna la Maestra «senza la quale ogni sapienza diviene stoltezza».

1826. 26 marzo. È la Pasqua: Giovannino fa la Prima Comunione nella chiesa parrocchiale di Castelnuovo. La mamma gli dice: «Per te è un gran giorno. Dio ha preso possesso del tuo cuore. Ora promettigli di fare ciò che puoi per conservarti buono fino alla fine della vita».

1827. Antonio, il fratellastro che ora ha 18 anni, è sempre «più lontano dalla famiglia» e alla proposta di Margherita di far proseguire gli studi a Giovannino, per farsi prete, sbotta irritato: - Per fare un prete ci vogliono diecimila lire, e chi le acchiappa? - Giovannino si mette da solo a studiare la grammatica. Antonio gli strappa il libro di mano. - Adesso basta. Voglio finirla con questa grammatica. Io sono venuto su grande e grosso senza masticare questi libri.

Giovannino ribatte: - Anche il nostro asino non è mai andato a scuola ed è più grosso di te. - Antonio gli salta addosso ed è guerra aperta. Ormai tra fratelli c'è il viso dell'arme. Una mattina mamma Margherita dice tristemente a Giovannino: - È meglio che tu vada via di casa. - Giovannino fa fagotto e riesce a prendere servizio alla cascina Moglia.

1827-1829. Giovanni Bosco è alla Cascina di Moglia in qualità di «servente», e sua incombenza è badare alla stalla: rifare ogni mattina il «letto» di paglia fresca alle mucche, portando via il letame con la carriola, strigliare gli animali, portarli all'abbeveratoio, salire sul fienile e gettare nelle mangiatoie il fieno per la giornata, mungere il latte. Il tutto non certo da solo, ma alle dipendenze del «vaccaro» che gli affida i lavori adatti a un ragazzo. A sera, Giovannino guida la recita del rosario. Per dormire, i Moglia gli hanno assegnato una bella stanzuccia e un buon letto. Quando tutti dormono, Giovannino si azzarda ad accendere un mozzicone di candela e si immerge nella lettura di qualche libro che don Lacqua gli ha imprestato. La domenica si alza per tempo e va a Moncucco. La sua padrona, Dorotea Moglia, vuol rendersi conto e una mattina all'alba si reca a Moncucco ove, dalla casa di una sua amica, spia l'arrivo di Giovannino. Ecco, egli entra in chiesa. Lo segue. Lo vede accostarsi al confessionale del parroco, ascoltare la prima messa e fare la comunione.

1830. Allo scadere dei contratti rurali lo zio Michele (fratello di mamma Margherita) va a trovare il nipote sui pascoli dei Moglia.

- Allora, Giovannino, sei contento o no di star qui?

- No. Mi trattano bene, ma io voglio studiare.

- Allora riporta le bestie nella stalla e torna ai Becchi. Parlerò io con tuo fratello Antonio a proposito dei tuoi studi.

A sera, zio Michele infatti rabbonì Antonio, accollandosi tutta la spesa degli studi di Giovannino. Egli, Antonio, era alla vigilia di mettere su casa propria. Stava per sposarsi con una ragazza di Castelnuovo e Margherita divise i pochi beni paterni tra i figli. Nel frattempo Giovannino va ad abitare presso il cappellano di Monaldo, don Giovanni Melchiorre Calosso, prete venerando, carico di anni e di esperienza. (Di ritorno da una predica della missione nel paese di Buttigliera, Giovannino aveva recitato all'anziano sacerdote l'intera predica, come se leggesse in un libro).

1830, novembre. Una mattina, mentre Giovannino è ai Becchi, arriva una disastrosa notizia. Don Calosso era stato colpito da infarto. Il ragazzo volò al suo fianco. Il morente lo riconobbe, ma non riuscì a parlargli. Gli indicò la chiave di un cassetto, raccomandandogli, a cenni, di non darla a nessuno. «Con lui moriva ogni mia speranza» - dirà don Bosco nelle sue Memorie.

1831. Lo zio Michele trova una semi-pensione per Giovannino presso un sarto di Castelnuovo e così può frequentare le scuole pubbliche. Cinque chilometri di strada mattina e sera non sono una cosa da ridere, specie d'inverno. Giovannino li fa volentieri e, quando la strada non è un pantano per la pioggia o una pista gelata per la neve, si toglie le scarpe e se le butta a tracolla. Nei giorni peggiori dorme nel sottoscala della pensione.

A scuola i ragazzi del paese lo scrutano con diffidenza. Lo chiamano «il vaccaro dei Becchi». Ma Giovannino sa il fatto suo e ci dà dentro a studiare. Un suo componimento è riuscito così felice che l'insegnante lo legge in classe.

- Chi fa degli svolgimenti così può anche permettersi di portare delle scarpe da vaccaro. Ciò che conta nella vita non sono le scarpe ma la testa. Fuori delle ore di scuola, Giovannino ha i suoi hobbies. Il suo pensionante Giovanni Roberto è sarto e anche musicista. Giovannino impara ad attaccare bottoni, fare orli, cucire fazzoletti, tagliare gilè. Ci riesce così bene che il signor Roberto gli propone di piantare la scuola e di diventare suo aiutante. Poi imparò a esercitarsi sulla tastiera della spinetta, quindi su quella dell'organo. Va anche, per qualche ora al giorno, da un fabbro ferraio e impara a maneggiare il martello, la lima e la forgia.

1831-32. Giovannino fa a piedi, in una tersa giornata dell'estate di san Martino, il viaggio fino a Chieri ove ha trovato di mettersi a pensione presso una buona vedova, Lucia Matta. Aveva 16 anni e per la sua corporatura appariva come un pilastro in mezzo ai condiscepoli della sesta classe (qualcosa come l'attuale prima media) alla quale si iscrive. Dopo soli due mesi si presenta all'esame e viene promosso alla classe quinta (l'ordine è decrescente: dalla quinta si passa alla quarta, alla terza, eccetera). Passati altri due mesi, in via eccezionale, viene ammesso a un altro esame e passa alla quarta. «Tra i miei compagni ero diventato come il capitano di un piccolo esercito». Con questi compagni forma una specie di banda e la battezza «Società dell'allegria». Le dà un regolamento semplicissimo: 1° nessuna azione, nessun discorso che possa far arrossire un cristiano; 2° fare i propri doveri scolastici e religiosi; 3° essere sempre allegri. Come già ai Becchi, l'allegria finisce sempre in preghiera.

1832. Giovanni Bosco inizia la «terza grammatica»; quindi prosegue i corsi di «umanità» (1833-34) e «retorica» (1834-35). In questo periodo si lega in fraterna amicizia con Luigi Comollo, pio e mite ragazzo che Bosco più volte protegge contro le angherie dei compagni.

1834. A vent'anni, Giovanni Bosco incontra alcuni padri francescani che lo invitano: «Vieni da noi». Bosco prepara le carte, ma una notte, in sogno, un frate gli dice: «Tu cerchi pace, ma qui pace non troverai. Altra messe, altro luogo Dio ti prepara». Va a Torino a consigliarsi con san Giuseppe Cafasso. «Entrate in seminario» gli dice perentoriamente il santo.

1833, 23 ottobre. Nella chiesa di Castelnuovo Giovanni Bosco «veste da prete». - Mio Dio - prega - che io cominci una vita nuova. - Poi entra in seminario a Chieri.

1839, 2 aprile. Luigi Comollo muore a 22 anni. La notte seguente, un rumore spaventoso desta Giovanni, che ode la voce dell'amico gridare: «Bosco, io sono salvo!». Per lo spavento egli si ammala gravemente.

1841. Il 29 marzo è ordinato diacono. Il 5 giugno, nella cappella dell'arcivescovado, Monsignor Luigi Fransoni lo consacra sacerdote. Celebra la prima Messa nella chiesa di san Francesco d'Assisi, assistito da don Cafasso. Nella festa del Corpus Domini don Bosco dice la prima Messa a Castelnuovo, fra la gioia di tutti.

1841, 8 dicembre. Don Bosco incontra Bartolomeo Garelli nella sacrestia di san Francesco d'Assisi a Torino e ha la folgorazione della sua futura missione: fondare l'oratorio, dedicarsi all'educazione dei ragazzi poveri e abbandonati.

1844. Don Bosco è assunto dalla Marchesa Giulia Colbert di Barolo quale cappellano per le sue opere assistenziali in Valdocco. Nella notte del 12 ottobre fa il famoso sogno dei lupi e degli agnelli che si mutano in pastori.

1846. L'oratorio è migrante. Prima san Pietro in Vincoli, poi il Rifugio, quindi in poche stanzette di casa Moretta, poi finalmente la tettoia Pinardi. Il 5 aprile don Bosco annuncia ai suoi ragazzi: «Allegri, figlioli! Abbiamo trovato casa».

1848. L'oratorio cresce e si organizza. Moltissimi episodi di questo libro si riferiscono a questo periodo. Intanto scoppia la prima guerra dell'Indipendenza. Le conseguenze della «grande fiammata» si fanno sentire anche all'Oratorio.

1849. Sono i giorni «roventi» dell'approvazione della Legge Siccardi. L'Arcivescovo Luigi Fransoni è internato nel forte di Fenestrelle. Anche l'Oratorio è minacciato.

1852. Il 20 giugno viene consacrata la chiesa di san Francesco di Sales (patrono dell'Oratorio) presso la casa Pinardi.

1853. Don Bosco inizia le Letture cattoliche, saggi di catechesi e di storia della Chiesa, accolte con grande favore, ma che gli attirano le persecuzioni dei Valdesi. Cade in questo periodo l'apparizione del «Grigio». Intanto nell'Oratorio vengono aperti i primi laboratori di calzolai, sarti, tipografi. Anche il convitto di studenti, che costituiscono il primo nucleo della futura Società Salesiana, fiorisce in un clima «eroico» di famiglia.

1854, 29 ottobre. Domenico Savio entra nel convitto dell'Oratorio, accanto a Rua, Cagliero. «Egli ebbe, nell'adempimento di tutti i doveri, un'esattezza che difficilmente si potrà superare» - scrisse don Bosco di lui.

1855. È l'anno dei «grandi funerali a corte!». È anche l'anno della pasquetta eccezionale che i piccoli corrigendi della «Generala» fecero con don Bosco al castello di Stupinigi (e nessuno fuggì). Intanto il 25 marzo, festa dell'Annunciazione, Michele Rua emette la professione religiosa. Nasce la congregazione salesiana. Don Bosco ne è il fondatore. - Il 25 novembre si spegne in Valdocco Mamma Margherita.

1857. In febbraio Domenico Savio cade ammalato. Il medico dell'Oratorio consiglia il riposo e l'aria del suo paese. Il 1° marzo saluta i compagni dell'Oratorio («Non tornerò più» - dice loro). Si spegne a Mondonio il 9 marzo, sussurrando al padre: «Che bella cosa io vedo!». Pio 12° lo dichiarò santo il 12 giugno 1954.

1859. Seconda guerra dell'Indipendenza.

1861. Muore Camillo Benso di Cavour, il ministro che, con la sua «realpolitik», aveva fatto l'Italia.

1862. Garibaldi tenta un attacco contro Roma e viene fermato -a Mentana. La capitale del nuovo regno d'Italia viene trasferita da Torino a Firenze. Ha inizio la grande emigrazione italiana.

1863. Con l'apertura del «piccolo seminario» di Mirabello, nasce il collegio salesiano per ragazzi del popolo. Seguiranno i collegi di Lanzo (1864), Alassio (1870), l'ospizio di Marassi (1871) e il collegio civico di Varazze (1871), il collegio di Valsalice (1872).

1863-64. Don Bosco dà inizio alla costruzione del santuario di Maria Ausiliatrice che viene solennemente consacrato dall'arcivescovo di Torino Monsignor Riccardi il 9 giugno 1868.

1870. Don Bosco ha due udienze dal Papa Pio 9° (l'8 e il 12 febbraio) in seguito alle quali rimette al Pontefice alcune pagine di previsioni sull'avvenire (La voce del cielo al Pastore dei Pastori).

Il 30 settembre i bersaglieri italiani entrano in Roma per la breccia di Porta Pia e il Papa sospende il Concilio Vaticano 1°.

1870-1880. Nasce la missione salesiana. Tra il 1871 e il 1872 don Bosco fa il celebre sogno missionario. Il 29 gennaio 1875 don Bosco accetta ufficialmente la missione salesiana in Argentina e il 5 febbraio annuncia la prima spedizione che egli stesso accompagna l'il novembre successivo fino a Genova, ove i missionari s'imbarcano il giorno 14 sul piroscafo francese Savoie. Il 14 dicembre approdano a Buenos Aires, ove aprono immediatamente un oratorio festivo. Seguono le spedizioni nella Pampas, nella Patagonia, fino ai toldos della Terra del fuoco.

1880. Il 5 aprile il nuovo Papa Leone 13° (eletto il 20 febbraio) affida a don Bosco la costruzione della chiesa del Sacro Cuore in Roma.

1881-1883. In questo periodo cade il grande viaggio in Francia (31 gennaio-31 maggio 1883) per «fare soldi», bruciando le residue energie della vita di don Bosco. È accolto con un fervore incandescente. Dappertutto, a Parigi, ad Amiens, a Lilla le folle vanno incontro al «san Vincenzo de' Paoli» d'Italia. Molte guarigioni si verificano e molte offerte raccoglie per la Chiesa che il Papa gli ha messo sulle spalle.

1884. Altro viaggio nel sud della Francia. Don Bosco è stremato e prima di partire consegna il suo testamento a don Rua. A Marsiglia un medico, visitandolo, gli dice: «Lei è un abito logoro. È stato indossato i giorni feriali e i giorni festivi. Bisogna metterlo in guardaroba. Avrà capito che le consiglio il riposo assoluto». «Peccato! - risponde don Bosco - è l'unica medicina che non posso prendere».

1887, 14 maggio. Consacrazione della Chiesa del Sacro Cuore in Roma. Don Bosco celebrò la messa all'altare di Maria Ausiliatrice e scoppiò in un pianto lungo, irrefrenabile. «Pensavo al mio primo sogno... Allora la Madonna mi aveva detto: a suo tempo tutto comprenderai...».

1888. Il 31 gennaio don Bosco muore nella sua cameretta a Valdocco in Torino. Tra i presenti i fedelissimi don Rua, Monsignor Cagliero e tutti i Salesiani della prim'ora. Confusi tra essi il giovane Luigi Orione e l'autore del libro Don Bosco che ride.

 

 

1. GLI ANNI DEL FOCOLARE

 

Giuanìn testa rotta.

Giovannino Bosco (per la mamma e per tutti solo e sempre Giuanìn) fin da bambino andava matto per i divertimenti. Fra tutti però preferiva il gioco della lippa, che consisteva nel ricacciare con un'asta di legno una specie di cilindro, anch'esso di legno, gettato da un compagno.

Accadeva spesso, ahimè! che la lippa, lanciata da un inesperto, lo colpisse in pieno volto o in testa e allora tutto malconcio e sanguinante correva dalla mamma a farsi medicare.

Mamma Margherita lo rimproverava:

- Perché vai sempre con quei compagni? Non vedi che sono cattivi e ti fanno del male?

- Appunto perché sono cattivi vado con loro. Se ci sono io, stanno più buoni e non dicono parolacce.

- E intanto, vieni a casa con la testa rotta!

- È stata una disgrazia...

- Sta bene... ma non andare più in loro compagnia.

- Mamma!...

- Mi hai inteso?

- Se è per farvi piacere, non ci andrò più; ma pensate che, se mi trovo in mezzo a loro, fanno come voglio io, e si astengono dalle risse e dalle parole cattive.

La mamma era alquanto perplessa, ma, temendo di impedire un bene, dopo un po' di esitazione lo lasciava andare.

Giovannino, presago fin d'allora della sua missione fra i ragazzi, correva, con la testa fasciata, al gioco interrotto, atteso ed acclamato da tutti per la sua ingenua allegria e per i suoi tratti spiritosi, e gridava ai compagni in tono di scherzo:

- Mi raccomando la testa!... almeno la testa!

 

«Volete accarezzarmi le spalle!»

Giovannino è orfano dall'età di due anni. Margherita, la mamma, è donna dolce, ma energica e forte. Deve fare da madre e da padre. In un angolo della cucina c'è un bastoncino flessibile, la «verga». I ragazzi sanno a cosa serve. Margherita non l'usò mai, ma non la tolse mai dal suo posto.

Un giorno Giovannino, per la fretta di correre alla «lippa», dimenticò di chiuder la porta della gabbia dei conigli, dopo avergli dato da mangiare. A sera fu una fatica nera ripescare tutte le bestiole disperse nei prati. Appena Giovannino rientra in casa si sente chiamare:

- Giovannino, portami la «verga».

- Perché? Cosa ne volete fare? - chiede peritoso.

- Portamela e vedrai!

Giovannino va nell'angolo, prende la verga e la porta alla madre, con aria da martire.

- Voi volete accarezzarmi le spalle, lo so!

- E perché no, se mi fai di queste scappate?

- Mamma, non lo farò più, mai più! Giovannino abbraccia la mamma e la verga ritorna al suo posto.

 

«Perdono, mamma!»

Giovannino e il fratello Giuseppe tornano dal campo, ove si miete. L'afa spacca le pietre e i ragazzi hanno una sete da svenire. Mamma Margherita trae dal pozzo una secchia d'acqua fresca e porge la mestola prima a Giuseppe, che è il più grande.

Giovannino fa il muso. È offeso per quella preferenza. Si volta di scatto, pesta un piede e rifiuta di bere. Senza dir una parola mamma Margherita ritira la mestola e ripone il secchio. Passano minuti gravidi di tensione. Poi:

- Mamma, date anche a me da bere?

- Credevo che tu non avessi sete.

- Perdono, mamma!

- Così va bene! - e Margherita porge anche a lui la mestola gocciolante.

Così cresce Giovannino. Piccoletto, bruno, sano come un corno, la risata squillante, la vitalità inesauribile.

 

Diplomazia di un ragazzo.

Un giorno, nel gioco, la «lippa» si rompe. Giovannino e Giuseppe ne tengono una di ricambio sull'armadio di cucina ove sono anche riposte le olle, le bottiglie e i fiaschi di vino. Corre in casa, sale su una sedia e cerca la lippa, ma nella fretta urta nella olla che cade a terra e si spezza, versando tutto l'olio sul pavimento. Confuso, si dà da fare per spazzar via tutto. Ma come farà a tener la cosa nascosta alla mamma? L'olio è così caro!

Pensa e ripensa, va incontro alla madre che è andata al mercato. D'un tratto la vede da lontano. Svelto, taglia un bel ramo da una siepe, lo pota ben bene e corre verso la mamma.

- Come state, Mamma? Avete fatto buon viaggio?

- Sì, Giovannino, e tu sei stato buono? - Mamma Margherita intuisce la manovra del piccolo mariuolo.

- Oh, sentite, mamma, volevo dire... Prendete! - e le porge la verga.

- Eh, tu me ne hai fatta qualcuna delle tue!

- Sì, mamma, questa volta l'ho fatta grossa e merito il castigo.

- Che ti è successo?

- Ho rotto il vaso dell'olio - e narrò il fatto.

- Giovannino, mi dispiace per l'olio, ma sono contenta che non dici bugie a tua madre. Un'altra volta sta' più attento, perché, lo sai, l'olio è caro!

La mamma sorride e Giovannino l'abbraccia.

 

Disavventura di un cacciatore di nidi.

Giovannino è abilissimo nell'arrampicarsi sugli alberi. Pare uno scoiattolo. Un giorno scala una grossa quercia per prendere una nidiata di uccellini.

In un batter d'occhio è alla cima; ma la nidiata si trova all'estremità di un lungo ramo, che facilmente cede sotto i suoi piedi, e si piega.

Giovanni non si perde d'animo. Adagio adagio raggiunge il nido e, ad uno ad uno, si pone in seno gli uccellini.

Fin qui, la cosa è andata liscia; ma il guaio consisteva nel ritornare verso il tronco! Difatti ecco che, ad un tratto, gli scivola un piede, ed egli rimane sospeso per le mani.

La posizione è critica assai. Giovannino lo intuisce e, dopo disperati tentativi per rimettersi sul tronco che sempre più cede, si lascia andare, molleggiandosi con precauzione e s'industria di cader ritto, sulla punta dei piedi e rimbalzando in avanti.

L'acrobazia riuscì a meraviglia; ma restò intontito dallo stramazzone preso da ricordarsene per un bel pezzo.

 

Gli spiriti folletti.

Giovannino è coraggioso ed intrepido. Trovandosi una volta in casa dei nonni materni, sentì parlare di spiriti e dire che in quella casa s'udivano dei rumori più o meno duraturi, ma sempre strani e spaventosi.

Una sera, nel più bello della veglia, si sente sul soffitto un colpo, come di un cesto pieno di bocce; poi, un rumore sordo e lento, che va da un angolo all'altro della stanza.

Tutti tremano.

- Che sarà mai?!

- Gli spiriti, gli spiriti!

Tutti fuggono; Giovannino solo grida:

- Voglio andar a vedere che cosa c'è. Prendete il lume.

Alcuni si fermano, prendono dei lumi e lo accompagnano per la scaletta di legno che mette al soffitto.

Giovanni spinge la porta, entra e, alzando la lucerna, guarda attorno.

Non c'è nessuno; tutto è silenzio.

I presenti si affacciano anche loro; alcuni anzi entrano; ma tosto danno un grido e si precipitano fuori.

Un cesto da grano capovolto ondeggiava, si muoveva e avanzava lentamente.

Alle grida il cesto si era fermato; ma poi riprese a muoversi e venne ai piedi di Giovannino. Attento! È un cesto stregato!

Deposto il lume su una vecchia scranna, Giovannino si curva, stende le mani e lo tira a sé.

- Lascia!... Lascia!... - gli gridano in coro; ma egli non dà retta e coraggiosamente lo solleva.

Là sotto c'era una grossa gallina che la padrona aveva messo in soffitta a covare e aveva dimenticata.

Siccome nel cesto appeso al muro erano impigliati dei granelli di frumento, la gallina, affamata, aveva cercato di beccarli; ma il cesto, rovesciandosi, l'aveva fatta prigioniera.

I discorsi che si facevano di spiriti, di magie e di streghe, e specialmente la paura, avevano fatto credere che si trattasse di cose orribili e diaboliche.

 

Piccolo giocoliere.

Andando ai mercati e alle fiere con sua madre, Giovanni aveva spesso osservato che la gente faceva mucchio intorno agli acrobati e ai prestigiatori.

Ciò parve subito all'intelligente fanciullo un mezzo facile e potente per guadagnare l'attenzione altrui. Incominciò pertanto a prestare la massima attenzione alle loro prodezze; tanto da sorprenderne ogni gesto, scoprirne i trucchi ed apprenderne la destrezza.

Tornato a casa si esercitava a ripetere quei giochi che aveva veduti, finché non fosse riuscito a farli perfettamente.

È facile immaginare le scosse, gli urti, i capitomboli a cui andava soggetto quando, per esempio, voleva imitare i ciarlatani a ballare sulla corda, a fare salti mortali, a camminare con le mani per terra e i piedi in alto; ma con la sua costanza e con la sua agilità, ben presto ci riuscì e divenne abilissimo in ogni sorta di giochi.

Quando fu ben addestrato, cominciò a dare simili spettacoli, specialmente alla domenica.

Attaccava una fune ad una pianta, la raccomandava per bene ad un altro albero a una certa distanza; poi preparava un tavolino, vi collocava sopra una sedia, e stendeva un tappeto per terra.

Quando ogni cosa era pronta e la gente radunata alla gran novità, egli faceva recitare il Rosario, cantare una lode e poi saliva sulla sedia e ripeteva la predica udita la mattina alla Messa, adornandola di fatterelli istruttivi.

Se qualcuno faceva smorfie o brontolava, Giovanni, ritto sulla sedia, come un re sul trono, lo zittiva severamente.

Poi dava inizio allo spettacolo. Fare la rondinella, il salto mortale, camminare sulle mani coi piedi in alto, mangiare gli scudi e andarli a ripigliare sul naso altrui, moltiplicare le pallottole e le uova, cambiare l'acqua in vino, uccidere un pollo e farlo volar via erano le cose più ordinarie.

Sulla corda camminava come per un sentiero; vi saltava e danzava; vi si appendeva ora con un piede, ora con tutti e due, talora con ambe le mani, talora con uria sola, e poi di nuovo si slanciava sopra, con una agilità sorprendente, accompagnando ogni cosa con motti, sortite e amenità piacevolissime.

Tutti ammiravano estatici, ridevano, gli battevano le mani, gli gridavano evviva!...

Ed egli, trafelato e ansante, sospendeva alquanto, occupando gli intermezzi col canto di qualche lode e con la morale di qualche favola.

Uno solo faceva lo gnorri; ed era il fratellastro Antonio, il quale lo scherniva dicendo:

- Pagliaccio! Farai il ciarlatano per tutta la vita.

 

Piccole industrie.

Ma per allestire quanto occorreva per siffatti divertimenti occorrevano spese. Giovanni, che era intelligente e sveglio, si aggiustava.

Era bravissimo ad uccellare con la trappola, con la gabbia, col vischio, col laccio. Praticissimo di nidiate, faceva buona raccolta di uccelli di ogni specie, che sapeva vendere assai bene.

Fabbricava cappelli di paglia, canestri e cestelli che portava al mercato.

Anche i funghi e le erbe aromatiche erano per lui fonte di guadagno e perfino le serpi che portava in farmacia.

Aveva imparato a filare stoppa, cotone, lino, fiorone di bozzoli da seta. Riusciva anche a fare calze e maglie sui ferri, e da tutto traeva profitto.

La mamma, che osservava ogni cosa, lo lasciava fare, perché intuiva lo scopo nobile del suo Giovannino, il quale fin da quell'età faceva presagire di sé grandi cose.

 

Sfida per la prima volta un ciarlatano.

Una domenica sera, in una cappella di un'altra borgata, vi doveva essere la predica. La chiesa era ormai piena di gente, quando, all'improvviso, si ode un suono di tromba: era quella di un ciarlatano.

Non fu possibile trattenere i ragazzi e i giovanotti, che si precipitarono fuori; e le ragazze gli tennero dietro. Così fecero a poco a poco gli uomini; e in chiesa non restarono che poche donnette.

Giovanni esce anche lui sulla piazzetta, si mette in prima fila, e sfida il ciarlatano a dar saggi di destrezza. Questi guardò il piccolo con aria di scherno; ma siccome tutti gridavano, accettò la sfida, e propose il gioco della bacchetta magica. Tratta difatti una bacchetta, invitò il ragazzo a provarvisi.

Giovanni, prese la bacchetta, vi infilò il suo cappello; quindi, appoggiata l'altra estremità sulla palma della mano, la fece saltare sulla punta del dito mignolo, dell'anulare, del medio, dell'indice, del pollice, quindi sulle nocche della stessa mano, sul gomito, sulla spalla, sul mento, sulle labbra, sul naso, sulla fronte; indi, rifacendo lo stesso cammino, la bacchetta gli ritornò sulla palma della mano, e la presentò al ciarlatano perché facesse altrettanto.

La gente, che mirava estatica, scoppiò in applausi e tutti presero a gridare:

- A voi... a voi!

- Non temo di perdere - esclamò il ciarlatano. Ed afferrata la bacchetta con sdegno, la fece camminare quasi con ugual destrezza fin sulle labbra, ma qui, avendo il naso alquanto lungo, la bacchetta inciampò, perdette l'equilibrio e scivolò a terra. Le risate divennero omeriche; le grida, le urla, gli schiamazzi toccarono le stelle, e il poveretto, raccolte in fretta le sue carabattole, si eclissò sdegnato.

Allora Giovanni, rivolto alla gente, gridò in tono perentorio:

- E ora in chiesa alla predica! Neppure uno mancò.

 

Addio, piccolo merlo.

Avendo un giorno preso un merlo, lo allevò con cura e lo addestrò al canto, zufolandogli all'orecchio note e ariette, di modo che, dopo un po' di tempo, quell'uccello era diventato il suo divertimento e la sua delizia.

Ma... «Ogni cosa quaggiù passa e non dura!».

Un brutto giorno, ritornando da scuola, trovò la gabbia vuota. Un gatto l'aveva sfondata e il merlo era sparito. Rimaneva un ciuffo di piume insanguinate. Giovanni si mise a piangere. Sua madre cercò di calmarlo, dicendogli che di merli nei nidi ne avrebbe trovati ancora. Ma Giovanni continuò a singhiozzare. Non gli importava niente degli altri merli. Era «quello lì», il suo piccolo amico, che era stato ucciso, che non avrebbe mai più visto.

Rimase triste alcuni giorni, e nessuno riusciva a farlo ritornare allegro. «Finalmente - racconta il Lemoyne - si fermò a riflettere sulla nullità delle cose mondane, e pigliò una risoluzione superiore all'età sua: propose di non attaccare mai più il cuore a cosa terrena».

 

Pane nero e buon cuore.

Giovanni Bosco aveva per compagno di pascolo un certo Secondo Matta, servitorello di una fattoria vicina.

Questi di solito riceveva per la colazione un pezzo di pane nero mentre Giovanni riceveva dalla mamma una bella fetta di pane bianco.

Spesso Giovannino diceva a Secondo:

- Mi fai un piacere?

- Volentieri.

- Facciamo cambio del pane?

- Perché?

- Il tuo dev'essere più gustoso del mio, o almeno, mi piace di più.

Matta, nella sua semplicità, pensando che Bosco trovasse il suo pane realmente più gustoso, accettava subito.

Così continuò per tre primavere consecutive, quantunque il pane nero e duro di Matta non fosse davvero una ghiottoneria. Solo quando fu adulto Secondo Matta si rese conto della bontà di Giovannino Bosco.

 

L'anima dei divertimenti.

Giovannino si rivela l'anima dei divertimenti. Il suo è un vero complesso di leader. Sarà così anche in seguito. Il gioco sarà sempre per lui un mezzo per conquistarsi il cuore dei ragazzi, a fine di bene.

Con la sua fine osservazione e perspicacia aveva imparato molti giochi: carte, tarocchi, pallottole, stampelle, salti, corse; era celebre in tutti, e dava spesso pubblici e privati spettacoli. E questo recava meraviglia, perché in quei tempi tali giochi erano poco conosciuti.

Tutto ciò, senza parlare dei giochi di prestigio, di corse, salti, ginnastiche, nelle quali cose era addirittura insuperabile.

Egli aveva fatto suo il detto:

Laetare et bene facete... 

Lasciar cantar le passere!

Ogni volta che vedeva crocchi di compagni amici o conoscenti e poteva temere che uscissero in qualche discorso poco onesto, bellamente vi si introduceva e cominciava a distrarli con parole cortesi, poi intraprendeva qualche gioco gustoso.

Ora li sfidava a prendere un soldo da terra col dito mignolo e coll'indice della stessa mano; ora a far arco della persona, rivoltandosi totalmente indietro così da toccare il suolo col capo; ora a congiungere bene i piedi ed a chinarsi a baciare la terra senza toccarla con le mani.

Altre volte li sfidava a prendere con la bocca un pomo galleggiante in un mastello ripieno di acqua, o una moneta nascosta in un recipiente pieno di farina, oppure a correre e saltare coi piedi legati insieme da una funicella.

Altre volte prendeva a declamare versi, parlare in latino e in greco, improvvisava sermoni, dialoghi, commedie.

Così occupati, più nessuno pensava a discorsi pericolosi; e partivano sempre con qualche salutare pensiero; nei quali Bosco era maestro perfetto.

Sempre ridere e scherzare,

ma senza mai peccare!

 

 

2. LO STILLICIDIO DELL'ADOLESCENZA

 

Ragazzo di stalla alla cascina Moglia.

Quando mamma Margherita ventilò la proposta di far continuare gli studi a Giovannino che aveva già 12 anni, esplose l'ostilità del fratello Antonio.

- Lui vuole diventare prete? Ma i soldi chi li dà? Giovannino si mise a studiare da solo la grammatica.

Antonio non lo può soffrire, gli strappa il libro di mano.

- Adesso basta. Voglio farla finita con questa grammatica. Io sono venuto su grande e grosso senza masticare sui libri.

- Anche il nostro asino non mastica libri ed è più grande di te - risponde risentito Giovannino.

Antonio si avventò sul fratello. Giovannino fu pestato, nonostante le lacrime di mamma Margherita, la quale meditò a lungo quella notte sulla situazione domestica. Così non poteva continuare. Da donna energica, prese una decisione dolorosa.

Il mattino dopo disse tristemente a Giovannino:

- È meglio che tu vada via di casa. Tuo fratello non ti può soffrire. Vai a mio nome nelle cascine qui intorno, se qualcuno ti può prendere come «servente» per un anno. Poi si vedrà!

Giovannino con il suo fagottello sulla spalla uscì di casa e si accasò presso i fratelli Moglia di Castelnuovo. Faceva il ragazzo di stalla.

Un giorno il giovane padrone Luigi Moglia condusse seco il piccolo garzone perché l'aiutasse a piantar le nuove viti. Giovanni legava con vimini, vicino a terra, le nuove viti ai rispettivi pali. A un certo punto, stanco del faticoso ed incomodo lavoro, esclamò:

- Oh, che male di schiena!

- Avanti, avanti, - rispose il padrone. - Se non vuoi aver male di schiena quando sarai vecchio, bisogna che ti avvezzi adesso che sei giovane.

Giovanni continuò il lavoro e poco dopo, guardandolo con aria sorridente, soggiunse:

- Ebbene, queste viti che ora lego, faranno l'uva più bella, daranno il vino migliore e dureranno più delle altre.

- Va' là, boc! (che vuol dire minchione) - rispose il Moglia. - Fosse vero!

E fu proprio vero. Quel filare produsse ogni anno il doppio degli altri, che con l'andar del tempo perirono e più volte furono rinnovati, mentre le viti del «filare di don Bosco» prosperarono con ammirazione di tutti dal 1828 al 1890, cioè per oltre 60 anni.

Quando, dopo tanti anni, i nipoti dei Moglia si recavano all'Oratorio in Torino, portavano al santo di quell'uva, ricordando il prodigio continuo.

Un altro giorno il vecchio Giuseppe, zio di Luigi Moglia, padrone della fattoria, arriva dalla campagna tutto sudato e con la zappa in spalla. È mezzodì e sulla torre di Moncucco scocca il suono delle ore. Il vecchio si siede a tirare il fiato e vede Giovannino in ginocchio sul fieno che recita l'Angelus, come mamma Margherita gli ha insegnato.

- Ma bravo! Noi padroni ci logoriamo la vita sulla zappa - gli dice in tono semiserio - e il garzone se la prende calma e se ne sta a pregare in pace.

- Quando c'è da lavorare, barba Giuseppe, sapete che non mi tiro indietro - ribatte pronto Giovannino -; ma mia madre mi ha insegnato che, quando si prega, da due grani nascono quattro spighe. Se invece non si prega, da quattro chicchi nascono due spighe sole. Sarà meglio che preghiate un po' anche voi.

- Salute! - conclude il vecchio -. Adesso abbiamo anche il prete in casa.

Nella bella stagione il garzone porta le mucche al pascolo e mentre gli animali brucano l'erba intorno, Giovannino, all'ombra di un albero, perde la testa sui suoi libri.

- Perché leggi tanto? - gli chiede Luigi Moglia.

- Voglio diventare prete.

- E dove li prendi i soldi che ci vogliono, oggi, per studiare?

- Se Dio vuole, qualcuno ci penserà.

C'è in casa una bambinetta, Anna, che vedendo Giovannino intento a leggere, invece di badare ai suoi giochi, si indispettisce:

- Piantala di leggere, Giovanni.

- Ma io diventerò prete e dovrò predicare e confessare.

- Sì, prete! - lo canzona la bimba; - un vaccaro tu diventerai!

- No. Tu adesso mi prendi in giro, ma un giorno verrai a confessarti da me. - E così fu.

 

La predica ben pagata.

Nel novembre del 1829 ci fu una «missione» predicata a Buttigliera d'Asti e v'accorreva anche la gente dei paesi d'intorno. Giovanni Bosco vi andò assiduamente, tutto felice di poter ripetere la sera la predica a mamma Margherita.

Una sera, tornando a casa, si trovò a camminare vicino a un vecchio prete reduce anche lui dalla missione.

- Ragazzo, - gli dice il vecchio prete, con aria bonaria - ti do quattro soldi se mi sai dire quattro parole della predica di oggi.

Giovanni attacca e recita l'intera predica, come se leggesse un libro.

- Ohi, là, là! Bene! Che scuola hai fatto?

- Ho imparato a leggere e a scrivere. Mi piacerebbe studiare ancora ma mio fratello più grande non ne vuole sapere.

- E perché vorresti studiare?

- Per farmi prete.

- Ebbene, vieni a stare con me.

Il prete è don Giovanni Melchiorre Calosso, settant'anni, in pensione, che fa il cappellano a Morialdo.

Margherita fu lieta di sistemare Giovannino presso il vecchio prete che gli avrebbe fatto scuola. Giovannino è alle stelle. Trovava di colpo quel che gli mancava: confidenza paterna, senso di sicurezza, fiducia. Passò così un anno in un batter d'occhio.

 

Orfano un'altra volta.

Racconta Giovanni: «Nessuno può immaginare la mia contentezza. Amavo don Calosso come un padre. Quell'uomo di Dio mi portava tanto affetto che mi disse più volte: - Non darti pena per l'avvenire, Giovannino. Finché vivrò non ti lascerò mancare niente. E se muoio provvederò a te ugualmente».

Un disastro fece crollare tutte le speranze.

Un mattino di novembre 1830 Giovanni era a casa da mamma Margherita per farsi cambiare la biancheria, quando arriva una brutta notizia: don Calosso è stato colto da infarto. Il ragazzo vola a Monaldo e trova don Calosso morente che, non potendo più parlare, gli indica la chiave di un cassetto, facendo segno di non consegnarla a nessuno. Per lui la morte del buon prete fu uno schianto.

Vennero i nipoti di don Calosso, per i funerali. Giovanni, scrupoloso e sincero come sempre, consegnò loro la chiave. Erano gente onesta che capiva la situazione e gli dissero:

- Pare che lo zio volesse lasciare a te questo denaro... (Nel cassetto c'erano seimila lire). Tu prendi pure quello che vuoi!

- Non voglio niente! - si sentì gridare Giovanni, con il pianto in gola.

Non era il denaro che gli premeva. Era affranto per la sua situazione. A 15 anni si ritrovava solo, senza maestro, senza padre, senza mezzi, senza una prospettiva per il futuro. «Piangevo inconsolabile» scrive.

 

Se riesco a farmi prete.

Dio è grande. Con l'aiuto di barba (zio) Michele, Giovanni si iscrive all'unica scuola di grammatica (oggi diremmo scuola media) che è aperta a Castelnuovo, il capoluogo di comune.

Qui vede spesso molti preti e li osserva se, per caso, ne trova qualcuno che somigli a don Calosso.

Ma sono diversi. Egli li saluta con deferenza e si aspetta un sorriso, una buona parola. Niente.

A quei tempi si credeva che la gravità sostenuta fosse il vero contegno delle persone di chiesa; e quindi restituivano appena il saluto passando, senza curarsi di lui, che spesse volte se ne lamentava con la madre:

- Che cosa costerebbe loro una buona parola, un buon suggerimento? Oh quanto bene farebbe alla mia anima!... Gesù non faceva così! Io, vedete, se riuscirò a farmi prete, voglio consacrare tutta la mia vita ai ragazzi.

Non mi vedranno mai troppo serio; sarò sempre il primo a parlare e a tenerli allegri.

«Li farò giocare, li farò cantare,

E con l'allegria tutti li vorrò salvare!».

E pareva che già pregustasse la sua futura nobilissima missione.

 

A scuola, ma con i buoni.

Nell'ambiente scolastico ci si ritrova tutti: buoni e cattivi. I ragazzi impegnati di solito sono disciplinati e silenziosi. Gli scapestrati sono spavaldi e fanno chiasso. Giovanni fu adescato da questi:

- Vieni con noi, facciamo sega (mariniamo la scuola), andiamo in giro a dar fastidio alle ragazze...

- Lasciatemi perdere. Non ho denari da spendere.

- Come! non hai denari?!... Ah, mio caro, è tempo di svegliarsi! bisogna imparare a vivere al mondo! Suvvia, cercati i soldi, prendine dove ce n'è, e godrai anche tu come noi.

A tali suggerimenti, Giovanni rispondeva:

- Come!... Voi dunque vorreste che io imparassi a rubare?! Ma non sapete che chi ruba fa peccato, e che i ladri e i giocatori fanno trista fine?! Se voi fate questo mestiere andrete a finir male. Via da me, ché non sarò mai vostro amico!

Tanto bastò perché da quel giorno i pochi cattivi lo lasciassero tranquillo, mentre i buoni si assiepavano attorno a lui.

Uno scolaro assai dotato.

Giovanni aveva passione per lo studio, buona capacità di apprendere, memoria prodigiosa. Ma il suo maestro s'era ficcato in testa che Bosco, essendo della frazione dei Becchi e figlio di contadini, non poteva che essere scarso di mente. La sua stessa età (16 anni ormai) lo dimostrava.

Un giorno c'era compito in classe. Bosco, che era in prima grammatica, chiese al maestro che gli lasciasse svolgere il compito assegnato a quelli di terza grammatica.

L'insegnate si offese:

- Come?! E come pretendi, tu che sei dei Becchi... Piuttosto, dimmi un po', ti pare che questo sia pane per i tuoi denti?

Bosco educatamente insistette di poter fare l'uno e l'altro compito.

- Fa' pure come ti piace! Ma non penserai che io legga le bestialità che metterai in carta!

Il compito di terza era un passo di un autore classico assai scabroso. Bosco si raccolse, lavorò di lena e in breve tempo consegnò la sua traduzione.

L'insegnante prese il foglio e lo gettò sul tavolo, senza guardarlo.

- La prego, professore, legga e mi dica gli errori che ho fatto.

- Legga, legga, professore! Anche noi vogliamo sentire i suoi spropositi! - fece coro la classe.

L'insegnante lesse: era una traduzione insolitamente fluida e corretta. Ma egli, deponendo il foglio, disse, in tono di scherno:

- Io lo pensavo. Bosco ha copiato tutto da capo a fondo.

- E da chi avrei copiato, professore? - obiettò serenamente Giovanni, indicando i compagni intenti ai loro elaborati ancora incompiuti.

 

L'albero della cuccagna è una provvidenza.

Nelle vacanze, a Montafia, paese vicino a Castelnuovo, c'era la sagra con le consuete attrazioni e giochi, tra i quali l'albero della cuccagna, un abete ben liscio e insaponato, in cima al quale svettava una bella corona di premi, tra i quali una borsa con venti belle lire.

- Mi farebbero comodo - pensò Giovanni.

Una folla stragrande assisteva allo spettacolo. I giovani del paese, l'uno dopo l'altro, si avvicinavano e tentavano la scalata.

Uno giungeva a un terzo, l'altro a metà; ma poi, non potendone più, scivolavano a terra.

Le grida della gente, che ora incoraggiava ora fischiava, andavano alle stelle.

Giovanni che, intanto, osservava attentamente, notò che tutti i contendenti davano la scalata con rapidità, e la continuavano senza prendere fiato per cui, arrivati a un certo punto, si sentivano venir meno e trascinare a terra dal proprio peso.

Venuto il suo turno, si presentò risoluto in mezzo allo spazio, e prese ad arrampicarsi con calma, incrociando di quando in quando le gambe per annodarle all'albero e sedersi sulle calcagna a riposare.

Gli spettatori che non intendevano il perché di quella manovra si aspettavano di vedere anche lui, da un momento all'altro, ripiombare a terra.

Ma Giovanni saliva, saliva; e allorché fu vicino alla cima che dondolava perché molto sottile, si fece un silenzio generale, che poi scoppiò in frenetico applauso quando, aggrappatosi al cerchio, egli prese ad intascare gli oggetti di premio.

Giunto a terra, sgattaiolò fra la gente e corse giubilante a casa.

 

Saggio di capacità.

Dalla scuola di Castelnuovo, passò al Ginnasio di Chieri. Qui gli toccò un professore molto severo, il quale, al vedersi dinanzi un allievo alto e grosso come lui, scherzando disse in piena scuola:

- Costui o è una grossa talpa, o un gran talento. La scolaresca rise, e Bosco, sorridendo anche lui, rispose:

- Qualche cosa di mezzo!... Ho però buona volontà.

Erano passati appena due mesi, e un giorno Bosco aveva dimenticato a casa il libro di testo.

Il professore, dopo avere spiegato e fatto i commenti, accortosi che Bosco non teneva il libro dinanzi, lo chiamò a leggere il testo latino che aveva spiegato.

Bosco non si scompose. Preso in mano un libro qualunque, ripetè a memoria il testo, la costruzione, e tutti i commenti fatti dal professore.

Appena finito, i compagni diedero in un battimani generale. Il professore, andando sulle furie, volle sapere il perché di quel disordine. Allora, presero a dire:

- Bosco ha in mano un altro libro, e legge e spiega come se avesse il testo.

Il professore volle accertarsi. Prese in mano il libro che Bosco teneva, lo fece ancora proseguire per alcuni periodi, e passando dallo sdegno all'ammirazione, gli disse:

- Siete un prodigio di memoria; procurate di servirvene in bene!

Prodigio di memoria.

Nel leggere tutte queste cose di San Giovanni Bosco studente, qualcuno potrà pensare che trascurasse lo studio. Tutt'altro. Essendo stato abituato fin da bambino a dormire assai poco, impiegava due terzi della notte sui libri, e talvolta accadeva che l'ora della levata lo trovava ancora coi libri in mano.

Messosi d'accordo con un libraio, si era associato alla lettura dei classici latini ed italiani, e li leggeva non per solo divertimento, ma per penetrarne il giusto senso e la bellezza. Li studiava, e riteneva non solo i punti più salienti, ma spesso l'intero testo.

Non faceva distinzione fra leggere e studiare e con facilità poteva ripetere il contenuto di qualsiasi libro di italiano, latino o greco, letto o udito leggere.

Un giorno, un compagno col quale si preparava ad un esame, gli disse:

- Bosco, vuoi che scommettiamo chi impara per primo questa pagina?

- Proviamo pure.

Lettala appena, il compagno la recitò alla lettera.

- E adesso a te - soggiunse.

Bosco la ripeté tale quale, e poi continuò:

- E ora sapresti dirla dalla fine al principio?

- Che stranezza! - esclamò il compagno.

- Ebbene, io te la dico. - E prese a recitarla dall'ultima parola alla prima.

 

Altre doti sorprendenti e... più che naturali.

Nella vita di don Bosco i «sogni» costituiscono un capitolo a sé da studiare attentamente. Per ora tradiscono una capacità prodigiosa di «preveggenza» che riesce molto utile al nostro Amico.

Eccone un saggio.

Una notte, sognò che il professore aveva dettato il compito in classe, e che egli stava eseguendolo. Svegliatosi, balzò di letto e scrisse quel compito che era un testo latino; poi prese a tradurlo con tutta comodità.

Al mattino il professore detta davvero il compito, e precisamente quello sognato da Giovanni. Questi, senza aiuto di vocabolario, e in brevissimo tempo, consegnò il foglio con meraviglia di tutti. Ma la meraviglia crebbe d'assai quando, interrogato dal professore, confessò ingenuamente di aver sognato quel compito nella notte.

Altra volta capitò la stessa cosa.

Bosco aveva consegnato in pochi minuti il compito, eseguito a perfezione. Il professore, grandemente ammirato, comandò che gli portasse la brutta copia. Giovanni obbedì.

Il professore aveva preparato quel compito la sera precedente, ma vedendo che era troppo lungo ne aveva dettato solo la metà. Ora, con suo grande stupore, lo trovava tutto intero nel quaderno del ragazzo.

Quale arcano si nascondeva là sotto?! Che Bosco fosse penetrato di notte nella camera del professore a copiarlo, era impossibile. Dunque?!

Bosco candidamente confessò: «Ho sognato». Cioè, aveva sognato il dettato e la traduzione, e li aveva scritti interi sul quaderno, mentre sul foglio da consegnare si era limitato a scriverne quanto aveva dettato il professore.

 

Muscoli di ferro.

A proposito della vigoria fisica di don Bosco l'autore di queste pagine può attestare quanto segue. Nel dicembre 1884, recatosi don Bosco a San Benigno per la seconda vestizione clericale dei suoi novizi, passò con loro tutta la giornata, raccontando amenità della sua gioventù. Ad un certo punto, uno dei chierichetti che il santo teneva per mano, si fece a dirgli:

- Don Bosco, lei, quand'era giovane, vinceva nelle corse i saltimbanchi, ed ora può appena trascinarsi! Peccato che le gambe non servano più!

- Veramente, le gambe non mi vogliono più servire, ma le mani mi servono ancora, - rispose sempre sorridente il santo. E prese a stringere così fortemente le mani di quanti le avevano fra le sue, che tutti, con grandi stenti, poterono liberarsi, meno il poveretto di cui sopra che fu costretto a chiedere pietà.

Tergendosi allora i sudori, e stropicciandosi le dita livide, esclamò:

- Davvero che le servono le mani! Ha dei muscoli di ferro... Io ho provato!

 

 

3. ANNI VERDI E SERENI

 

La veste nera e il seminario.

A diciannove anni Giovanni Bosco deve decidere il suo avvenire.

Ha ancora voglia di farsi prete?

Anzi, pensa addirittura di farsi francescano. Inoltra regolare domanda e viene accettato. Ma non è questa la volontà di Dio.

La madre, Margherita Bosco, gli fa questo discorsetto:

- Sentimi bene, Giovanni. Io voglio che tu ci pensi bene e con calma. Quando avrai deciso, segui la tua strada senza guardare in faccia nessuno. La cosa più importante è che tu faccia la volontà del Signore. Il parroco vorrebbe che io ti facessi cambiare idea, perché in avvenire potrei avere bisogno di te. Ma io ti dico: in queste cose tua madre non c'entra. Dio è prima di tutto. Da te io non voglio niente, non mi aspetto niente. Io sono nata povera, sono vissuta povera e voglio morire povera. Anzi, te lo voglio dire subito: se ti facessi prete e per disgrazia diventassi ricco, non metterò mai piede in casa tua. Ricordalo bene.

Il suo amico, Luigi Comollo intanto ha deciso di entrare nel Seminario di Chieri. Bosco è ancora perplesso. L'amico Evasio Colli gli dice:

- Vai a Torino a consigliarti con don Cafasso. È il più bravo prete che io conosca.

Bosco va a Torino e cerca di don Giuseppe Cafasso, un pretino di 23 anni, che lo ascolta con calma e attenzione. Questi alla fine taglia netto e gli dice:

- Entrate in seminario. Per il denaro non ci pensate. Qualcuno provvederà.

Il 25 ottobre di quell'anno (1834) Giovanni Bosco, nella chiesa di Castelnuovo, prima della messa grande, riceve dal parroco «la veste da prete». La talare nera è stata cucita da mamma Margherita, di notte. Bosco la riceve tutto commosso alle solenni parole del rito.

«Mio Dio, che io cominci davvero una vita nuova!».

Il 30 ottobre successivo entra in seminario. Il colpo di timone alla sua vita ormai l'ha dato per sempre.

 

Novello Sansone.

Quand'era nel Ginnasio a Chieri un giorno, durante l'ingresso nella scuola, alcuni discepoli si diedero a molestare Luigi Comollo, che era il più intimo amico di Bosco, e che era anche il più virtuoso della scolaresca.

Bosco ne prese la difesa; ma essi, indispettiti, passarono alle busse con pugni e calci al povero Comollo. A quella vista, Bosco perde il controllo di se stesso, e abbrancato uno di quei mascalzoni per le spalle, novello Sansone, se ne serve come di un manganello, e sbatacchia per diritto e per rovescio quegli scalmanati.

In quella, entra il professore che, vedendo braccia e gambe rotear per l'aria, montò sulle furie, e volle sapere il perché di quella scenata.

Bosco, per nulla turbato, disse la pura verità, ed il professore apostrofò quei cattivi soggetti dicendo:

- Vi meritereste un castigo assai più grave, ma per questa volta vi basti quello ricevuto da Bosco. Attenti però a non più molestar nessuno, specialmente chi è più saggio e più virtuoso di voi.

 

Suonatore di violino.

A Chieri, dal capo cantore del Duomo, aveva anche imparato a suonare il violino, e con questo accompagnava le funzioni.

Invitato da un suo zio di 102 anni ad intervenire ad una festa in una frazione di Buttigliera d'Asti per aiutare a cantare ed anche a suonare il violino, vi si prestò; e ogni cosa andò benissimo fin dopo il pranzo fatto in casa di quello stesso zio, che era il priore della festa.

Finito di desinare, i commensali, fra cui anche il Parroco, lo invitarono a suonare qualche cosa a mo' di sollievo; ed egli, per compiacere specialmente il vecchio zio che più di tutti insisteva, non seppe rifiutarsi, e suonò per un buon tratto applauditissimo.

Quand'ecco ode un bisbigliare e un calpestio nel sottostante cortile. Si fa alla finestra che era aperta, e vede una frotta di ragazzi e ragazze che danzava al suono del suo violino.

Non si può esprimere lo sdegno da cui fu invaso in quel momento il chierico Bosco.

- Come! - gridò ai commensali, - io che tanto protesto contro il ballo, ne sono diventato il promotore?! Ciò non sarà mai più!...

E gettato a terra il violino, vi saltò sopra coi piedi, lo fece in mille pezzi, e non ne volle più sapere di suonarlo per l'avvenire.

 

Più forte di un cavallo.

Nelle vacanze pasquali del 1835 (Bosco aveva 20 anni) andò a trovare un suo amico a Pinerolo, un certo Annibale Strambio, che fu poi uomo di Stato, Console a Marsiglia e grande amico dei Salesiani.

In quei giorni, Bosco e l'amico stabilirono di fare una passeggiata a Fenestrelle.

Si incamminarono con un calesse trainato da un cavallo. La cosa andò bene sulle prime, ma a un certo punto si levò un vento così furioso, che respingeva il cavallo e toglieva ogni forza. Anzi, sollevava un turbinio di sabbia e pietruzze che sbatteva nei loro volti e negli occhi del povero animale.

L'aria si faceva buia; la bestia ansante urtava qua e là sbuffando, e non voleva più proseguire, mentre il vento impetuosissimo minacciava di precipitarli fra i dirupi. A buon punto però scorsero poco distante, accanto alla strada, un incavo nel monte che offriva sicuro rifugio; ma come raggiungerlo? Il cavallo non voleva più saperne; le ruote erano affondate, la strada deserta.

Bosco dice al compagno:

- Annibale, prendi la bestia nel morso, ed io andrò a spingere.

Così fecero, ma il cavallo, anziché avanzare, indietreggiava.

- Ebbene, - ripigliò Bosco, - tu, Annibale, passa qua a spingere, piglierò io il cavallo.

Passò innanzi, prese l'animale per la cavezza, e adoperando tutta l'energia e la potenza dei suoi nervi, trascinò cavallo, calesse ed amico sotto il provvidenziale rifugio.

 

Il numero con il cavallo.

Nelle stesse vacanze andava a ripetizione presso il Parroco di Castelnuovo, il quale gli diede l'incarico di tenergli pulito il cavallo.

Giovanni, ben lieto, ne aveva ogni cura, e nei giorni in cui il Parroco non ne abbisognava, lo conduceva a passeggio, lo spingeva al galoppo e, correndogli a fianco, gli saltava in groppa, e riusciva a stargli in piedi sul dorso mentre il cavallo continuava la corsa.

Un bel giorno però gliene capitò brutta.

Mentre cavalcava allegramente, il cavallo si adombrò per uno stormo di uccelli, sollevatisi all'improvviso da una siepe accanto alla via, sbalzò di groppa il cavaliere, e si diede ad una corsa sfrenata per i campi.

 

Coraggio alla prova.

Don Bosco, studente di Teologia nel Seminario di Chieri, si era fatto un amico buono e santo come lui, nella persona del chierico Luigi Comollo, e con lui passava spesso i giorni delle vacanze.

Comollo si recò una volta ai Becchi, e la mamma, dopo i primi convenevoli, disse ai due amici:

- Vorrei farvi onore, ma, siccome debbo attendere alla mietitura, vi lascio padroni di casa, con l'ordine di accopparvi un pollo e mangiarvelo in santa allegria. - E se ne andò.

I due, dopo aver ragionato a lungo dei loro studi, e di molte altre cose utili e buone, s'accorgono che punge l'appetito, e allora Bosco dice:

- Suvvia, è tempo, facciamo l'obbedienza della mamma.

- Ebbene - risponde Comollo - io accenderò il fuoco, e tu metterai la pentola.

- Benissimo - continuò don Bosco - ma prima sarà meglio acciuffare il pollo, che ci serva di brodo e di pietanza.

Il metter le mani addosso a un pollo non fu difficile cosa; il più fu poi ucciderlo!... Né l'uno né l'altro si sentiva di farlo. Quindi decisero di tirare la sorte, che toccò a Comollo.

Questi prese il pollo per la testa, lo roteò alquanto in giro sopra il capo, e l'abbandonò alla ventura.

Il povero pollo andò a cadere stramazzoni in mezzo all'aia, ma tosto si raddrizzò e, passato il momentaneo sbigottimento, prese allegramente a cantare un delizio so chicchirichì, sbattendo le ali in segno di trionfo.

I due restarono con un palmo di naso; risero dell'amena scenetta, e deliberarono di prenderne un secondo.

Questa volta si provò il Bosco. Lo agguantò per il collo e, dopo due tiratine coi fiocchi, lo scaraventò per l'aia in modo che andò a cadere impigliato fra i rami di una pianta addossata al muro di casa.

- Non la scappi più - gridano entrambi, e corrono a raccogliere il morto. Avvicinano una scala alla pianta. Uno tiene e l'altro sale e allunga la mano alla preda; ma ecco che il pollo, con uno strappo, si libera dalla stretta e vola sul tetto.

La burla era bella, ma l'appetito pungeva; e allora? Decisero di acchiapparne un terzo e di accopparlo addirittura col falcetto.

Eccoli all'opera. Comollo tiene il galletto per il collo sopra un ceppo, e Bosco mena il colpo spietato.

La testa del povero galletto, spiccata dal busto, salta un metro distante, ed essi, spaventati alla vista di quel collo sanguinante, si danno alla fuga piangendo.

- Sciocchi! - disse poco dopo Bosco. - Ce lo ha comandato la mamma... dunque, coraggio!

Senza altra difficoltà raccolgono il pollo, lo spennano, lo cuociono e pranzano in santa allegria.

 

Un'allegra scampagnata.

Nelle vacanze del 1836, Bosco, cedendo ai ripetuti inviti dell'amico Comollo, si era deciso a fare una scampagnata a Cinzano, paese distante circa tre ore di viaggio da Castelnuovo, ove era Parroco lo zio di Comollo; e vi si recò per l'ora del pranzo con tre dei suoi migliori amici.

Giunti con un appetito da cacciatori, si sentono dire dalla persona di servizio, la signora Maddalena, che il Parroco non c'è perché, insieme col nipote, era andato a Sciolze per una adunanza di sacerdoti.

- Torneranno presto?

- Certamente non prima di questa sera, ed io, capiranno, non posso ricevere nessuno.

- E allora... - mormorarono tra loro i quattro amici. - Andare a Sciolze a stomaco vuoto?... Chi se la sente?

- Ritornare a Castelnuovo digiuni?... Peggio che peggio!

- Dunque come si fa? - Bosco, facile a superare ogni ostacolo, non si lascia abbattere per così poco. In un baleno, studia il piano e si accinge all'attacco esclamando:

- Oh, almeno ci fosse la signora Maddalena! So che è come padrona, la mano destra del signor Prevosto, una vera benedizione per questa casa. Vorrei almeno salutarla.

- Salutare chi? - risponde la serva.

- La signora Maddalena, e fare la sua conoscenza, giacché mi fu parecchie volte decantata come persona a modo... gentilissima... graziosissima.

A questi colpi di signora, ed a questi panegirici inattesi, ella si sente cotta dalla gioia, e tutta raggiante dice:

- La Maddalena sono io, in persona; e lei chi è, che mi conosce così bene?

- Io sono Bosco dei Becchi, il compagno e l'amico del chierico Comollo, nipote del signor Parroco.

- Il chierico Bosco!... Oh, l'ho sentito tante volte elogiare dal signor Prevosto. Viene dunque da Castelnuovo?

- Precisamente, e questi sono tre miei amici, e anche amici di Comollo, che ci ha ripetutamente invitati. Ma lei, dunque, è proprio la signora Maddalena, la padrona di casa?

- Niente padrona; sono la povera serva; faccio quello che posso nell'interesse di questa casa e del signor padrone, che da più di trent'anni mi tiene in piena fiducia.

- Sappiamo tutto, sappiamo tutto, signora Maddalena; lo dice sempre il signor Prevosto che, come la Maddalena, non ce n'è un'altra. Economa... premurosa, attiva, che ha occhio a tutto, che arriva a tutto!

Maddalena, sotto questa pioggia di reiterati complimenti, è cotta intieramente e, balbettando parole di scusa, soggiunge:

- Oh, quanto mi rincresce che il padrone non sia in casa!

- Rincresce anche a noi; ma pazienza! sarà per un'altra volta.

- Un'altra volta?! Ma dove vogliono andare?

- Andremo all'osteria!

- Non sia mai detto! Passino, entrino, si accomodino; ci aggiusteremo.

- Ma non c'è il Prevosto!...

- Se non c'è il Prevosto, ci sono io. Il Prevosto sarà ben contento; avanti, avanti!

- Oh, quanto disturbo! - vanno esclamando uno dopo l'altro entrando.

- Non vorremmo abusare della sua bontà!...

- Lei ha tanto da fare!...

- Non si diano pensiero, e lascino fare a me. S'accomodino, e un boccone di pranzo sarà presto preparato. Va bene così?

- Va benissimo, ma!...

- Non c'è ma che tenga. Si troveranno contenti. Ho anche qui (battendosi sul fianco) le chiavi della cantina.

Ringiovanita di trent'anni, si rimbocca le maniche, corre in cucina e ritorna, e va e viene, e apparecchia la tavola, e racconta le sue gesta, e inneggia alla bontà del padrone e alla santità del nipote.

In breve, il pranzo fu pronto, e che pranzo!...

Tutto andò a gonfie vele; tutto finì con gli evviva alla cuoca.

Alla prima occasione, Bosco raccontò l'avventura al signor Prevosto, che ne rise proprio di cuore.

Erano queste, fin d'allora, le sante astuzie di don Bosco, con le quali otteneva indicibili effetti.

 

Un morto che parla.

Giovanni Bosco e il suo intimo amico Luigi Comollo si erano fatta reciproca promessa di pregare l'un per l'altro e con l'impegno che chi fosse stato il primo a morire avrebbe recato notizia della propria salvezza al compagno superstite, qualora Dio l'avesse permesso.

Il chierico Comollo morì in Seminario a Chieri la notte del 2 aprile 1839, e nella notte della sepoltura, dal 3 al 4 aprile, mentre Bosco e compagni dormivano, si ode un rumore cupo e prolungato, che dal fondo del corridoio si avanza, facendosi sempre più tetro e spaventoso.

I seminaristi si svegliano, ma nessuno osa parlare. Il rumore si avanza sempre più; la porta del dormitorio si spalanca; appare una luce che si fa sempre più viva in mezzo a quel rumore di tuono, e s'accosta alla cella di Bosco.

Qui la luce diventa vivissima, cessa il fragore, e si ode risuonare distinta la voce del chierico Comollo che dice per tre volte:

- Bosco... Bosco... Bosco... io sono salvo!

Il fragore riprende più rumoroso di prima, e si allontana. La porta sbatte paurosamente; tutta la casa si scuote come di terremoto, e poi ogni cosa tace.

I compagni di Bosco balzano dal letto e fuggono all'impazzata. Bosco li chiama, li incoraggia, li calma, e racconta loro la vicendevole promessa fatta col Comollo.

 

Predicatore improvvisato.

In quelle stesse vacanze, fu invitato dal Parroco di Cinzano Monferrato a prender parte come inserviente alla festa di San Rocco.

Già si davano i segnali del vespro, ed il predicatore invitato non compariva.

Il povero Parroco ne era assai impensierito; e il chierico Bosco, per toglierlo dall'impiccio, si rivolgeva or all'uno or all'altro dei sacerdoti presenti, pregandoli con insistenza che facessero la predica.

- Ma come!... Volete dunque lasciar partire tanta gente senza dire due parole?!

Uno di loro, seccato da quelle insistenze, rispose:

- Ingenuo che sei! Un discorso su San Rocco li su due piedi, non è come bere un bicchier d'acqua. Fallo tu, se ti senti!

Bosco, alquanto ferito nel suo amor proprio, soggiunse:

- Ebbene, giacché ognuno si rifiuta, accetto. Cantati i vespri, egli salì sul pulpito e fece un discorso che fu sempre detto il migliore di quanti se ne erano uditi in quella circostanza.

Ciò si ripeté altre volte. La grazia della parola l'aveva chiesta a Dio nella sua vestizione clericale; e gli fu abbondantemente concessa.

 

Berretta nuova.

Don Bosco, fin da giovanetto e da chierico, era d'una squisitezza d'animo straordinaria.

In seminario a Chieri, vedendo che un suo compagno era messo in burla perché portava una berretta di una forma alquanto strana, un bel giorno gli si avvicinò e gli disse:

- Giacomelli, mi lasci per un momento la tua berretta?

- E perché no?... Prendila pure.

Egli la prese, e dopo qualche ora ritornò con una berretta nuova fiammante, e gliela mise in capo dicendo:

- Guarda un po' se ti va bene.

- Mi va egregiamente!... E la mia?

- La tua la terrò per memoria, sei contento?

- Contentissimo... ma io!...

- Tu, con quella, sembravi un semplice cappellano; con questa, sembri un parroco coi nocchi!

 

«Camperete novant'anni!»

Nelle vacanze pasquali di quell'anno 1839, passando a far visita al suo antico padrone Luigi Moglia, prima di allontanarsi, salì a salutare la moglie di lui che era ammalata.

Sentendola lamentarsi ed esclamare che «la era finita per lei», Giovanni sorridendo le disse:

- Fatevi coraggio, padrona, e state di buon umore. Voi non morrete, ma camperete fino ai 90 anni!

Difatti guarì, e pose tanta fiducia in quella promessa di Giovanni Bosco, che quantunque colpita in seguito da malattie anche gravi, non volle mai prendere medicine, perché diceva:

- Bosco mi ha assicurato che vivrò fino ai 90 anni; è inutile quindi ogni rimedio.

Sopravvisse difatti a don Bosco medesimo, e moriva in età di anni 91! Tutti la chiamavano «la vecchia di don Bosco».

 

Qui c'è un mago!

Aveva creato tra i suoi compagni la «Società dell'allegria», e, come presidente, era solito dare saggi della sua abilità coi giochi di prestigio.

Ora, siccome i più non sapevano darsi una spiegazione delle meraviglie che operava, si venne a poco a poco, nella persuasione che egli fosse un mago, e che operasse quei prodigi con l'intervento del diavolo.

Così la pensava anche un certo Cumino Tommaso, suo padrone di casa.

Il giorno del suo onomastico, Cumino aveva preparato un pollo in gelatina per i pensionati. Recato il piatto in tavola e scopertolo, con meraviglia di tutti, ne saltò fuori un gallo, che svolazzando, si diede a cantare allegramente.

Altra volta, dopo aver fatto bollire una pentola di maccheroni, nell'atto di versarli nel piatto, trovò altrettanta crusca asciutta.

Spesso, dopo aver riempito le bottiglie di vino, versandone nei bicchieri, vi trovava acqua limpida; altre volte invece, volendo bere acqua, trovava il bicchiere pieno di vino.

Spesso ancora trovava le confetture convertite in fette di pane; il denaro nella borsa convertito in pezzi di latta; il cappello cambiato in una cuffia; noci e nocciole di un sacchetto in minuta ghiaia.

La gente esterrefatta si chiedeva:

- Ma che sia un mago costui?

 

O Dio o diavolo.

A simili scherzi, che succedevano quasi ogni giorno, il buon Cumino, suo padrone, andava pensando: «Costui o è un Dio o è un diavolo; ma un Dio non può esserlo, quindi è un diavolo: io debbo denunziarlo».

Pertanto, non osando parlarne con i suoi, pensò di consigliarsi con un sacerdote vicino di casa sua. Andò a visitarlo, e quasi esterrefatto, gli narrò una filastrocca di cose viste e non viste, dipinte con tale vivacità di colori, che trasfuse la sua persuasione in quel buon sacerdote, il quale decise di riferire la cosa all'Autorità Ecclesiastica.

Fu tosto incaricato un Canonico, che mandò a chiamare Bosco. Questi si presentò mentre quel Canonico stava distribuendo l'elemosina a dei poverelli. Fattolo entrare nel suo studio, prese a dirgli con tutta serietà:

- Caro Bosco, i superiori sono stati fin qui molto contenti del vostro studio e della vostra condotta; ma ora si raccontano tante cose di voi!... Si dice che conoscete i pensieri degli altri, che indovinate i denari che altri tiene in tasca, che fate vedere quello che è bianco nero, e quello che è nero bianco, che conoscete le cose lontane, e simili. Insomma, fate parlare di voi, fate sospettare che vi serviate della magia, e che nelle vostre opere vi sia l'intervento del demonio. Ditemi dunque, in strettissima confidenza, in qual modo fate queste cose. Delle vostre confidenze non me ne servirò che per farvi del bene.

Bosco, senza scomporsi, gli chiese cinque minuti di tempo a rispondere, e gli domandò l'ora.

Il canonico mise la mano in tasca, e non trovò più il suo orologio.

- Se non ha l'orologio - soggiunse Bosco - mi dia una moneta da quattro soldi.

Il canonico frugò in ogni tasca e non trovò più la sua borsa.

- Oh, briccone! - prese allora a dirgli alzandosi incollerito. - O voi servite il demonio, o il demonio serve voi! Voi mi avete rubato la borsa e l'orologio! Non posso più tacere; sono obbligato a riferire al Vescovo, e non so chi mi tenga dal darvi un sacco di legnate!

A queste invettive, Bosco, sorridente, rispose:

- Stia tranquillo, signor Canonico.

- Tranquillo un corno! Dove sono la mia borsa e il mio orologio?

- Signor Canonico, si calmi: è tutta destrezza di mano.

- Bella destrezza di mano, rubare borse e orologi!

- Le spiego tutto in breve. Quando giunsi qui da lei, lei stava distribuendo l'elemosina a dei poverelli, e lasciò la borsa su quell'inginocchiatoio. Andando poi nell'altra camera, lasciò l'orologio su questo tavolo. Io ho preso e nascosto l'una e l'altra sotto questo paralume.

Così dicendo, alzò il paralume, che stava sul tavolo, e apparvero tutti e due gli oggetti.

Il buon canonico si fece dar saggi di altri giochi di destrezza, fece un buon regalo a Bosco, e lo licenziò dicendogli:

- Andate a dire a tutti che l'ignoranza è maestra di ammirazione.

 

Una sfida memorabile.

Nel 1832 - racconta don Bosco nei suoi quaderni di Memorie - i Gesuiti tenevano tutte le feste nella loro chiesa di sant'Antonio uno stupendo catechismo, in cui raccontavano esempi che ricordo ancora.

Bosco vi conduce regolarmente i suoi amici della «Società dell'allegria».

A guastar le feste, una domenica un saltimbanco viene proprio a piantarsi davanti alla chiesa di sant'Antonio.

Era un vero atleta. Correva e saltava come una macchina. La gente correva a vederlo e addio catechismo!

Bosco aveva diciassette anni e si sentiva in grado di sfidarlo. La «Società dell'allegria» fece le cose in regola. Fu inviata al giocoliere regolare sfida: Studente contro atleta professionista. Stabiliti tempo, luogo, regole del gioco e nominata una giuria.

Il saltimbanco propose una corsa a piedi, percorrendo tutta la città dall'una all'altra estremità, con la posta di venti lire.

Bosco non le possedeva, ma gli amici gli vennero in aiuto. Bosco si tolse la giubba, si fece il segno della croce, e si iniziò la corsa.

Il rivale all'inizio si avvantaggiò di una decina di metri; ma Bosco riacquistò subito il terreno, e lo lasciò talmente indietro, che quegli si fermò a metà strada, dandogli partita vinta.

Non contento, però, anzi avvilito per le risate della gente che era accorsa numerosissima, sfidò Bosco al salto, raddoppiando la posta.

L'atleta scelse il punto contro il muricciolo che arginava una larga gora (canale di acqua) e saltò per primo, ponendo il piede vicinissimo al muro, di modo che più in là non si poteva andare. Dovette anzi attaccarsi ad un alberello della ripa per non ricadere nel canale.

Tutti erano perplessi, e non sapevano che cosa avrebbe fatto Bosco, giacché più oltre era impossibile spingersi.

Egli fece il medesimo salto, in modo però che, gettate le mani sul muricciolo, slanciò il corpo al di là e vi rimase in piedi.

A questa inaspettata ed impensata acrobazia, gli applausi furono generali, e il povero atleta, vedendosi sfumare tutto il suo patrimonio, prese a gridare:

- Piuttosto qualunque umiliazione, ma non quella di vedermi vinto da un ragazzo!... Mi restano solo cento franchi, e li scommetto e guadagnerà chi di noi due porterà i piedi più vicini alla cima di quell'albero.

Era un grosso olmo che fiancheggiava il viale. Bosco, incoraggiato dai compagni, accettò. L'atleta, abbracciatosi al tronco, salì per primo, e, spinto dall'affanno e dal livore, in un attimo fu alla cima, e tant'alto che il ramo minacciava di piegarsi e rompersi.

Tutti gli spettatori gli giudicano certa la vittoria, giacché era impossibile salire più in alto. Bosco tenta la prova ugualmente. Sale e sale, arrivando fin dove era arrivato l'avversario; poi, tenendosi con le mani all'albero, si capovolge, ossia spinge in alto il corpo, e porta i piedi ad un bel metro oltre l'altezza raggiunta dal suo contendente.

Chi può ridire le acclamazioni, i battimani, gli evviva al vincitore e la rabbia dell'atleta sconfitto?

Bosco però ebbe compassione, e gli propose di restituirgli il denaro guadagnato, a condizione che pagasse una merenda a lui e ai suoi amici. Quegli accettò ben di cuore; ma da quel giorno il ciarlatano non si fece più vedere a disturbare le funzioni.

 

Salvato dal fulmine.

Sul finire di quell'anno scolastico, e proprio l'ultimo giorno, nel quale si doveva partire per le vacanze, essendo il tempo piovoso, Bosco se ne stava alla finestra del dormitorio guardando il cielo minaccioso, mentre i compagni s'affaccendavano a fare i bauli.

Quand'ecco, all'improvviso, cade il fulmine sul parapetto della finestra alla quale era affacciato Bosco. I mattoni divelti dal fulmine lo colpiscono in pieno petto ed egli cade svenuto in mezzo alla camerata.

I compagni accorrono, lo portano sul letto, gli spruzzano acqua in faccia, lo piangono morto; ma alla frescura di quell'acqua, Bosco rinviene, apre gli occhi e balzando dal letto esclama:

- A che tanta paura? La Madonna mi ha salvato!

 

Una birbonata del diavolo.

Poco prima dell'Ordinazione sacerdotale di don Bosco, mamma Margherita era salita sopra un gelso a raccogliere la foglia per i bachi da seta. D'un tratto si ruppe il grosso tronco sul quale poggiava, ed ella cadde, battendo pesantemente al suolo.

Né bastò: il ramo spezzato le piombò sopra, cadendole sulla fronte e lasciandole una impronta che portò finché visse.

Ma ella s'alzò prontamente e, come se nulla fosse accaduto, corse a sfamare i bachi che attendevano. Saputasi poi la cosa, don Bosco le andava ripetendo:

- Vedete, madre mia, quant'è buona la Madonna!...

Il demonio ha attentato alla vita vostra per privarvi della gioia di baciare la mano al vostro figlio prete, ma non ci è riuscito. Ha però voluto lasciarvi il ricordo di questa sua birbonata.

 

 

4. IL VOLTO DI UN GIOVANE PRETE

 

Sacerdote per sempre.

Il 5 giugno 1841, nella cappella dell'arcivescovado di Torino, Giovanni Bosco è ordinato sacerdote dal suo arcivescovo, monsignor Luigi Fransoni. È diventato don Bosco, per sempre. Ecco come egli narra nelle Memorie gli esordi del suo sacerdozio.

«La mia prima Messa - scrive con semplicità - l'ho celebrata nella chiesa di san Francesco d'Assisi, assistito da don Giuseppe Cafasso, mio insigne benefattore e direttore. Mi aspettavano ansiosamente al mio paese (era la festa della Santissima Trinità), dove da molti anni non si era avuta una prima Messa. Ma ho preferito celebrarla a Torino senza rumore, all'altare dell'Angelo Custode. Quello posso chiamarlo il più bel giorno della mia vita. Nel momento in cui si ricordano i defunti, ho ricordato i miei cari, i miei benefattori, specialmente don Calosso, che ho sempre considerato grande». Il giovedì seguente, festa del Corpus Domini (allora festa di precetto), don Bosco dice la Messa al suo paese. Le campane hanno suonato e squillato a lungo. Tutta la gente è ammucchiata nella grande chiesa. «Mi volevano bene - ricorderà don Bosco - e ognuno era contento insieme con me». Quella sera mamma Margherita trova un momento per parlargli da solo a solo, e gli dice: «Ora sei prete, sei più vicino a Gesù. Io non ho letto i tuoi libri, ma ricordati che cominciare a dir Messa vuol dire cominciare a soffrire. Non te ne accorgerai subito, ma a poco a poco vedrai che tua madre ti ha detto la verità. D'ora innanzi pensa soltanto alla salvezza delle anime, e non prenderti nessuna preoccupazione di me».

 

Come san Filippo Neri.

Pochi mesi dopo essere stato ordinato, don Bosco partì a piedi per Torino, onde seguire il corso di preparazione al ministero delle confessioni. Quali fossero i suoi pensieri e le sue splendide fantasie quando, dal Colle di Superga, vide apparire la città di Torino, le espresse lui stesso nel tesser il panegirico di San Filippo Neri nella città di Alba. Quel giorno entrò in argomento in modo poetico: immaginò di trovarsi sopra uno dei colli di Roma, di aver la città distesa innanzi a sé, e di vedere un giovane il quale, stanco dal lungo cammino, si era arrestato, assorto in gravi pensieri, con lo sguardo fisso allo splendido panorama. Quindi proseguì:

- Avviciniamoci ed interroghiamolo.

- Giovanotto, chi siete voi? Che cosa mirate con tanta ansietà?

- Io sono un povero forestiero; rimiro questa grande città, e un pensiero mi occupa la mente; ma temo che sia follia o temerità.

- Quale pensiero?

- Consacrarmi al bene di tante povere anime, di tanti poveri fanciulli che, per mancanza di istruzione religiosa, camminano per la strada della perdizione.

- Avete scienza?

- Ho fatto poche scuole, e non sono annoverato tra i dotti.

- Avete mezzi materiali?

- Niente!... non ho un tozzo di pane oltre quel che ogni giorno mi dà il mio padrone.

- Avete chiese... avete case?

- Non ho altro che un misero alloggio, con più misere suppellettili.

- Dunque, come volete, senza nome, senza scienza, senza sostanze e senza casa intraprendere una impresa così gigantesca?

- È vero, ed è appunto la mancanza di mezzi che mi tiene sospeso.

- Amate la Madonna?

- Oh, questo sì!... Tanto!

A questo punto, don Bosco sospese il dialogo, descrisse le sembianze di quel giovane, il lampo degli occhi, il suo sorriso, e proseguì ad interrogarlo.

- Come vi chiamate?

Qui don Bosco voleva rispondere: «Filippo Neri». Ma dagli uditori si suscitò un bisbiglio, anzi un grido: Giovanni Bosco.

Soffocato il grido, ed acquetatosi il bisbiglio, continuò la predica, veramente bella e smagliante; ma poi, all'uscire di chiesa, fu un applauso generale e tutti gridavano, con gran festa: «Giovanni Bosco, Giovanni Bosco!».

 

Astuzie sante.

Fin da principio della permanenza di don Bosco a Torino si diffuse la fama della sua virtù, e non poche famiglie andavano a gara per stringere relazioni con lui. 

Ora accadde che un giorno un'intera famiglia era venuta a fargli visita, avidissima di ascoltare la sua parola. Don Bosco, al vedere la poca modestia nel vestire della signora e delle figliole, e pur volendo toccarle al vivo, rivolse tosto il discorso alla più piccina dicendole:

- Vorrei che tu mi dessi una spiegazione.

- Sì, sì, dica pure, reverendo - rispose la bambina fuori di sé per la contentezza.

- Dimmi, perché disprezzi così le tue braccine?

- Io?!... non le disprezzo!

- Eppure, sembra che sia così!

- Oh, tutt'altro! - prese a dire la madre. - Se sapesse, debbo sgridarla per la sua vanità. Oltre a lavarle, le profuma con acque odorose.

- Appunto per questo - continuava il santo sempre rivolto alla ragazza - io ti dico che tu disprezzi le tue braccia.

- E perché?

- Perché, quando morrai, le tue braccia saranno gettate a bruciare nell'inferno.

- Ma io non faccio nulla di male! Io all'inferno non ci voglio andare!

- Eppure, sarà così... o per lo meno, al purgatorio, e chissà per quanto tempo!

- Dunque, questo avviso fa anche per me! - esclamò una delle più grandi arrossendo.

- Sì... e le fiamme saliranno dalle braccia al collo e lo bruceranno.

- Ho capito - concluse la mamma - ho capito! Tocca a me mettere rimedio, e lo farò!

Da quel giorno, molte altre volte quella famiglia fu a far visita a don Bosco, ma sempre con vestiti compitissimi.

 

Pillole di pane.

Nel 1844, a Montarla d'Asti, cadeva ammalato di febbri ostinate un certo signor Turco, e nessuna prescrizione medica valeva a guarirlo. La famiglia ricorse a don Bosco il quale, consigliata al malato la Confessione e la Comunione, gli consegnò una scatola di pillole da prendersi ogni giorno, in un dato numero, recitando tre Salve Regina alla Madonna. Prese le prime pillole, il malato, che effettivamente si era confessato e comunicato, guarì completamente. Tutti ne furono meravigliati. Il farmacista del paese volle fare l'analisi di quelle pillole miracolose, e non trovò altro che pane. Ripeté l'analisi più accurata presso un altro farmacista, e insieme conclusero:

- È pane! Nient'altro che pane, non c'è dubbio! Allora il signor Turco si recò a Torino a trovare don Bosco per ringraziarlo; e gli narrò l'analisi delle pillole, ed il gran dire che se ne faceva in paese. Don Bosco ridendo rispose:

- Sì, quello era pane, e le tre Salve Regina che voi avete recitato in stato di grazia furono il companatico prodigioso!

 

O la borsa o la vita.

«Un prete è sempre prete - soleva dire don Bosco - e tale deve dimostrarsi in ogni circostanza ed in ogni sua parola. Un sacerdote deve sempre avere di mira la salvezza delle anime, e non deve mai permettere che chi si avvicina a lui, ne parta senza aver udito una buona parola».

Alle parole corrispondevano i fatti. In quei tempi, ossia nei tempi delle «Pillole di pane» di cui sopra, egli si portava spesso ai Becchi a trovare i suoi fratelli.

Una sera, andandosene solo per una strada di campagna, s'imbatté in uno sconosciuto, il quale gli intimò:

- O la borsa o la vita!

Don Bosco si fermò di botto, lo fissò un istante negli occhi, e poi gli disse:

- Abbi pazienza!...

- Che pazienza!... o i denari, o vi uccido!

- Denari per te non ne ho. In quanto alla vita, me l'ha data Dio, ed egli solo me la può riprendere.

Quantunque quell'individuo avesse il cappello sugli occhi, don Bosco riconobbe in lui Antonio Cortese, un giovane che aveva incontrato nelle carceri di Torino, dalle quali era uscito da pochi giorni per sua raccomandazione. Lo chiamò quindi per nome e continuò sottovoce:

- Come! Tu, Antonio, fai questo brutto mestiere?! Così mantieni le promesse che mi hai fatte là a Torino?

Il disgraziato, che aveva riconosciuto don Bosco, prese a balbettare:

- Oh! don Bosco, mi perdoni! Non l'avevo riconosciuto... le chiedo perdono!

- Non basta, mio caro Antonio; bisogna mutar vita.

- Glielo prometto!

- Non basta ancora; bisogna incominciare subito, e confessarsi.

- Ebbene sì... mi confesserò!

- Quando?

- Anche subito, se vuole... solo non sono preparato.

- Ti preparerò io; ma tu prometti al Signore di farla finita per sempre con questa vitaccia.

- Sì, lo prometto!

Don Bosco, presolo per una mano, si ritirò sul margine della via, e lo fece inginocchiare.

Quel poveretto si confessò con tutti i segni di un vero pentimento.

Il santo gli regalò una medaglia e quel poco denaro che aveva in tasca. Il giorno seguente lo condusse a Torino, e gli procurò un impiego che disimpegnò onoratamente, divenendo un buon cristiano e virtuoso padre di famiglia.

 

Predicazione fruttuosa.

Nell'anno 1850, il papa Pio 9° aveva indetto un Giubileo straordinario per riparare ai danni spirituali cagionati dalle ribellioni e guerre di quei tempi.

In Milano, però, nessuno osava intraprendere una qualsiasi predicazione, perché, dopo le famose «Cinque giornate», sembrava che la città sedesse su un vulcano ancora acceso, e la Polizia teneva l'occhio specialmente sul clero, temendo che dal pulpito facesse allusioni alla insurrezione appena domata.

In queste condizioni, don Bosco si presentò al Parroco di San Simpliciano, dicendosi pronto a predicare il Giubileo in quella sua parrocchia.

Il Parroco tentennava, e lo mandò dall'Arcivescovo. Ma anche l'Arcivescovo era titubante; e solo quando vide che don Bosco era risoluto ed insisteva si limitò a dirgli:

- Signor Abate, io non ho nulla in contrario; ma se vi accadranno disgrazie, io non c'entro! Sapete in che tempi ci troviamo... la vostra prudenza non sarà mai troppa!

- Grazie, Eccellenza - rispose don Bosco. - Io predicherò come si predicava 500 anni fa. Mi dia la sua benedizione.

Incominciò le sue prediche sulla necessità della conversione, sul ritorno dei peccatori a Dio, sui novissimi, senza mai il più piccolo accenno alle vicende politiche.

La folla accorreva con curiosità ed ansietà sempre maggiori, e i frutti furono straordinari. Dalla parrocchia di San Simpliciano passò a Santa Maria Nuova, a San Carlo, e a Sant'Eustorgio, e contemporaneamente predicava anche a Monza dai Barnabiti. Per questa coincidenza di predicazione s'ingenerò nel popolo la persuasione che don Bosco predicasse a Milano e a Monza nello stesso tempo.

Tale notizia volò a Torino, ove, al suo ritorno, tutti lo andavano interrogando, ed egli ridendo rispondeva:

- Già, già, a Milano mi hanno tenuto per una masca (folletto).

 

Gesù in fuga.

I moti del 1848 avevano acceso in tutti una tal febbre di novità, che pareva che i più avessero perduto il senno. Don Bosco ne era grandemente preoccupato per il timore non infondato di gravi mali alla Chiesa. Celebrando un giorno nell'Istituto del Buon Pastore, era all'Elevazione, quando una suora mandò all'improvviso un grido altissimo che turbò tutta la comunità.

Finita la Messa, don Bosco fece chiamare a sé quella suora, e le chiese:

- Che cosa avete visto?

- Gesù nell'Ostia!... - rispose la suora. - Gesù vivo in forma di bambino, tutto grondante sangue!

- E ciò che vuol dire?

- Non lo so.

- Ve lo dirò io: vuol dire grandissima persecuzione che si prepara contro la Chiesa. Tenetelo a mente e pregate.

Quando don Bosco ritornò a celebrare la Messa colà, quelle buone suore lo interrogarono ancora sul come e perché di quell'apparizione; egli sorridendo si limitò a rispondere:

- Forse Gesù me l'avrebbe meglio spiegato, se quella suora, con quel grido, non l'avesse messo in fuga!

«Avete una veste troppo sottile».

Da poche settimane si trovava a Torino, e già molti giovani si accalcavano intorno a lui, lo attendevano all'uscita, lo accompagnavano per via.

Una sera si incontrò col Canonico Cottolengo, il quale, fissatolo in viso, gli disse:

- Voi mi avete la faccia da galantuomo; venite a lavorare con me nella Piccola Casa della Provvidenza: il lavoro non vi mancherà.

Don Bosco tenne quell'invito provvidenziale, e dopo pochi giorni si recò a Valdocco ove era l'Opera del Cottolengo.

Il Canonico lo accolse con amorevolezza, e gli fece visitare tutti i locali ove giacevano ammalati d'ogni genere: storpi, paralitici, ebeti, ulcerosi, invalidi; tutto insomma il rifiuto degli altri ospedali.

Finita la visita, don Bosco si aspettava un nuovo invito di fermarsi a lavorare in quella casa; ma il Cottolengo, fissandolo di nuovo bene in viso, soggiunse:

- Ben altro è il vostro campo! Una messe più vasta, una vita più movimentata vi attende!

E stringendo fra le sue dita le maniche della veste del giovane sacerdote, soggiunse:

- Però, voi avete una veste di panno troppo sottile e leggero; procuratevene un'altra di panno molto più forte e più consistente, perché i giovani possano attaccarvisi senza strapparla. Verrà un tempo in cui vi sarà strappata da tanta gente!

Don Bosco intravide in quelle parole una vera profezia, una vera conferma dei suoi sogni, che ben presto presero ad avverarsi.

 

5. I GIOVANI, LA GRANDE PASSIONE.

 

Confessore dei piccoli delinquenti.

A Torino, insieme con don Cafasso - che è chiamato «il prete della forca» - don Bosco comincia il suo ministero in qualità di confessore alle carceri nuove; là «vedere un gran numero di giovinetti dai 12 ai 18 anni, tutti sani, robusti, d'ingegno sveglio; vederli inoperosi, rosicchiati dagli insetti, stentare di pane spirituale e materiale, fu cosa che mi fece inorridire». Parlò con loro. Venne a conoscere le loro povere storie. L'avvilimento e la rabbia li rendevano spesso feroci. Il delitto più comune era quello di furto. Avevano rubato per fame, per desiderio di qualche altra cosa oltre il pane, o anche per invidia della gente ricca che li sfruttava e li lasciava nella miseria. Erano nutriti di pane nero e acqua. Dormivano in cameroni collettivi e i più spavaldi la facevano da caporioni.

Cercò di capire. «Erano abbandonati a se stessi». Non avevano famiglia e i parenti li respingevano perché essi «li avevano disonorati».

«Dicevo a me stesso: Questi ragazzi dovrebbero trovare fuori di qui un amico che si prenda cura di loro, che li assista, li istruisca, li conduca in chiesa nei giorni festivi...». Cerca di farli riflettere; promettono di farsi più buoni. Ma quando ritorna da loro tutto è tornato come prima. Don Bosco piange.

- Perché piange quel prete?

- Perché ci vuol bene. Anche mia madre piangerebbe se mi vedesse qua dentro.

L'esperienza delle carceri è traumatizzante per don Bosco. Ormai l'Oratorio è il suo chiodo fisso. Vuol realizzare un centro, una famiglia in cui i ragazzi abbandonati trovino un focolare, un amico; i giovani ex-carcerati abbiano un punto di riferimento, un sostegno. Un Oratorio che non funzioni solo la domenica, per il catechismo, ma si prolunghi lungo la settimana, mediante l'amicizia, l'assistenza, l'interessamento a procurare un'occupazione, gli incontri sul lavoro.

Don Bosco ha ormai compreso la sua vera missione. I suoi «sogni» appaiono chiari. Si dedicherà tutto ai ragazzi. A educarli, a redimerli, a salvarli.

Fra alcuni mesi, guarito da una grave malattia per le preghiere dei suoi monelli, dirà loro: «La mia vita la devo a voi. E vi do la mia parola: la spenderò tutta per voi».

Parole gravi. Parole definitive, cui fanno eco le ultime che don Bosco pronunciò prima di morire: «Dite ai miei ragazzi che li aspetto tutti in Paradiso».

 

L'incontro provvidenziale.

La mattina dell'8 dicembre 1841 don Bosco si trovava nella sacrestia di San Francesco d'Assisi, ove era vicecurato, e stava vestendosi per celebrare la Messa.

Il sacrestano, vedendo un giovanetto in un canto, lo invitò a servire.

- Non so! - rispose il ragazzo tutto mortificato.

- Bestione che sei! - esclamò il sacrestano... - Se non sai servire Messa, perché vieni in sacrestia?...

Prende la pertica dello spolverino e giù colpi sulle spalle e sulla testa del malcapitato.

L'altro, intanto, se la dà a gambe, gridando; e don Bosco, prendendo le difese, apostrofa il sacrestano dicendo:

- Che fate?! Perché battete così quel poveretto?

- Non sa servire la Messa e viene in sacrestia.

- Chiamatelo: ho bisogno di parlargli; è mio amico. Il sacrestano gli corre dietro, lo chiama, lo persuade a ritornare in sacrestia, e lo presenta a don Bosco che, con amorevolezza, gli dice:

- Hai già udita la Messa?

- No.

- Vieni dunque ad ascoltarla; dopo, ho da parlarti di una cosa che ti farà piacere.

Celebrata la Messa, prese ad interrogarlo.

- Mio buon amico, come ti chiami?

- Bartolomeo Garelli.

- Di che paese sei?

- Di Asti.

- Quanti anni hai?

- Sedici.

- Sai leggere e scrivere?

- Non so niente.

- Che mestiere fai?

- Faccio il furie (garzone di muratore).

- E tuo padre e tua madre?

- Sono morti tutti e due da un pezzo.

- Sei già promosso alla Comunione?

- Non l'ho mai fatta.

- Ti sei già confessato?

- Sì, ma quando ero piccolo.

- Vai al catechismo?

- Non oso più, perché i miei compagni mi burlano.

- Se ti facessi il catechismo qui a parte, verresti?

- Ci verrei molto volentieri, purché non mi diano delle bastonate!

- Sta' tranquillo; d'ora innanzi sarai mio amico; quando vuoi che incominciamo?

- Quando le piace.

- Anche adesso?

- Sì, anche adesso, con molto piacere.

Si diede così principio. A lui si unirono ben presto altri compagni; e Bartolomeo Garelli restò la pietra fondamentale degli oratori festivi di don Bosco e di tutta l'opera salesiana.

Ricordando poi il fatto, il Garelli andava ripetendo:

- Le busse del sacrestano mi fecero felice.

 

Potenza dell'entusiasmo.

Se i poeti narrano di Orfeo che traeva dietro il suo canto le piante e i sassi, ben si può dire che don Bosco traeva dietro di sé, col suo fascino irresistibile, i ragazzi, che al solo vederlo ne restavano elettrizzati e gli correvano incontro.

Un giorno si imbatté presso Porta Palazzo in uno dei suoi giovanetti che tornava dal fare la spesa, con due bottiglie in mano, una d'olio, l'altra di aceto.

Il piccino, appena lo vide, si mise a saltare per l'allegrezza e gridare:

- Viva don Bosco!...

Il santo, sorridendo, gli risponde: Evviva!...

Poi, appressatosi al ragazzo, gli disse per scherzo:

- Sei capace fare come faccio io? - E si mise a battere le palme delle mani.

Il fanciullo, fuori di sé per l'entusiasmo, mette le bottiglie sotto il braccio e fa per battere anche lui le mani. Le bottiglie cadono a terra e vanno in frantumi.

Al rumore dei vetri rotti e alla vista dei liquidi sparsi, restò come sbalordito, e si mise a piangere a dirotto dicendo:

- Oh!... quante busse mi darà la mamma mia!

- Allegro, allegro! - gli disse don Bosco. - È un male al quale si rimedia subito. Vieni con me.

Lo condusse in una vicina bottega, dove, narrato l'episodio alla padrona, la pregò di provvedere il ragazzo di quanto aveva perduto.

- Ecco fatto! - esclamò la donna, piena d'ammirazione per il giovane sacerdote, e soggiunse:

- Chi è lei?

- Sono don Bosco... il padre dei birichini. Qual somma le debbo?

- Sarebbero 23 soldi; ma tutto è saldato!

Don Bosco ringraziò della generosità ed uscì col fanciullo.

Un altro di questi ragazzi era addetto come garzone in una bottega di stoffa, la quale, per mezzo d'una grossa porta a vetri, immetteva su una delle vie principali di Torino. Un giorno, mentre stava accudendo alla pulizia, vide passare don Bosco. Nel primo slancio del cuore corre per andarlo a riverire, ma, non riflettendo di aprire la porta, vi batte col capo e la manda in frantumi.

Al rumore dei cristalli accorre tutto il personale del negozio. Il padrone alza la voce e grida; la gente si ferma e fa crocchio; e il povero fanciullo si fa d'appresso a don Bosco tutto tremante.

- Che cosa hai fatto? - prese a dirgli sorridendo il Santo.

- Ho veduto lei passare, e non ho badato che la porta era chiusa.

- Ebbene, pagherò io il danno; sei contento?

Ma il padrone, che aveva capito che si trattava di una svista, soggiunse:

- Non sia mai che il buon cuore di questo ragazzo e la carità di don Bosco abbiano a soffrire. Spero che un'altra volta il nostro Carluccio non pretenderà più di passare attraverso i vetri come lo spirito folletto.

 

La cuffia di una impertinente

Don Bosco, vedendo che i locali ove teneva il catechismo non bastavano più ad accogliere tutti i suoi giovani, andò in cerca di un sito più spazioso, e lo trovò presso la cappella dell'antico Cimitero, detto di San Pietro in Vincoli.

Accordatosi col cappellano, la domenica 25 maggio 1844 condusse il suo piccolo mondo a San Pietro. Il luogo ampio e libero eccitò nei giovani il più vivo entusiasmo e li rese frenetici di gioia.

Ma ahimè! avevano appena incominciato a gustarla, che si mutava tosto in grande amarezza per opera d'una donna. Era la domestica del Cappellano, la quale all'udire i canti, le voci, gli schiamazzi dei 400 giovanetti, uscì di casa su tutte le furie, e con le mani sui fianchi e la cuffia per traverso, si diede ad apostrofarli, come sa fare la lingua di una donna inviperita.

Insieme con lei, inveiva anche una ragazza, abbaiava un cane, miagolava un gatto, chiocciavano le galline. Si sarebbe detta imminente una guerra europea.

Don Bosco tentò dapprima di sedare quella tempesta, ma si sentì scaricare addosso un nugolo d'insulti da quella poveretta, che, urlando come un'ossessa e stringendo i pugni, finiva gridando:

- Via!... Via!... E lei, don Bosco, si guardi bene dal tornare domenica ventura in questo luogo, perché altrimenti saranno guai!

H santo, per troncar quella scena disgustosa, rispose semplicemente e pacatamente:

- Mia buona signora, neppur lei è sicura di essere qui domenica ventura.

Radunati quindi i suoi giovani, se ne andò dicendo loro:

- Poveretta! ci intima di non portare più i piedi qui, e domenica ella sarà già al cimitero!

E così avvenne realmente.

 

Come crescono i cavoli

Don Bosco, obbligato a sloggiare da San Pietro in Vincoli, ottenne dal Municipio di riunire i suoi ragazzi nella chiesa dei Molazzi, ossia dei mulini della città.

Anche qui però, al primo giungere di quella schiera di ragazzi allegri e schiamazzanti, tutta la popolazione dei dintorni, insieme coi padroni e coi mugnai, presero a protestare. Il più feroce di tutti fu il segretario dei mulini, il quale, raccogliendo qua e là false voci contro quei poveri ragazzi e contro chi li radunava, scrisse al Municipio una lunga lettera di accuse, in seguito alla quale il Consiglio municipale decretò lo sfratto a don Bosco anche di là.

Quando il Santo annunziò la cosa ai suoi giovani, li incoraggiò dicendo:

- Dobbiamo fare un'altra volta San Martino, ma niente paura! I cavoli trapiantati diventano più belli, e noi diventeremo dei gran cavoloni! - Ma soggiungeva in tono profetico: - La Provvidenza prenderà la difesa della vostra innocenza!

 

Una colazione al monte

Sloggiato anche dai Molini, don Bosco si vide costretto ad affittare un prato per i suoi giovani.

Là faceva il catechismo e le prediche. In quanto alla Messa, li conduceva or di qua or di là nelle chiese della periferia.

Una domenica si portarono al monte dei Cappuccini, ove tutti fecero la santa Comunione, dopo di che, usciti sul largo piazzale, don Bosco distribuì loro la colazione. E, mentre tutti allegramente mangiavano, ne vide uno che, in disparte, stava mestamente osservando.

Si avvicinò e gli chiese:

- Come ti chiami?

- Paolino.

- Hai preso la colazione?

- No, signore.

- Perché?

- Perché non mi sono né confessato né comunicato.

- Non occorre né confessarsi né comunicarsi per avere la colazione.

- Che cosa ci vuole?

- Nient'altro che l'appetito.

- Oh!... quello ce l'ho... e come!

- Vieni dunque con me.

Lo condusse al cesto, gli diede in abbondanza pane e frutta, e soggiunse sorridendo:

- D'ora in poi non avrai più paura di don Bosco, ma gli sarai amico.

- Oh, sì, sì!... tanto, tanto.

Fu di parola; si unì ai giovani dell'oratorio e lo frequentò assiduamente.

 

Scorta d'onore

Ma anche in quel prato, non mancarono a don Bosco le molestie. Un giorno vi si recò in persona niente meno che il marchese Michele Cavour, sindaco di Torino, il quale, vedendo don Bosco seduto per terra fra un circolo di giovani, domandò:

- Ma chi è quel prete?

- È don Bosco!

- Don Bosco!... - esclamò stupito il Marchese. - O egli è un pazzo, oppure un illuso. - E, fattolo chiamare a sé, gli disse:

- Mio buon prete, prendete il mio consiglio: lasciate perdere quei mascalzoni; essi non daranno che dispiaceri a voi e fastidi alle autorità. Io vedo che queste adunanze sono pericolose, e perciò, non posso più tollerarle.

Alle calme ed umili osservazioni del Santo, il Marchese finì col soggiungere:

- Ma che importa a voi di questi monelli? Lasciateli nelle loro case. Non prendetevi delle responsabilità!

- M'importa la loro istruzione religiosa, la loro salvezza - rispose don Bosco.

- Intanto, vi farò sorvegliare!

E da quel giorno la questura, ogni domenica, continuò per un bel pezzo a mandare carabinieri e guardie a passeggiare nei dintorni di quel prato e dovunque egli conducesse i suoi giovani.

Don Bosco sorrideva nel vedersi accompagnato, come un sovrano, da quella scorta d'onore, e usava chiamare quei tempi i più romantici del suo Oratorio.

 

Cantori in barca

Don Bosco si serviva del canto e della musica come di mezzo potente per attirare e trattenere i suoi giovani; e questi canti accrescevano potentemente l'entusiasmo nei fanciulli e l'ammirazione nelle popolazioni.

Un giorno condusse i suoi birichini ad una passeggiata in barca sul Po fino alla Madonna del Pilone.

Quando le tre barche furono in mezzo al fiume, intonarono una lode. A quel canto, la gente che si trovava sulle sponde si mise a seguire il corso delle barche. Una compagnia di trombettieri, che a caso si trovavano là di passaggio, diedero fiato alle trombe e presero ad accompagnare quel motivo facilissimo con mirabile effetto.

Man mano che le barche ed il canto avanzavano, la gente s'accresceva; e quando si giunse alla Madonna del Pilone, tutti gli abitanti uscirono fuori dalle case per portarsi a fare festa ai giovani cantori, e regalar loro frutta e dolci.

 

L'allarme dei parroci

Tra le molteplici opposizioni che trovò don Bosco nei primi tempi della sua Opera, vi fu anche quella dei Parroci della città.

Parecchi di questi Parroci, vedendo accorrere all'Oratorio tanti giovani, presero ad allarmarsi, e, forti dei loro diritti di istruire e promuovere ai sacramenti i propri parrocchiani, pregarono l'Arcivescovo che comandasse a don Bosco di desistere dalla sua impresa, e lo destinasse viceparroco in qualche paese di montagna.

Allora l'Arcivescovo, dietro invito di don Bosco, mandò alcuni di questi Parroci all'Oratorio perché vedessero quanti erano i giovani appartenenti alle loro parrocchie.

Radunata quella moltitudine irrequieta, presero ad interrogarli a quale parrocchia appartenessero.

- Io sono di San Biagio.

- E dov'è questa parrocchia?

- A Biella.

- Io sono di Santa Filomena.

- Ma dov'è?

- Sul Lago di Como.

- Io sono di Santa Zita presso Genova. Io sono di Sant'Eufemia sul Ticino. Io sono di San Eusebio di Vercelli. Io di San Zeno di Milano. Ed io sono di San Martino nel Cadore.

- Basta! Basta! Non mi stordite! Ma qui a Torino, dove abitate? A quale parrocchia appartenete?

Silenzio generale.

Alcuni sapevano il nome della via e non quello della parrocchia; altri in pochi mesi avevano cambiato domicilio più volte; altri dormivano alla ventura, cercando un rifugio notte per notte; chi non stava più con i parenti, chi li aveva perduti, chi non li aveva mai conosciuti.

Perduta la pazienza, quel primo Parroco passò le armi ad altro collega, il quale incominciò:

- Oh, bravi!... sentite. A te: di dove sei?

- Io sono di Valsesia, provincia di Novara.

- E tu?

- Io di Valtellina, provincia di Sondrio.

- Io di Val Lomellina, Pavia.

- Io di Val Policella, Verona.

- Io di Val Negra, Bergamo.

- Basta! Ho capito.... Tutti forestieri, a quanto pare.

Indi, volgendosi all'altra parte:

- E voi di dove siete?

- Noi siamo di Val Vasone, presso Udine.

- E noi di Valtrompia, in quel di Brescia.

- Noi di Valsugana nel Trentino.

- Alt! Ancora un poco, e andremo a finire nella valle di Giosafat. Nessuno dunque delle parrocchie di Torino?

- Nessuno!

Anche costui, perduta la pazienza, voleva rimettere le armi ad un terzo, ma tutti si persuasero che non avevano nulla a fare, e se ne andarono.

Uno però ve ne fu che volle ostinarsi ad accampare delle pretese; e don Bosco gli mandò tutti i ragazzi che dovevano essere ammessi alla prima Comunione.

Al vedersi arrivare quella turba schiamazzante, questo Parroco allibì, e domandò seccamente:

- Che cosa volete da me?

- L'esame di catechismo per la prima Comunione.

- Tornate un'altra volta: ora sono occupatissimo. I giovani tornarono all'Oratorio vociando:

- L'esame non ce l'ha voluto dare.

- Ma glielo avete detto che vi mandavo io?

- Questo no!

- Bene, ritornate, e pregatelo in nome mio che abbia la bontà di esaminarvi.

I ragazzi obbedirono, e invece del Parroco, trovarono due vicecurati i quali, vedendo che la maggior parte erano adulti, presero a canzonarli:

- Ma bravi!... alla vostra età... ancora da fare la prima Comunione?... questa è una vergogna! Si vede che non avete fretta, e potete ancora aspettare. Per ora non abbiamo tempo da perdere con voi. Ritornerete domani o fra otto giorni.

Quei poveri giovani rifecero una seconda volta la strada, confusi e umiliati, protestando che non sarebbero ritornati mai più.

Don Bosco allora riferì all'Arcivescovo e ne ebbe i più ampi permessi e larghe concessioni.

 

Piange e ride con i suoi figlioli

Nel mese di luglio del 1846, Don Bosco fu assalito da una potentissima bronchite che lo ridusse in fin di vita. Tutti pregavano per lui. Una notte pareva che dovesse essere l'ultima di sua vita. Il Teologo Borel che lo assisteva si sentì ispirato a suggerirgli che facesse anche lui una preghiera per la sua guarigione. Don Bosco taceva, ed il Teologo replicò:

- Don Bosco, lei sa che lo Spirito Santo ci consiglia di pregare nelle nostre infermità. Dunque, preghi a questo fine.

- Lasciamo che faccia Iddio la sua volontà.

- Ebbene, dica almeno con me: Signore... se così vi piace... fatemi guarire.

E don Bosco taceva ancora.

- Mi faccia il piacere, caro don Bosco; glielo domando a nome dei suoi figli piangenti: dica con me, e lo dica di cuore: Signore...

Il malato, per consolarlo, prese a ripetere:

- Signore...

- Se a voi piace...

- Se a voi piace...

- Fatemi guarire...

- Fatemi guarire...

Appena fatta quella preghiera, il buon Teologo s'alzò, ed asciugandosi le lacrime, esclamò:

- Basta così! Lei guarirà certamente... ne sono sicuro.

Né si sbagliò: don Bosco prese sonno, e quando si svegliò, era ritornato a vita novella. I medici, recatisi a fargli visita col timore di trovarlo morto, toccandogli il polso, gli dissero:

- Caro don Bosco, si alzi, e vada a ringraziare la sua Madonna, ché ne ha ben ragione.

La notizia di quella improvvisa guarigione inondò di consolazione il cuore di tutti.

La domenica lo adagiarono su un seggiolone e lo portarono in giro, come in trionfo.

 

La marchesa di Barolo

Godeva d'una gran fama in Torino e in tutto il Piemonte la Marchesa di Barolo, signora ricchissima e di grande pietà, tutta dedita ad opere di beneficenza.

Costei, piena di venerazione per don Bosco, vedendolo ridotto in fin di vita, ritenne necessario un suo energico intervento perché abbandonasse l'Oratorio.

Un bel giorno, chiamatolo a sé, prese a dirgli:

- Don Bosco, intendo farle una proposta per lei assai vantaggiosa. Lasci i suoi ragazzi, e passi alla direzione dei miei Istituti.

Don Bosco senza esitare, rispose:

- Che dice, signora?... Lasciare i miei fanciulli?... Oh no! Io non posso, non debbo abbandonarli. Vostra signoria ha denari e mezzi molti, troverà facilmente chi la possa e la voglia coadiuvare. Chi invece si prenderà cura di questi miei giovani?

- Dunque, lei preferisce i suoi piccoli vagabondi ai miei Istituti? E che cosa potrà fare, così povero, senza un soldo e senza aiuti?

- Signora Marchesa - continuò don Bosco - io sono povero, non ho un soldo, ma non ho bisogno di lei!

- Ecco il superbo! - esclama la Marchesa, - si trova nella miseria e non ha bisogno di me!

- No, signora, non ho bisogno di lei, ma qualora la Provvidenza volesse servirsi di lei per aiutarmi, ne approfitterei ben volentieri, e gliene sarei riconoscente.

- No! No! A don Bosco niente. Non mi venga più innanzi, perché gli chiuderei la porta in faccia.

Don Bosco se ne partì inchinandola profondamente.

La Marchesa che, dopo tutto, era donna di insigne pietà e fine criterio, ritornò poco dopo a più miti consigli, e tratto tratto mandava a don Bosco le sue generose offerte.

 

Incredibile affetto

Tutti i giovani che, anche per una volta sola, si incontravano con don Bosco e lo sentivano parlare, erano presi per lui da un incredibile affetto.

Nel 1846, per consiglio dei medici, si era recato a Sassi, borgata nei pressi di Torino, per un poco di riposo. In quel tempo, gli allievi delle Scuole Cristiane avevano atteso ad un corso di Esercizi Spirituali, durante il quale quasi nessuno si era confessato, in attesa della venuta di don Bosco.

Giunto il mattino della chiusura, quei buoni ragazzi, vedendo che don Bosco non arrivava, corsero a cercarlo a Valdocco e di là a Sassi, ove arrivarono a gruppi di 50 o 60, in numero di oltre 300, molli di sudore, coperti di zacchere perché il tempo era piovoso, e così stanchi e sfiniti da fare pietà.

Don Bosco, al vedere quella turba e al sentirne il motivo, ne fu teneramente commosso. Siccome poi quei poveri giovani erano digiuni e sprovvisti di tutto, il buon Parroco mise fuori pane, polenta, riso, patate, cacio, frutta. A lui si unirono i borghigiani, e la cosa finì in una festa campagnola delle più amene.

 

Fiori e fiori

La sua bontà e squisitezza d'animo lo rendeva caro a tutti, di modo che era da tutti grandemente amato.

Una splendida prova di questo grande amore la ebbe quando, dopo una lunga e terribile malattia che lo portò sull'orlo della tomba, potè ritornare in mezzo ai suoi giovani. Fu una giornata di festa straordinaria.

In quella mattina, furono comperati quanti più fiori si potè, e si sparsero per tutta la via dal Rifugio all'Oratorio.

Le rivendugliole di Porta Palazzo, meravigliate di tanti giovani che venivano a comperare fiori, domandarono:

- Per chi sono tanti fiori?

- Che festa fate?

- Che santo è oggi?

- Che santo! Che santo! Sono per don Bosco. Egli è guarito da una grave malattia; oggi ritorna fra noi!

E correvano affannosi a sfogliarli lungo il percorso e adornarne le siepi e il recinto dell'Oratorio.

Quando poi don Bosco comparve appoggiato a un bastoncino, fu un evviva formidabile; anzi i più grandicelli gli si fecero attorno, e tolta da una casa una sedia lo obbligarono ad adagiarsi e lo portarono fino all'Oratorio, mentre gli altri gli marciavano avanti, accanto, appresso, sempre ripetendo: Evviva!... Evviva!

 

È creduto pazzo

Né solo le Autorità civili molestavano il povero don Bosco e tentavano d'impedire lo sviluppo della sua Opera, ma anche i suoi colleghi sacerdoti.

Anzi costoro si erano messi in testa che don Bosco stesse dando i numeri, e che tutto questo affaccendarsi appresso ai ragazzi fosse una vera mania.

Alcuni, infatti, andarono a trovarlo e, con tutta carità, presero a dirgli:

- Caro don Bosco, tu, capiscilo, comprometti il carattere sacerdotale! Con le tue stravaganze, con l'abbassarti a prendere parte ai giochi di quei monelli, con l'accompagnarti con loro per le vie e per le piazze, perdi il tuo decoro, desti ammirazione, ti fai ridere appresso!

E siccome don Bosco, sicuro dell'Opera sua, dava segno di non essere persuaso della logica di quegli avvisi, essi andavano continuando:

- Ma tu hai perso la testa! Non ragioni più! Povero e caro don Bosco, non bisogna ostinarsi... Tu non puoi fare l'impossibile! Non vedi che anche la Provvidenza è contraria alla tua opera e che non trovi nessuno che ti voglia affittare un locale?

- Oh la Provvidenza! - esclamò a questo punto don Bosco alzando le mani al cielo, - la Provvidenza mi aiuterà! Lei mi ha inviati questi ragazzi ed io non ne respingerò neppur uno, ritenetelo bene! Voi siete in errore. La Provvidenza farà tutto ciò che è necessario. E poiché non mi si vuole affittare un locale, ne fabbricherò uno io con l'aiuto di Maria Santissima. Vi saranno vasti edifizi, con scuole, laboratori, officine di ogni specie, spaziosi cortili e porticati... una magnifica chiesa. E poi, anche chierici, catechisti, assistenti, professori, capi d'arte, e numerosi sacerdoti. Vedrete, vedrete...

All'udire tali parole, quei suoi amici si sentirono profondamente commossi. Essi vi vedevano una prova certa della pazzia del loro amato collega, e se ne andarono crollando il capo e ripetendo fra loro:

- Poveretto! Davvero gli ha dato di volta il cervello! Occorre subito provvedere.

Don Bosco attendeva gli eventi, pronto ad ogni più dura lotta.

 

Al manicomio

Quei tali, presi gli accordi con la Curia Vescovile, andarono a parlare col Direttore del Manicomio. Ottenuto un posto al creduto pazzo, due di loro, i più svelti e coraggiosi, accettarono di eseguire il pietoso disegno.

Presero a nolo una vettura chiusa, si recarono all'abitazione di don Bosco, e, fatti i primi convenevoli, lo invitarono a una passeggiata dicendogli:

- Un po' d'aria ti farà bene, caro don Bosco; vieni, abbiamo qui una carrozza che ci aspetta.

Il Santo si avvide subito del gioco che gli volevano fare, ma accolse l'invito esclamando:

- Corbezzoli!... una carrozza!... Evviva la carrozza!... Veramente non ci sono assuefatto, ma via!... andiamo.

Giunti alla vettura, lo invitarono ad entrare per primo; ma egli si scusò dicendo:

- No! sarebbe una mancanza di rispetto per parte mia. Favoriscano loro per primi.

Quelli salirono senza alcun sospetto, persuasi che don Bosco li avrebbe seguiti; ma egli, appena li vide dentro, chiuse con fragore lo sportello, gridando al cocchiere:

- Presto!... al Manicomio!!!

Il vetturino sferza il cavallo, e più veloce che non si dica, giunge alla mèta ove, trovato il portone spalancato e gli infermieri pronti in attesa, entra di corsa.

Il custode chiude prontamente il portone; gli infermieri circondano la carrozza, aprono gli sportelli e invece di un pazzo ne vedono due.

Quantunque entrambi protestassero energicamente, furono condotti al piano superiore; ed essendo assenti medici e Direttore, perché era l'ora del mezzogiorno,

dovettero adattarsi a pranzare coi ricoverati. Solo verso sera, chiarito l'equivoco, poterono essere messi in libertà.

La cosa fece in un baleno il giro della città, e da quel giorno si corressero le idee nei riguardi del Santo, e l'ammirazione verso di lui s'accrebbe assai.

 

Campane che suonano da sé

Ad applaudire al fatto del manicomio, e a ridere coi cittadini, si unirono anche le campane della Madonna di Campagna, quasi volessero attestare la grande bontà della Provvidenza che proteggeva il nostro Santo.

La Domenica delle Palme, ultimo giorno in cui era permesso a don Bosco di fermarsi in quel prato, egli annunziò ai suoi giovani che si sarebbe andati ad ascoltare la Messa alla Madonna di Campagna, ufficiata dai Cappuccini.

La proposta fu accettata con giubilo. Per via si recitò il Rosario, e si cantarono le Litanie e lodi sacre.

Quando la lunga schiera di quei 400 ragazzi mise piede nel viale che dà al Convento ecco che le campane del Santuario presero a suonare a festa.

La cosa destò ammirazione. La gente del rione accorse alla chiesa; accorsero anche i frati tutti, chiedendo il perché di quei suoni, chi ne fosse l'autore, chi li avesse ordinati.

Ma nessuno aveva dato ordini, nessuno aveva toccato le campane, e si dovette constatare che veramente le campane avevano suonato da sé!

Don Bosco era confuso per la protezione così palese della Provvidenza.

 

6. L'ORATORIO DI VALDOCCO

L'anno 1846 è il tempo di grazia della grande realizzazione. Don Bosco riesce ad acquistare una fatiscente tettoia da Francesco Pinardi e vi inaugura un Oratorio stabile nella regione Valdocco. Don Bosco trasforma la tettoia in cappella. Nel giorno di Pasqua la benedice. Centinaia di ragazzi la stipano all'inverosimile. Poi, afferrando al volo la pagnotta che don Bosco va pescando da un'immensa cesta, sciamano sui prati intorno, esplodendo per la gioia di avere, finalmente, «una casa tutta per loro».

 

Minacce e castigo

Ma che! Il demonio che mai lascia tranquilli i santi, suscitò ben presto altri nemici, i quali fecero di tutto per disperdere don Bosco e l'Opera sua.

Ed ecco che il sindaco, Marchese Michele di Cavour, lo fa chiamare e senza preamboli gli dice:

- È tempo di finirla, mio caro Abate, e poiché volete ostinarvi nella vostra Opera, io sono costretto a farvi chiudere l'Oratorio.

- Mi perdoni, sig. Marchese - rispose don Bosco - ma se io chiudessi il mio Oratorio, avrei timore delle maledizioni di Dio su me e su lei.

- Meno ciance! Io sono obbligato a tutelare la tranquillità pubblica; manderò quindi a sorvegliare la vostra persona e le vostre adunanze; al primo atto compromettente, farò disperdere i vostri monelli e voi sarete responsabile di quanto starà per accadere.

Quelle furono le ultime parole pronunziate dal Marchese in Municipio. Tornato a casa, fu assalito da una ostinata podagra la quale, dopo molte sofferenze, lo condusse alla tomba.

Quella morte produsse impressione in tutta Torino, e per diversi anni, specialmente nella sfera dei magnati, non vi fu più alcuno del Municipio o del Governo che recasse molestia a don Bosco.

 

Scherzo della Provvidenza

Quando don Bosco ebbe improvvisata la prima cappella sotto la tettoia Pinardi, s'accorse che gli mancava il calice per la prima Messa.

Come fare a provvederlo? Rivoltosi a mamma Margherita, esclamò quasi ispirato:

- Madre, cercate, frugate per ogni dove; manca il calice, e voi dovete trovare i denari per comprarlo.

Si mette tuttavia all'opera. Cerca, fruga, e alla fin fine trova, in fondo ad un vecchio cassettone fuori uso, un rotolo contenente otto scudi d'oro quanti appunto erano necessari per la compera del calice.

- Oh bella! Chi ve li avrà messi? - chiedeva di poi la mamma.

- Oh bella - ribatteva don Bosco - li ha messi colà la Provvidenza, che ci ha voluto fare uno scherzo.

 

Altro scherzo della Provvidenza

Un giorno entrò da don Bosco un forestiero, che lo salutò con la solita formula:

- Oh! Don Bosco, come sta?

- Senza un quattrino! - rispose don Bosco.

- Cosa singolare! - replicò il forestiero. - E se in questo momento ella avesse bisogno urgente d'una somma, come farebbe?

- Mi rivolgerei alla Provvidenza.

- Sì, Provvidenza... Provvidenza... è una bella parola; ma se ne abbisognasse in questo momento?

- In tal caso, direi a lei, mio buon signore: Vada in anticamera, e troverà una persona che, in questo momento, reca appunto un'offerta a don Bosco!

- Come?! Dice davvero?! Ma non c'era nessuno quando io entrai! Chi glielo ha detto?

- Nessuno me lo ha detto, ma io lo so, e lo sa la Provvidenza.

Quel signore, fuori di sé per la meraviglia, va nell'anticamera, ove trova davvero un altro signore a cui chiede:

- Viene da don Bosco?

- Sì, vengo a portare un'offerta.

Il Santo si presenta sulla porta ed esclama:

- Vede se io avevo ragione di confidare nella Provvidenza?

 

Carnevale che non guasta

Un giorno, mamma Margherita gli corre incontro tutta ansante gridando:

- Oh Giovanni, Giovanni, se sapessi!

- Che cosa!? Hai guadagnato un terno al lotto?

- Altro che guadagno! perdita, mio caro, perdita! Ti hanno rubato la veste nuova, la sola buona che hai. Era stata stesa al sole, e te l'hanno rubata.

- Se l'hanno rubata, pazienza! che vuoi farci?

- Bisogna cercare il ladro! dev'essere vicino.

- Vuoi che faccia il poliziotto?!

- Ecco, sempre lo stesso! Non t'importa niente! Ed ora come farai ad uscire?

- Oh bella! Prenderò uno di quei cappotti regalati dal Municipio, ed uscirò vestito da militare.

- Bella figura! sarà un carnevale!!!

- Un po' di carnevale non guasterà niente! Poi, cambiando tono, soggiunse:

- Guardate, madre: il ladro ne aveva forse più bisogno di me... forse è già pentito... e se venisse a confessarsi, io mi contenterei del fermo proposito di non farlo più, e gli regalerei la veste o l'equivalente, gli darei l'assoluzione in lungo e in largo. Pregate intanto la Madonna che me ne mandi un'altra.

 

La coda del diavolo

Il «Grappino», al quale evidentemente non garbava che tutti quei ragazzi corressero appresso a don Bosco, cercò in tutti i modi di rovinargli l'opera. Nei primi tempi un uragano travolse ben due volte i ponti della nuova costruzione. Una terza volta un fulmine cadde così vicino da metter in serio pericolo la vita di don Bosco e dei suoi ragazzi.

Appena la prima costruzione fu ultimata accaddero cose strane e singolari.

Appena andava a letto, ecco che con rumori strani cercava di disturbarlo. Erano terribili colpi di pietra, rumori assordanti di ogni genere su tutto il soffitto della stanza; e quasi non bastasse, una volta gli sollevò il letto e lo sbatté ripetutamente a terra con veemenza inaudita.

Don Bosco, non potendo più dormire da molto tempo, era dimagrito, e minacciava un'altra malattia; per cui si decise di farla finita.

Si armò di un quadretto della Madonna, salì con quello sul solaio, e fece un giro tutto attorno tenendo sollevato il quadro e gridando:

- Diavolo, diavolo, via di qua! Diavolo, diavolo, via di qua!

Poi appese il quadretto al muro e pregò la Madonna di liberarlo da quei disturbi e scherzi diabolici.

Da quel momento, tutto finì come per incanto, né si udirono più rumori né voci. Il quadretto stette colà appeso per ben sei anni fino a che quella casa venne demolita per farne un'altra.

 

Eppure caleranno...

La casa era divenuta stretta e da tempo don Bosco stava meditando di comprare la casa vicina di Francesco Pinardi, per poter ampliare l'Oratorio; ma questi pretendeva una somma assai rilevante.

Caso volle che la sera del 19 febbraio 1851, nell'osteria di fronte a detta casa, succedesse una rissa violentissima con feriti e contusi.

Il Pinardi, stanco di assistere a tali scene, si portò tosto da don Bosco, e gli disse:

- Don Bosco! E una cosa che non va più! È una continua disperazione! Risse e sempre risse!... Se dunque vuol comperare la mia casa, eccomi disposto a cedergliela.

- E per quanto?

- Per quello che le ho detto: ottanta mila!

- Non posso fare offerte.

- Perché?

- Perché il prezzo è esagerato.

- Mi rimetto a lei.

- Me la date per il suo valore?

- Parola d'onore!

- Sentite, signore, io l'ho fatta stimare, e mi si assicurò che, nello stato attuale, vale dalle 26 alle 28 mila. Io ve ne offro 30 mila, va bene?

- Sia pure! ma pagherà in contanti?

- Pagherò in contanti!

- Quando faremo il contratto?

- Quando vi piacerà.

- Un'altra settimana?

- Come volete.

Si strinsero la mano e si lasciarono.

Ma dove prendere i denari per pagarla?! Ecco il pensiero assillante di don Bosco in quei giorni. Ricordò in buon punto che il ven. Antonio Rosmini gli aveva promesso 20 mila lire; ma 20 non erano 30; e le altre 10?

A quelle pensò ancora la stessa Provvidenza.

Ecco d'improvviso capitare all'Oratorio il suo amico e consigliere don Cafasso, il quale, facendoglisi incontro con festante sorriso, quasi che i santi si leggessero in cuore, gli disse:

- Sono venuto a portarti una generosa offerta. Sono 10 mila lire che la contessa Casazza ti manda per le tue opere.

- Deo Gratias! - esclamò don Bosco. - Sono proprio il cacio sui maccheroni.

Gli raccontò il contratto della casa Pinardi, poi si recò difilato da questi a dirgli:

- Quando volete che facciamo l'istrumento? I denari sono pronti, e tutti in oro.

La parola stuzzicò il sig. Pinardi, che accettò di andare subito dal notaio Giuseppe Cotta.

Al momento di firmare, don Bosco tirò fuori il suo sacchettino e spiattellò, l'una sull'altra, le 30 mila lire d'oro.

Ma... le spese per il contratto? e il regalo promesso alla signora del Pinardi? Restavano 3500 lire da sborsare.

Don Bosco, che non vi aveva pensato, restò un istante perplesso, ma il suo buon umorismo cambiò subito la momentanea confusione in amenità. Prese a scuotere il sacchetto che ancora teneva in mano dicendo:

- Spero che caleranno... Devono calare!

Notaio e testimone scoppiarono in una risata, ed il sig. Cotta, grande benefattore di don Bosco, esclamò:

- Vuol dire che le 3500 lire le aggiungerò io; va bene così?

- Vedete un po' se sono calate! - continuò don Bosco. - Oh! lo sapevo che la Provvidenza non m'avrebbe lasciato negli imbrogli!

 

L'ospizio fallito

Una sera dell'aprile 1847, rincasando a tarda ora dalla visita a un malato, mentre appunto pensava a tanti poveri giovani che, privi di tetto, vagavano tutta la notte in cattive compagnie, venne ad imbattersi in un crocchio di ragazzetti i quali, al vedere un prete, ^cominciarono a lanciar frizzi poco gentili.

Don Bosco avrebbe voluto evitarli; ma, accortosi che non era più in tempo, pensò di fare buon viso a cattiva sorte, e avvicinatosi, li salutò dicendo:

- Buona sera, miei cari amici, come state?

- Poco bene, signor Teologo. Abbiamo sete, e non abbiamo quattrini - rispose uno.

- Non ci offrirebbe una pinta (doppio litro)? - soggiunse un altro.

- Sì, sì, una pinta! - presero a gridare gli altri in coro; ci paghi una pinta. - E lo accerchiarono in modo da impedirgli il passo.

- Ben volentieri! ma voglio bere anch'io in vostra compagnia.

- Sicuro! Oh che buon prete! Se tutti i preti fossero così!

- Andiamo dunque alla trattoria delle Alpi qui presso.

Don Bosco fa portare una, poi un'altra bottiglia, e quando li vede mansueti e benevoli, dice:

- Ora mi dovete fare un piacere.

- Dica, dica; non uno, ma due, ma tre!... D'ora in avanti vogliamo essere suoi amici.

- Ebbene, ora tornate alle vostre case. Domenica poi, vi attendo tutti all'Oratorio.

- Ma noi non abbiamo casa. Dormiamo qua e là nelle stalle, sul fieno.

- Allora, facciamo così: venite con me, e per questa sera ci aggiusteremo alla meglio.

Seguito da quel gruppo che si sarebbe detto di malandrini, arrivò a casa, e li consegnò a mamma Margherita dicendo:

- Madre, ecco i primi ospiti, pensate a ricoverarli. Fatto recitar loro il Pater Noster e l'Ave Maria che avevano dimenticato, per una scala a piuoli li condusse sul fienile, diede a ciascuno una coperta ed un lenzuolo, e raccomandando loro il silenzio e il buon ordine, scese soddisfatto e contento, credendo di aver così dato principio all'ideato ospizio.

Così però non la pensava il Signore, né di tal gente voleva servirsi la Provvidenza.

Fattosi appena giorno, don Bosco esce di camera per destare i suoi amici e dir loro una buona parola. Con meraviglia, non ode rumore; li crede addormentati; li chiama, poi sale per svegliarli; ma che?!

I mariuoli se l'erano svignata, portandosi via coperte e lenzuola. Il suo tentativo era andato fallito!

 

Fulmine provvidenziale

Altri giovani vennero a bussare alla porta di don Bosco in cerca di pane e d'alloggio, e don Bosco e la mamma si ingegnarono in tutti i modi per ricoverarli. Ma ben presto ogni posto fu occupato; perfino la cucina si tramutava di notte in dormitorio.

Come fare? Adocchiò una casa li presso, e la domandò in affitto.

La padrona, signora Vaglienti, gli chiese un prezzo esorbitante, e dopo lungo disputare, si stava per rompere le trattative, quando un caso affatto singolare tolse di mezzo ogni difficoltà.

Il cielo, che si era improvvisamente rannuvolato, divenne scuro scuro, ed ecco che si vede all'improvviso un guizzo di lampo vivissimo, e poi si sente un colpo di fulmine così gagliardo da far tremare la casa dalle fondamenta al tetto. La signora, sbalordita, si volge tremante a don Bosco ed esclama:

- Se Dio mi salva dal fulmine, le concederò la casa per la somma che lei mi offre!

Aveva appena finito di parlare che il cielo si rischiara e appare un bel sole.

Don Bosco non pone tempo in mezzo. Acquista la casa e subito «è uno spettacolo vedere alla sera le stanze illuminate, piene di ragazzi e di giovani. In piedi dinanzi ai cartelloni, con un libro in mano, nei banchi intenti a scrivere, seduti per terra a scarabocchiare sui quaderni le lettere grandi».

Alcuni confratelli sacerdoti sono venuti ad aiutarlo. La faccenda della sua «fissazione» si è spenta da tempo. Quando don Bosco ha un'idea fissa - dicono i ragazzi - è capace di sputar sangue per realizzarla.

Anche la Marchesa di Barolo ha cambiato idea e gli manda generose offerte «per i suoi monellacci».

 

Vino del santo nome di Dio

L'appetito viene mangiando, dice il proverbio. Ebbene, questo è appunto il caso di don Bosco. Comperata la casa, sente tosto il bisogno di dare principio ad una chiesa, ove radunare comodamente in preghiera tutti i suoi ragazzi, e dice a mamma Margherita:

- Madre, ora voglio innalzare una bella chiesa in onore di san Francesco di Sales nostro protettore.

- Ma dove prenderai i soldi?... Lo sai che non abbiamo più nulla... tutto ci divorano questi pover figlioli! Pensaci bene prima; intenditi con il Signore.

- È appunto quello che faccio. Il Signore è tanto buono... del denaro Egli ne ha per tutto il mondo. Niente paura!

Chiamato pertanto l'architetto Blanchier lo pregò di fargli il disegno. Chiamato poi l'impresario Federico Bocca gli affidò i lavori e tosto una trentina di muratori e manovali si accinsero all'opera.

Tra questi muratori, ve n'erano alcuni che, tratto tratto, si lasciavano sfuggire qualche bestemmia che feriva l'orecchio di don Bosco e di sua madre, i quali li pregavano di non bestemmiare. Ma essi si scusavano dicendo:

- Che volete!... è l'abitudine... ci sfuggono contro la nostra volontà... è impossibile vincersi.

- Ebbene, faremo così - disse loro don Bosco - se non bestemmierete, ogni sabato vi regalerò un bicchiere o due di vino.

Questo linguaggio fu più potente e persuasivo d'ogni predica, e per l'amore del vino, promisero e mantennero la parola. Per più di un anno, mamma Margherita, ogni sabato, recava loro un barilotto di vino, e quando chiedevano:

- Mamma Margherita, che vino è questo? Essa rispondeva:

- È vino del santo nome di Dio!

 

Mangerò un cane

Quando don Bosco lanciò l'idea di costruire la chiesa, un suo collega, don Cogliotti, gli lanciò questa sfida:

- Povero don Bosco, se tu riuscirai a costruire una chiesa, come dici, io mangerò un cane!

Di chiese, don Bosco ne costruì non una ma decine in diverse parti d'Italia; ma don Cogliotti di cani non ne mangiò neppure uno.

Il Santo, incontrandolo altre volte, gli diceva ridendo:

- Eh!... Cogliotti, e il cane?...

La chiesa di san Francesco di Sales fu consacrata il 22 giugno 1852. Fu la chiesa-madre, la «Porziuncola» della Famiglia salesiana, il cuore pulsante di Valdocco fino al 1868, quando fu consacrato il sontuoso santuario dedicato a Maria Ausiliatrice.

 

Un caffè dal boia

Dopo la morte di san Giuseppe Cafasso (23-6-1860) era divenuto confessore delle carceri, e vi si recava ogni settimana per tale ufficio.

Un giorno, dopo aver atteso per più ore alle confessioni, uscì nei corridoi talmente spossato, che quasi più non ci vedeva; ed invece della porta di uscita, infilò la porta dell'alloggio del boia, e si trovò davanti ad un uomo, una donna ed una loro ragazza che stavano cenando.

Accortosi dello sbaglio, fece buon viso a cattiva sorte, e disse disinvolto:

- Sono molto stanco e ho bisogno di una tazza di caffè: avreste la bontà di favorirmelo?

- Ma sì! Venga pure avanti, reverendo, si accomodi.

L'uomo porge una sedia, e la donna e la figlia s'accingono a preparare una tazza di caffè. Il carnefice intanto continuò:

- Ma lei, reverendo, sa in casa di chi è venuto?

- Certo in casa di un brav'uomo.

- Eppure, lei si trova in casa del boia!

- Che importa? so che siete un bravo cristiano, e questo mi basta. Voglio che siamo amici.

Quel povero uomo, che non si era mai sentito trattare così bene da persona distinta, cadeva dalle nuvole e si sprofondava in mille gentilezze. Venne intanto il caffè, e

siccome fu recata una tazza sola, don Bosco s'affrettò a chiederne una seconda, dicendo:

- Oh!... bisogna che lo prendiamo insieme.

- Questo poi no! - rispose il carnefice. - Io che mando la gente all'altro mondo, prendere il caffè con lei, che la manda in Paradiso?...

- Appunto, appunto! fra tutt'e due, compiamo un'opera salutare; voi riguardo alla società ed io riguardo a Dio.

La seconda tazza fu portata; il Santo la porse al boia, ed entrambi lo sorbirono allegramente. Né sarà stata l'ultima, giacché da quel giorno anche il carnefice s'univa ai carcerati a confessarsi e fare la comunione, fino a che lasciò di praticare quel poco glorioso mestiere.

Il Santo si compiaceva di raccontare l'episodio toccatogli, e finiva col dire:

- Dunque, io e il boia siamo due buoni amici.

 

Con i discoli della «Generala»

Nel 1855, don Bosco aveva predicato gli esercizi spirituali ai ragazzi rinchiusi nella «Generala» di Torino, l'istituto correzionale per i discoli.

La mattina della Comunione generale chiese ed ottenne dal Ministro dell'Interno, Urbano Rattazzi, il permesso di condurli tutti in numero di 350 ad una passeggiata fino a Stupinigi, distante sei chilometri da Torino.

La più schietta allegria durò per tutta quella giornata di libertà; e quando, alla sera, li ricondusse a casa, nessuno mancò all'appello.

Impossibile immaginare le meraviglie di tutti, del personale, del Direttore e dello stesso Ministro, ed il chiedersi come mai un povero prete solo, senza guardie e carabinieri, avesse potuto tener a bada un si grande numero di corrigendi.

Il Santo prese occasione per spiegare i vantaggi del suo sistema di educazione; e quei signori ne furono talmente persuasi che, pochi giorni dopo, gli fecero la proposta di accettare la Direzione dell'istituto. Don Bosco, però, si scusò col dire:

- Miei cari signori, non posso perché, col mio sistema, farei di questi giovani altrettanti preti e frati, e voi non ne sareste contenti.

 

O religione o bastone

Un ministro inglese, desideroso di far conoscenza con don Bosco del quale sentiva tanto parlare, e anche desideroso di apprenderne il metodo di educazione, si recò nel 1855 a Torino, e chiese di visitare l'Oratorio Salesiano.

Lo ricevette don Bosco stesso, che lo accompagnò in giro per quella grande casa.

La meraviglia del ministro cresceva di mano in mano che attraversava laboratori e reparti. Ma quando fu introdotto nel gran salone ove attendevano allo studio, con la massima serietà e nel più perfetto silenzio, oltre cinquecento giovani con la sola assistenza di due chierichetti, la meraviglia si cambiò in stupore, e rivolto al Santo esclamò:

- Reverendo, non sa che questo è uno spettacolo magnifico? Mi dica di grazia, quale è il segreto per ottenere tanto silenzio e tanta disciplina? Me lo dica, perché io voglio prenderne nota, e riportarlo in Inghilterra.

- Signor ministro - rispose don Bosco - il mio segreto non serve per loro.

- E perché?

- Perché è un segreto dei cattolici, mentre voi siete protestanti. Il mio segreto è la Confessione frequente e settimanale.

- Se è così, noi manchiamo davvero di questo potente mezzo di educazione. Ma non si potrebbe supplire altrimenti?

- Eh no! Se non si usa questo elemento di religione, è necessario ricorrere al bastone.

- Dunque, Padre: o religione o bastone?

- Sì, o religione o bastone! - rispose don Bosco ridendo.

- Bene, bene. O religione o bastone! Ho capito; voglio raccontarlo a Londra.

 

Addio, mamma Margherita

Da qualche tempo era morta mamma Margherita (25 novembre 1856), ma don Bosco sempre la ricordava con viva commozione. Un giorno del 1860 la rivide in una visione fugace, ma consolantissima: era tutta agile e sorridente, ed egli le disse:

- O madre, voi qui? Ma non siete dunque morta?

- Sì, sono morta - rispose la madre - ma vivo!

- Siete felice?

- Felicissima!

- In Paradiso?

- In Paradiso, quantunque sia passata per le fiamme del Purgatorio.

- Vi sono dei nostri giovani in Paradiso?

- Sì, tanti. - E ne nominò parecchi.

- E che cosa si gode lassù?

- Tu mi chiedi l'impossibile, perché ciò che si gode quassù nessuno mai lo potrà né dire né esprimere.

Improvvisamente fu avviluppata da una luce di inesplicabile bellezza, ed esclamando «Giovanni, ti aspetto per restare sempre uniti» disparve nell'armonia di un canto di voci angeliche.

Don Bosco, raccontando ai suoi figlioli questa visione, diventava come ispirato, e finiva sempre col ripetere:

- Oh! la rivedrò sì, la madre mia, e la vedrete anche voi se saremo perseveranti nel servizio del Signore. Coraggio, adunque; allegri, e mai peccati!

 

La grande chiesa sognata

Nel 1863 don Bosco volle dare principio alla magnifica chiesa di Maria Ausiliatrice, e le maggiori difficoltà gli vennero dal Municipio.

Portato il disegno per l'approvazione, il Capo Ingegnere non volle approvarlo dicendo:

- Ma questo titolo di «Ausiliatrice» è impopolare... inopportuno! Sa troppo di bigottismo. Insomma non è adatto ai tempi!

- Ebbene - rispose don Bosco - eliminiamo il titolo.

- E quale altro titolo metterà al posto?

- Questo sta a me trovarlo.

- Ci pensi, dunque.

- Per ora, non ne ho nessuno, e così sarò in libertà di darle, a suo tempo, il titolo che mi parrà meglio.

- Ma lei trama un inganno!

- Qui non c'è inganno. Lei non vuole approvare il titolo e non l'approva; io glielo voglio dare e glielo darò; così saremo contenti tutti e due, perché tutti e due avremo compiuto i nostri desideri.

L'ingegnere sorrise e sebbene a malincuore approvò.

 

«Dì qui la mia gloria!»

Don Bosco affidò il progetto del nuovo santuario all'architetto Antonio Spezia che lo sviluppò in forma di croce latina sopra una superficie di 1200 metri quadrati, con una lunghezza di m 48. Era prevista la cupola, con intorno la scritta da lui veduta in sogno: «Di qui la mia gloria!». Bisognava sentire le meraviglie della gente che accorreva a vedere la grandiosità dell'impresa.

- Come farà don Bosco ad andare avanti?

- Dove prenderà i denari?

- Si caricherà di debiti!

- Avrà trovato un tesoro!

- Finirà con una bancarotta!

- E una pazzia!... Una temerità!!! Il Santo sentiva, taceva e continuava.

Compiuto lo sterro, si pose la prima pietra con una grandiosa funzione; e appena finita, rivolto al capo mastro Carlo Buzzetti disse:

- Bravo Buzzetti: ti voglio subito dare un acconto per i grandi lavori. Non so se sarà molto, ma è tutto quello che ho.

Così dicendo, tirò fuori il borsellino, l'aprì e lo versò capovolto nelle mani del capo mastro,, che credeva di averle piene di marenghi.

Ma quale non fu la sorpresa sua e di tutti, al vedere la somma di otto poveri soldi!

E don Bosco, soggiunse:

- Sta' tranquillo: la Madonna ci penserà e provvederà Lei il denaro per la sua chiesa.

Così avvenne difatti. La chiesa di Maria Ausiliatrice costò oltre un milione, ma la Madonna aiutò a pagar tutto con grandi e continui miracoli. Don Bosco soleva dire:

- Ogni mattone di questa chiesa è una grazia della Madonna.

 

Grazie ottenute con la medaglia

Don Bosco confidava molto in Maria Ausiliatrice e ne diffondeva la medaglia.

Un giorno si presentano a lui cinque dei suoi primi chierici, assai sconsolati per essere richiamati al servizio militare.

Don Bosco li guardò sorridendo, ed esclamò: «O soldati di polenta! Che cosa ne farà di voi il governo?». Poi, tirato fuori il suo portamonete, ne trasse 5 medaglie benedette e le distribuì loro dicendo: «Prendete, tenetele preziose, riportatemele fra pochi giorni».

Il giorno fissato, si presentarono al distretto, e si sentirono dire che si trattava di uno sbaglio. Ritornassero pure ai loro studi.

Corsero giubilanti a portare la medaglia a don Bosco, che sorridendo esclamò: «L'avete provata la potenza e la bontà di Maria Ausiliatrice?!».

Un altro giorno ricevette una lettera da una signora d'America che diceva:

«Reverendo don Bosco, è la terza volta che tento l'impianto di una vigna in queste regioni, ma sempre senza esito.

Chiedo a lei una benedizione speciale per riuscire nell'intento».

Don Bosco le spedì tosto un pacco di medaglie di Maria Ausiliatrice, con accluso un biglietto che diceva:

«Ecco la benedizione speciale che vossignoria mi chiede per l'impianto della sua vigna.

Ritenti la prova mettendo in capo ad ogni filare una delle qui unite medaglie, ed abbia fiducia in Maria Ausiliatrice».

La buona signora seguì il consiglio di don Bosco. Ritentò la prova, e vide il miracolo.

La vigna attecchì ottimamente, ed a suo tempo diede frutti mai veduti in quei paesi.

 

7. LA VITA NELL'ORATORIO

 

Si moltiplicano le ostie

Il giorno della Natività di Maria Santissima del 1847, circa 650 giovani erano stati confessati ed erano pronti per la Comunione.

Don Bosco incominciò la Messa e la continuò, credendo che nel tabernacolo vi fossero le Ostie consacrate. La pisside invece era quasi vuota, ed il sacrestano si era dimenticato di mettere sull'altare l'altra pisside da consacrare.

Giunto alla Comunione, don Bosco s'accorse della dimenticanza del sacrista; ma come fare? Non c'era rimedio! Alzò gli occhi al cielo, trasse un gran sospiro, poi cominciò e continuò la Comunione a tutti, come se nulla fosse; e le particole si moltiplicarono nelle sue mani, in modo che poté comunicare tutti, senza spezzare neppure una particola.

Interrogato poi dai suoi giovani come avesse fatto, tranquillamente rispose:

- Oh bella! Per la dimenticanza del sacrestano, aveva forse da restarne disgustato Gesù, che desiderava tanto venire nei vostri cuori?

 

,. e le castagne

La domenica dopo la festa dei Santi del 1849, si era fatto nell'Oratorio l'esercizio della buona morte, ossia la confessione e la comunione da tutti i giovani interni ed esterni. E alla sera, don Bosco li condusse a visitare il camposanto, con la promessa di regalare loro le castagne quando fossero ritornati.

Mamma Margherita ne aveva comperati tre sacchi; ma poi, pensando che mezzo sacco sarebbe bastato per far divertire quei giovani, si limitò a far cuocere quelle.

Ritornati i giovani, e schieratisi come soldati in attesa, don Bosco si accinse alla distribuzione, riempiendo ad ognuno il berretto.

- Che fai! - gli gridò allora la madre. - Non ne abbiamo abbastanza!

- Ma sì!... - soggiunse don Bosco; - ne abbiamo tre sacchi!

- Ma le altre non sono cotte!

- O cotte o non cotte, continuiamo come abbiamo cominciato!

E continuò realmente a dare ad ognuno pieno il berretto. Intanto il cesto si vuotava; non ve ne erano più che poche manate, e i giovani erano ancora molti.

Alle grida di gioia, successe a poco a poco un silenzio d'ansietà: tutti temevano di restar senza.

Ma don Bosco, che non si sgomentava mai, li incoraggiava dicendo:

- Le migliori stanno in fondo. Niente paura!

E rimboccatesi le maniche, continuò a cacciare le mani nella cesta e riempire i berretti. Per quante ne cavasse, non diminuivano mai; di modo che tutti furono serviti, e quando si portò il cesto in cucina, ne rimaneva ancora la porzione di don Bosco e quella della mamma.

In quella sera, nel cortile e sulle vie, fu un grido solo: - Don Bosco ha moltiplicato le castagne.

In memoria di questo fatto, in tutte le case di don Bosco, si distribuiscono, la sera dei Santi, le castagne lessate.

 

Placido sonno

Era la vigilia di una solennità, don Bosco era sempre pronto ad ascoltare, con ammirabile pazienza, quanti giovani gli si presentassero per confessarsi, aprirgli il loro cuore, o togliersi qualche inquietudine dall'animo. Quella sera confessava nella sacrestia, e quantunque s'appressasse la mezzanotte, molti dei suoi ragazzi aspettavano ancora il loro turno.

Affaticato per il duro lavoro della giornata e spossato per la veglia della notte antecedente, fu a poco a poco vinto dal sonno, e la sua testa venne piano piano a posarsi sulla spalla del piccolo penitente che si stava confessando.

Il fanciullo fu dapprima meravigliato; ma poi, contento di fare come da sostegno a un tanto padre, si guardò bene dal fare il più piccolo movimento, e anzi, prese a dormire anche lui placidamente.

Gli altri giovani schierati intorno, vedendo prolungarsi soverchiamente l'attesa, s'addormentarono a loro volta: e così, confessore e penitenti facevano, senza saperlo, a chi dormiva meglio.

Sono le due del mattino ed il povero don Bosco si risveglia di soprassalto. Con stupore, misto a meraviglia ed umiliazione, guarda di intorno... Il piccolo penitente ha il capo reclinato sull'inginocchiatoio e riposa saporitamente. Don Bosco si alza leggero leggero e va a dare uno sguardo al posto dove attendevano gli altri. Sono ancora là, ma anche loro dormono. Che fare? Rientra in confessionale. Sveglia il piccolo penitente e lo manda a dormire. Ripete la stessa cosa ad uno ad uno e li manda a letto, rimettendo le confessioni a giorno fatto.

 

Ho perduto i peccati

Un giorno fu condotto dinanzi a don Bosco un suo giovanetto tutto piangente.

Costui, desideroso di fare la sua confessione generale con la maggior precisione possibile, aveva scritto i suoi peccati e ne aveva riempito un quadernetto. Ma, non si sa come, aveva perduto il volumetto delle ingloriose sue -gesta, e per quanto frugasse in ogni tasca, il manoscritto più non lo trovava, ed a nessuno voleva palesare il motivo della sua desolazione.

Don Bosco, fattolo appressare a sé, prese ad interrogarlo:

- Che hai, caro Giacomino? Ti senti male? Hai dispiaceri?... Ti hanno picchiato?...

Il ragazzo, preso un po' di coraggio, rispose:

- Ho perduto i peccati!

A queste parole, i compagni, ed anche don Bosco, diedero in uno scroscio di risa; ma poi il Santo soggiunse:

- Te felice, se hai perduto i peccati! e felicissimo se non li troverai mai più, perché, senza peccati, andrai sicuro in Paradiso!

Giacomino, credendo di non essere stato inteso, alza gli occhi rigonfi a guardare il buon padre, e grida:

- Ho smarrito il quaderno dove li avevo scritti! Allora don Bosco che aveva trovato il quadernetto, trattolo di tasca, esclama:

- Sta' tranquillo, mio caro; i tuoi peccati sono caduti in buone mani. Eccoli qui!

A quella vista il poveretto si rasserenò, e sorridendo concluse:

- Se avessi saputo che li aveva trovati lei, invece di piangere, mi sarei messo a ridere; e questa sera, venendo a confessarmi, avrei detto: «Padre, io mi accuso di tutti i peccati che lei ha trovato e che tiene in tasca».

 

Battaglia nell'orto

Si era al tempo delle prime guerre dell'Indipendenza Italiana (1848-49), ed anche nei giovani si era infuso un fermento bellico da non dirsi.

Don Bosco, che sapeva servirsi di tutto per attirare maggiormente i fanciulli, permetteva che si facessero anche nell'Oratorio delle guerricciole innocenti con bastoni, fucili e sciabole di legno.

Un giorno, essendo molti ragazzi schierati in ordine di guerra, datosi l'ordine dell'attacco, l'impeto fu così veemente che la mischia si spinse, senz'avvedersene, fin oltre il cortile, giù giù nell'orto di mamma Margherita.

Smantellata la siepe, tutti pesti i seminati e sciupati i raccolti, quell'orto divenne una desolazione. Mamma Margherita, accorsa tutta affannata, ne faceva le lagnanze con quei guerrieri in erba, senza potersi dar pace di tanto sciupio. E don Bosco a lei:

-- O madre, che volete farci; sono giovani!

Chiamato poi il generale, il quale se ne stava tutto confuso in tanta gloria, gli fece animo con le più dolci parole, e tratto fuori un grosso cartoccio di caramelle glielo diede dicendogli:

- Prendi, distribuisci ai vincitori e ai vinti, ma non dite nulla alla mamma perché non mi bastoni.

 

E se morissi stanotte?

Da qualche tempo don Bosco usava le più delicate cure per un ragazzo dell'Oratorio che, a dispetto di tutto, si manteneva chiuso e si dimostrava ritroso ed ostinato.

Il Santo ricorse allora ad uno stratagemma. Preso un foglietto di carta, vi scrisse sopra queste parole: «E se morissi stanotte?», e andò a deporlo tra il lenzuolo e il guanciale di quel poveretto. Venuta la sera, tutti vanno a dormire, ed anche il nostro giovane si sveste e fa per mettersi a letto. Ma gli salta agli occhi quel foglio.

- Oh! Che sarà mai?

Lo prende, lo legge e lo rilegge: «E se morissi stanotte? Don Bosco».

- Ma don Bosco è un Santo... conosce l'avvenire... chissà che non debba essere così?! E se morissi davvero?!... Ma io non voglio morire... no!...

Intanto si corica, si copre per bene, e tenta di addormentarsi. Ma che!... addormentarsi in quello stato? Con quelle parole che lo pungono come acuta spina? E impossibile!

Si volta e rivolta, e chiude stretti gli occhi: tutto inutile. Sente più vivo il suono di quelle parole; gli par di vedere realmente lì, dinanzi a sé, la morte, il Divin Giudice, l'inferno. Un brivido l'assale, e, tutto in un sudore, esclama:

- Povero me! ma io non voglio andare all'inferno; voglio confessarmi.

Si raccomanda alla Madonna, si alza, si veste pian piano, discende le scale, attraversa i corridoi, sale alla stanza di don Bosco, e picchia.

Il Santo, che l'attendeva, apre e lo introduce dicendogli:

- Oh, se sapessi quanto di cuore ti ho atteso! Fatta la sua confessione dolorosa e sincera, se ne ritornò tranquillo e felice a letto.

 

Non gli ho firmato il passaporto

Uno dei migliori giovani dell'Oratorio era caduto gravemente ammalato.

Don Bosco era assente. Al suo arrivo, superiore e giovani gli vanno incontro, pregandolo di correre subito al letto del moribondo.

Don Bosco, per nulla allarmato a quella notizia, non s'affrettò punto. Anzi, disse sorridendo:

- Eh, no! Davico non muore: non gli ho ancora firmato il passaporto.

Giunto poi presso il malato che era in delirio, si chinò e gli disse una parola all'orecchio; poi fece inginocchiare i presenti perché pregassero Savio Domenico, di cui Davico portava il nome. Appena finita quella breve preghiera, il malato s'alza a sedere sul letto ed esclama:

- Sono guarito!... sono guarito!

- Ebbene, vieni a cena con me - soggiunse don Bosco fra le meraviglie di tutti.

Pareva una follia far alzare uno ed invitarlo a cena, mentre poco prima era moribondo...

Il giovane si alzò, andò a cena con lui, e quella sera vi fu grande allegria, perché tutti vedevano che Davico stava benissimo.

 

Risuscita un morto

Nel 1849 cadeva gravemente ammalato un giovane sui 15 anni di nome Carlo, che frequentava l'Oratorio come esterno.

Era figlio dell'albergatore di una vicina trattoria e, quando il medico lo diede spacciato, si pensò di chiamargli un sacerdote. Carlo voleva don Bosco, suo confessore solito, e don Bosco era fuori Torino. Nella notte il ragazzo morì, sempre chiamando don Bosco.

Quando questi giunse e seppe di Carlo si affrettò a quella casa. Quando vi giunse, il cameriere gli si fece incontro, singhiozzando.

- Troppo tardi, don Bosco, troppo tardi! Carlo è morto stanotte.

- Ma che?!... Egli dorme.

E siccome il cameriere lo guardava con aria ironica, soggiunse:

- Volete scommettere una pinta, che Carlo non è morto?

In quel mentre, sopraggiunsero gli altri di casa, che piangendo gridarono:

- Sì, sì! è proprio morto! Ah!... il povero Carlo non è più!

- Andiamo a vedere - continuò il Santo. E subito fu condotto nella camera dove il cadavere, già vestito dei suoi abiti, era ricoperto di un velo bianco.

Don Bosco si appressò, fece una fervida preghiera, poi disse ai presenti:

- Ritiratevi un momento; lasciatemi solo con lui. Dopo quella preghiera, in tono di comando lo chiamò:

- Carlo... Carlo... alzati!

A quella voce, il giovane si muove, e come svegliandosi da un profondo sonno, apre gli occhi, li volge attorno, e dice:

- Dove sono? Oh don Bosco!... è proprio lei?... Se sapesse quanto l'ho sospirato!... Ho bisogno di lei; ha fatto bene a svegliarmi.

Intanto la madre, che origliava, udita la voce del figlio, si precipitò nella stanza. Don Bosco gridò:

- Aspettate, non è ancora tempo. Andate a richiamare la famiglia; vi avvertirò io.

Rivolto di nuovo a Carlo, continuò:

- Sono qui per te; di' pure tutto quello che vuoi.

- Oh, don Bosco! Io dovevo essere all'inferno! L'ultima volta che mi confessai, non osai palesare un peccato. Ora, ho fatto un sogno spaventoso. Ho sognato di essere sull'orlo di un'immensa caverna... molti demoni mi spingevano, volevano precipitarmi dentro, quando ho sentito la sua voce. Voglio confessarmi!

E cominciò subito la sua confessione coi segni del più grande pentimento. Appena finito, ad un cenno di don Bosco, rientra la madre con tutti quei di casa, e Carlo, volgendosi a loro, grida:

- Don Bosco mi ha salvato! Mi ero confessato male. Don Bosco mi ha salvato dall'inferno!

Stette circa due ore, pienamente padrone della sua mente, rispondendo a tutte le interrogazioni. Ma intanto, per quanto si muovesse e parlasse, il suo corpo era sempre freddo, la sua faccia cerea, i suoi occhi smorti e smarriti.

Finalmente, don Bosco gli disse:

- Ora sei in grazia di Dio. Il Paradiso è aperto per te... vuoi andare lassù, o rimanere con noi?

E Carlo rispose risoluto e festante:

- Desidero andare in Paradiso! Arrivederci in Paradiso!!!

E si lasciò cadere sul guanciale, immobile, riaddormentato nel Signore.

La fama di questo fatto durò viva per molti anni; tutti ne parlavano, e da tutti si conosceva il posto, l'insegna di quella locanda, il nome e il cognome del giovane e della famiglia.

 

Guai a Torino!...

Tra i giovani dell'Oratorio v'era un certo Gabriele Fassio tredicenne, di illibati costumi e di grande pietà. Don Bosco ne aveva grande stima, e spesso esclamava:

- Oh quanto è buono!... Ma presto morrà! E fu profeta.

Caduto ammalato e ridotto agli estremi, dopo aver ricevuto tutti i conforti religiosi, come ispirato dall'alto, si pose a gridare:

- Guai a Torino!... Guai a Torino!

Ai compagni che l'assistevano e che domandarono il perché di quel guai, rispose:

- Un orribile terremoto!

- Quando sarà?

- Il 26 aprile... Guai a Torino!

- Che cosa dobbiamo fare?

- Pregare san Luigi che protegga l'Oratorio e quelli che lo abitano.

Poco dopo moriva santamente, e i giovani dell'Oratorio presero ad aggiungere alle orazioni del mattino e della sera un Pater, Ave, Gloria ad onore di san Luigi, con la invocazione: «Ab omni malo libera nos, Domine».

Venne il 26 aprile 1852. Sul mezzogiorno, un rombo tremendo, udito a quindici miglia all'intorno, faceva traballare la città, sgangherando usci e porte e finestre, e non lasciando un vetro intatto.

Era scoppiata la polveriera, e poco mancò che riducesse Torino in un cumulo di rovine.

La casa dell'Oratorio, che distava appena 500 metri dalla polveriera, restò intatta, ed i giovani, fuggiti nelle vie e nei prati vicini, furono tutti salvi. Don Bosco fece stampare un'immagine ricordo, nel cui sfondo si vedevano la città di Torino e la polveriera in fiamme, in alto la Vergine della Consolata, e sul davanti giovani inginocchiati, rivolti a Maria. Sotto, si leggeva questa strofa:

Noi dalle accese polveri

Per tua mercé scampati

Ai piedi tuoi, gran Vergine,

Grazie rendiam prostrati.

Il Santo e i suoi giovani, cantando sovente questa lode, finivano con un grido di Evviva alla Vergine Ausiliatrice che li aveva scampati da un tanto pericolo.

 

Il colera del 1854.

Sul principio dell'agosto 1854 scoppiò in Torino il colera. Don Bosco l'aveva preannunziato, e già fin dal mese di maggio aveva detto ai suoi giovani:

- Quest'anno ci sarà il colera a Torino, e vi farà grande strage; ma se voi farete ciò che vi dico, sarete salvi.

 

- E che cosa dobbiamo fare?

- Prima di tutto, vivere in grazia di Dio; poi, portare al collo una medaglia che io benedirò e darò a tutti, e recitare un Pater, Ave e Gloria ad onore di San Luigi.

I casi di colera salirono ben presto a cinquanta al giorno. In tre giorni superarono i 1400. La regione più afflitta fu quella di Valdocco, ove si trovava appunto l'Oratorio; e mentre molte famiglie furono interamente distrutte, dei giovani e del personale dell'Oratorio nessuno fu menomamente toccato, quantunque una gran parte si fossero offerti di andare ad assistere i colerosi nelle case e nei lazzaretti.

Don Bosco, che loro andava ripetendo: «Se non farete peccati, io vi assicuro che nessuno sarà toccato», fu veramente profeta.

Berta in sacco.

Un giovane di nome Pietro, che era stato parecchi anni con don Bosco all'Oratorio, finì con cadere nelle reti dei Valdesi e ascriversi alla loro setta.

Essendosi gravemente ammalato, questi si erano piazzati accanto al suo letto per impedirgli di chiamare il prete cattolico.

Don Bosco, saputolo, corse alla casa dell'infermo. Gli apre un pastore, che gli dice:

- Chi cerca, signor Abate?

- Cerco di parlare al povero ammalato.

- Non può ricevere nessuno; è rigorosamente proibito dal medico.

- Il medico, certamente, non intende di estendere a me la sua proibizione; mi lasci passare, farò una semplice commissione.

Così dicendo, si fa strada ed entra esclamando:

- O Pietro mio, come stai?! Ti ricordi ancora di me? Mi riconosci?!

 

- Sì... lei è don Bosco, l'antico amico della mia anima!

Il pastore a questo punto grida a don Bosco:

- Insomma la prego di ritirarsi. Lei non ha niente a che fare con questo giovane.

- Ho invece molto da fare e da dire con lui! E lei chi è, che comanda qui dentro?

- Io sono un ministro valdese.

- Ed io sono don Bosco, il direttore dell'Oratorio di Valdocco.

- Ebbene, che cosa vuole da questo ragazzo?

- Voglio aiutarlo a salvarsi l'anima, mentre lei lo vuole perdere.

- Ma egli non ha nulla a che fare con lei.

- E perché mai?

- Perché si è ascritto alla Chiesa Valdese.

- Io l'ho scritto prima di lei nel catalogo dei miei figli.

- Ma lei turba la coscienza di questo povero infermo, ed avrà a pentirsene.

- Quando si tratta di salvare un'anima, non temo conseguenze.

- Ripeto che lei deve andarsene subito di qui. Sappia, signor Abate, che io ho l'autorità!

- Ed io ripeto che rispetto tutti, ma non temo nessuno, perché sono sicuro che l'infermo è pentito di aver dato il nome alla vostra setta, e desidera morire cattolico.

- Questa è una seduzione, una menzogna! - grida più forte il ministro. E volgendosi al malato l'interroga:

- Non è vero, Pietro, che volete continuare nella chiesa evangelica?

- No! - rispose il giovane. - Io sono cattolico, e voglio vivere e morire da cattolico.

A questa aperta e franca confessione, il ministro se ne andò gridando:

- Ritornerò a tempo migliore!

- Il tempo migliore è appunto questo - soggiunse

 

don Bosco accompagnandolo alla porta. Quindi rivolto al giovane, con aria sorridente e rassicurante, gli disse:

- Vedi, Pietro, che gli abbiamo fatto mettere Berta in sacco (che gli abbiamo chiuso la bocca)? Oh, quanto è buono il Signore!... Sappi essere fedele.

Lo confessò e gli ridiede la pace. Il giovane, guarito da quella malattia, rimase poi fedele alla sua fede.

Abito grande e porta stretta.

Una signora dell'aristocrazia torinese, amante dei poveri e generosissima con loro, era solita recarsi ogni mese da don Bosco a fargli le sue offerte.

Un giorno si presentò vestita d'un'ampia veste con crinolina, come s'usava allora, e volendo entrare nella stanza di don Bosco, la cui invetriata era aperta solo per metà, si ruppero le laminette di acciaio che tenevano rigonfio l'abito.

La signora, mortificata e indispettita, protestò che non sarebbe mai più venuta all'Oratorio.

Il Santo, dispiacentissimo, le disse:

- Eccellenza, ella forse non ricordava che le porte di don Bosco non sono larghe come quelle del suo palazzo.

Queste parole non valsero a rabbonire la dama, la quale, fatta avvicinare la carrozza, se ne partì, ripetendo che non avrebbe mai più messo piede nell'Oratorio.

- Va bene, va bene; così mi obbligherà a venire io da lei - rispose don Bosco con tutta calma e sorridendo.

Difatti prese a recarsi ogni otto giorni dalla dama, la quale, alla terza volta, esclamò:

- Come va che siete ritornato così presto?

- Se vostra Eccellenza non viene più da me - rispose don Bosco - bisogna bene che io venga da lei; altrimenti, come potrò tirare avanti con i miei giovani che mancano di tutto?

 

La dama capì l'arguzia e l'umiltà del Santo, e riprese a recargli personalmente ogni mese le sue generose offerte.

Robiole... e peccati.

Nell'aprile del 1876 si era ammalato un alunno della terza ginnasiale, che era la consolazione e anche la speranza dei Superiori per la sua ottima condotta e per l'eccellente riuscita negli studi.

Tornando poi all'Oratorio dopo essere stato in famiglia per un po' di convalescenza, salì da don Bosco e con accorato accento gli disse:

- Signor don Bosco, i miei genitori, trovandosi in gravi strettezze, non possono più pagare la pensione e neppure il debito già esistente. L'unica cosa che abbiamo potuto fare per compensarla in qualche modo, si fu di mandarle queste sei robiole.

Così dicendo trasse da un sacchetto sei piccole forme di cacio brianzolo.

Don Bosco, ammirando l'umile disinvoltura e tutta la grazia di quel suo caro figliolo, soggiunse:

- Ma dunque, i tuoi parenti non potrebbero fare proprio più nulla?

- Nulla! Nulla! Io però potrei darle ancora qualche cosa.

- E che?

- I miei peccati con una confessione generale. Rise il Santo di tanta ingenuità, e conchiuse:

- Bene, bene, le robiole le terrò per mandarle in cucina, e la confessione verrai a farla questa sera.

Quello stesso giorno, al pranzo dei Superiori fu servita una di quelle robiole, e don Bosco esilarò i commensali, raccontando il fatto.

 

La lezione di don Bosco.

Cedendo all'insistenza di un buon parroco della diocesi di Alba, era andato a predicarvi nella circostanza dei fedeli defunti.

La sera del 2 novembre scendeva da quelle colline per andare alla stazione di Bra; ma avendo smarrita la via ed essendo l'ora tarda e la pioggia dirotta, si vide costretto a chiedere ospitalità al cappellano di una chiesetta che sorgeva a fianco della strada.

Fu accolto con un po' di malumore, ed esposto ad una specie d'interrogatorio:

- Chi è lei?

- Un povero prete di Torino: ho smarrito la via; chiedo un po' di ricovero.

- E quale officio esercita in Torino?

- Officio una chiesetta dalle parti di Valdocco.

- E avrà anche da cenare?,

- Se nella sua carità vuole darmi qualche cosa, accetterò volentieri.

- Mi rincresce di non aver niente in casa; posso offrire un po' di pane e formaggio.

- Ma sì, anche troppo: gliene sarò riconoscente.

- E forse, stasera, farebbe conto di fermarsi qui?

- Vede bene... con questo tempo... tanto più che il treno è già partito.

- Già... L'è che io non avrei letti disponibili...

- In quanto a questo, si rimedia subito: due sedie bastano.

- Se è così, si accomodi. Mi dispiace di doverla trattare in questo modo!

Mentre la perpetua metteva in tavola il pane e il formaggio, il padrone continuò:

- Dunque, lei viene da Torino!

- Sissignore.

- Conosce forse un certo don Giovanni Bosco?

- Sì, un poco.

 

- Io non mi sono mai incontrato con lui, ma vorrei pregarlo di un favore. È facile ad accordare favori a chi si rivolge a lui?

- Quando può è ben contento di essere utile al prossimo.

- Avevo pensato di scrivergli domani una lettera per far ricoverare un povero orfano nel suo Oratorio.

- Lo accetterà volentieri; glielo posso assicurare.

- Davvero? Ma lei è un amico con don Bosco?

- Sì... amicissimo fin dall'infanzia.

- Dunque, mi otterrà il favore.

- Il favore è bell'e ottenuto: vada per la carità che mi fa presentemente.

- Ma dunque... lei... lei... insomma chi è lei?!

- Son don Bosco in persona.

- Don Bosco?! Lei don Bosco! Se me lo avesse detto subito... Mi perdoni se non l'ho trattato bene. Chi l'avrebbe immaginato? Lasci, lasci quel formaggio. Mi ricordo che è rimasto qualche poco d'avanzo.

E tutto confuso, affannato, chiama la perpetua, fa porre in tavola una tovaglia, e ordina una minestrina e alcune uova al tegame; corre ad un armadio, trae fuori un mezzo pollo arrosto, e non sa darsi pace, mentre don Bosco sorride, vedendolo così affaccendato.

Finita la cena fu condotto a dormire in un soffice letto, e al mattino, il cappellano l'accompagnò alla stazione, ripetendo, tratto tratto, le più umili scuse.

Neil'accomiatarsi, don Bosco gli disse:

- Veda, signor Cappellano, prendiamo lezione da quello che accade. Se non abbiamo nulla, non diamo nulla; se abbiamo poco, diamo poco; e se abbiamo molto, diamo ciò che crediamo conveniente; ma lasciamoci sempre guidare dalla carità, la quale tornerà sempre a nostro vantaggio.

 

8. NON TOCCATE DON BOSCO!

Controversia con i Valdesi.

Finite le persecuzioni del governo, incominciarono quelle dei protestanti. Questi, per far desistere don Bosco dalla lotta instancabile che loro faceva, presero a sfidarlo con le discussioni. Vi si provarono dapprima tutti i capoccia di Torino e dei dintorni; poi, vedendo che sempre rimanevano sconfitti, fecero intervenire il famoso pastore Meille con due maggiorenti Valdesi.

Costoro si recarono all'Oratorio di Valdocco e, dopo i primi complimenti, intavolarono una disputa che durò dalle undici alle diciotto e che finì in modo comico.

 

La disputa si svolgeva sul purgatorio.

Don Bosco l'aveva provato con la ragione, con la storia, e con la Sacra Scrittura, servendosi del testo latino; ma uno dei contraddittori, che voleva fare il saputo, non volendosi arrendere, disse:

- Il testo latino non basta: bisogna andare alla fonte: bisogna consultare il testo greco.

A queste parole, don Bosco si alza, va allo scaffale, ne toglie la Bibbia in greco, ed appressatosi al Ministro, soggiunse:

- Ecco, signore, il testo greco; consulti pure e lo troverà in pieno accordo col testo latino.

Quel tale, che conosceva il greco come l'asino i marenghi, non osando confessare la propria ignoranza, prende il libro, e si pone a sfogliarlo da capo a fondo, fingendo di cercare il passo in questione.

Ma che! Volle il caso che prendesse il libro a rovescio! Don Bosco, che se n'era accorto, lo lasciò sfogliare per un pezzo, trattenendo a stento il riso; poi pietosamente gli disse:

- Scusi, sig. Ministro, forse non troverà più la citazione, perché tiene il libro a rovescio; lo volti così! - E glielo mise per il suo verso.

Come rimanesse colui è facile immaginare. Rosso in faccia come un gambero cotto, gettò il libro sul tavolo ed alzatosi di botto troncò la discussione e se ne andò.

Me ne rido!

Vedendo che con le dispute non la potevano vincere, i Valdesi ricorsero ad altri mezzi per farlo tacere.

Una domenica dell'agosto 1853 si presentarono all'Oratorio due signori che domandarono di parlare col Santo.

Condotti alla sua camera, uno di essi, ch'era pastore, dopo mille elogi al suo ingegno e al suo zelo, venne a dire:

- Ma Reverendo, se lei, invece di attendere alle Letture Cattoliche e scrivere libri di religione, attendesse a cose di storia od altro, procurerebbe un bene assai maggiore al suo Istituto. Prenda intanto questa prima offerta: sono quattro biglietti da cento: e le assicuro che ne avrà altri.

Don Bosco rifiutò con sdegno la subdola proposta; ed essi, alzandosi in piedi, dissero con volto alterato e voce minacciosa:

- Lei fa male a rifiutare, e ci offende. Se esce di casa, è poi sicuro di rientrare?

Don Bosco, dopo essersi assicurato che alla porta stava qualcuno dei suoi giovani in guardia, rispose:

 

- Vedo che lor signori non conoscono bene chi sono; i preti cattolici sono pronti anche a morire per la gloria di Dio e per il bene delle anime. Cessino dalle loro minacce, perché io... me ne rido!

A queste parole, l'irritazione di quei signori non ebbe più ritegno, e fattisi d'appresso, stavano per mettergli le mani addosso.

Don Bosco impugnò prudentemente la sedia esclamando:

- Se volessi adoperar la forza, mi sentirei di far loro provare quanto costi una violazione di domicilio! Ma no! la forza del sacerdote sta nella pazienza e nel perdono. Tuttavia, è tempo di finirla.

In quella, si spalanca la porta della camera e si presenta il nerboruto Giuseppe Buzzetti, uno dei più fidi di don Bosco, al quale il Santo dice pacatamente:

- Accompagna questi signori fino al cancello! Quei due si guardarono in faccia, e, uno dietro l'altro, seguirono la guida.

Vino avvelenato.

Quelle minacce furono l'inizio di una serie di persecuzioni contro don Bosco.

Una sera venne chiamato a confessare un malato. Egli, sempre pronto, si dispose a partire; ma per prudenza si fece accompagnare da alcuni dei suoi giovani. Giunto al luogo indicato, lasciò i giovani sulla porta ed entrò in una stanza dove trovò una mezza dozzina di buontemponi, che, seduti a tavola, mangiavano delle castagne.

Questi, al vedere il prete, si alzarono, e coi segni del maggior rispetto, l'invitarono a sedersi e servirsi delle loro castagne, mentre sarebbero andati ad avvertire il malato.

- Grazie, ho già cenato!

- Almeno un bicchiere del nostro vino!

 

- Non mi sento!

- Eh via! non le farà male!

Ed ecco che uno mesce nei bicchieri dei compagni, ed un altro, con un'altra bottiglia, mesce per don Bosco.

Questi s'avvide subito che c'era del mistero; ma, dissimulando, prese in mano il bicchiere, brindò alla salute di tutti, poi, senza assaggiarlo, lo ripose sul tavolo.

- Ma perché non beve?!

- Vogliamo che beva ad ogni costo!

E passando dai detti ai fatti, due lo presero per le spalle, e un altro afferrò il bicchiere e soggiunse:

- Se non vuole bere per amore, berrà per forza! Don Bosco, così forzato, ricorre ad un'astuzia:

- Se assolutamente volete che beva, lasciatemi libero, perché, così stretto, verserò il vino.

- Ha ragione - risposero quelli. E lo lasciarono. Egli, che già con l'occhio aveva misurato lo spazio, fece un salto indietro, spalancò l'uscio ed invitò i suoi giovani ad entrare.

L'improvvisa comparsa dei giovanotti fece rinsavire quei farabutti, i quali conclusero:

- Se non vuole bere, pazienza.

«Una persona amica - racconta don Bosco - fece indagini e seppe che un tale aveva pagato una cena, a patto che mi avessero costretto a bere del vino preparato per me».

Grandine di bastonate.

Chiamato un'altra sera a confessare un'ammalata, vi accorre prontamente, ma di nuovo accompagnato dai suoi quattro fidi. Due li lascia ai piedi della scala, e due li fa fermare sul pianerottolo, presso l'uscio della camera.

Entrato, scorse a letto una donna tutta ansante, la quale sapeva fingere così bene da sembrare che stesse per

 

dare l'ultimo respiro. Presso di lei, quattro facce torve di uomini assai sospetti.

Don Bosco pregò costoro di allontanarsi, per poter confessare l'ammalata, ma ella esclamò:

- Prima di confessarmi, voglio che quel briccone là ritratti la calunnia che mi ha buttato addosso!

- Ma che calunnia! - rispose quegli inferocendosi.

- Sì!...

- No!...

- Taci, infame!

- A me infame?!

E qui tutti urlano e impugnano i bastoni. Intanto, si spengono i lumi e, in un buio completo, incomincia una grandine di bastonate tutte dirette a don Bosco che, capito il gioco, abbraccia una scranna, e se la caccia in testa capovolta, cercando riparo e modo di guadagnare la porta.

A quel frastuono indiavolato, i giovani di guardia danno di spalla alla porta, la quale cede e si spalanca; e don Bosco può così aver salve le spalle e la vita, e ritornare sano e salvo ai suoi figlioli.

«O si decide o è morto».

Vedendo fallite le loro ipocrisie, i protestanti vengono ai fatti. In un pomeriggio di gennaio del 1854, due signori elegantemente vestiti salivano alla camera di don Bosco, che li riceveva con la solita cortesia.

I giovani erano in chiesa per i vespri; ma Giovanni Cagliero, che aveva visto quei signori, entrò in sospetto e andò a sostare presso la porta del Santo.

Non poteva intendere le parole, ma s'accorse che la disputa si andava accendendo; e ad un tratto, quei due pronunciarono forte queste parole:

- In fin dei conti, o lei la smette di pubblicare le Letture cattoliche, o noi la faremo smettere per forza!

 

- Io non la smetterò mai - rispose risoluto don Bosco.

- O si decide, o è morto! - Ed estraggono le loro pistole e gliele puntano al petto.

- Tirino pure! - esclamò don Bosco con voce risoluta e sguardo imponente.

Ma, in quell'istante, s'ode un gran colpo alla porta. Era Cagliero che, temendo qualche disgrazia, aveva dato un fortissimo pugno all'uscio che s'era spalancato, mentre a tutta voce s'era messo a gridare: Aiuto!... aiuto!!!

I due messeri riposero in fretta le armi, e uscirono, mentre don Bosco, con la berretta in mano, li salutava con cortesia.

Il «Grigio».

Per quanti insulti e minacce dovesse subire, e per quanto terribili fossero le insidie cui andava soggetto, don Bosco non portò mai armi né mai adoperò la sua forza per respingere gli assalti.

Chi lo vegliava in ogni pericoloso incontro fu sempre la Provvidenza, la quale si servì anche del «Grigio»,

Chi era il «Grigio»? Un cane portentoso, alto più di un metro, che più volte salvò don Bosco in circostanze veramente strane.

Una sera del 1852 don Bosco tornava a casa solo, quando, giungendo da piazza Emanuele Filiberto al Rondò, sente qualcuno corrergli dietro. Si volta di botto, e veduto a pochi passi un tale armato di un nodoso randello, si mette anche lui a correre, nella speranza di poter arrivare a casa prima di essere raggiunto.

Era ormai in fondo alla via che mette all'Oratorio, quando scorge, sul crocicchio di quella con la via Cottolengo, parecchi altri che stanno per prenderlo in mezzo.

Visto il pericolo, pensa di liberarsi prima da colui che lo insegue e, fermandosi d'improvviso, gli punta in petto

 

i gomiti con tanta destrezza, che il misero rimbalza a terra gridando:

- Sono morto! sono morto!!!

Il buon esito di quella ginnastica lo salva da uno, ma gli altri, coi bastoni, sono li lì per circondarlo.

In quell'istante, eccoti li il «Grigio» provvidenziale che, saltando di qua e di là a fianco di don Bosco, manda latrati ed urli formidabili, e si agita con tanta furia, che quei ribaldi, temendo di essere fatti a brani, pregano don Bosco di ammansirlo e tenerlo presso di sé, mentre l'uno dopo l'altro si eclissano, lasciando che il prete faccia la sua strada.

Don Bosco, scortato dal «Grigio» che lo festeggia, giunse tranquillamente a casa.

Ancora il «Grigio».

Sul finir del dicembre 1854, in una notte scura e nebbiosa, ritornava dal centro della città, e discendeva dalla Consolata alla Casa del Cottolengo. A un certo punto s'accorse che due uomini lo precedevano a poca distanza, e acceleravano o rallentavano il passo secondo che lo accelerava o lo rallentava lui.

Non c'era più dubbio: erano male intenzionati. Il Santo pensò di tornare indietro per mettersi in salvo in qualche casa vicina; ma non ebbe più il tempo. Voltatisi improvvisamente, essi gli furono addosso, e gli gettarono un mantello sulla faccia.

Don Bosco, abbassandosi con rapidità, liberò per un istante il capo e prese a dibattersi chiedendo aiuto; ma gli assalitori, avvolgendolo ancor più, gli turarono la bocca con un fazzoletto.

Proprio in quel momento, ecco comparire il «Grigio» che, ruggendo come un leone, si slancia con le zampe su quei due, sbattendoli di qua e di là nel fango.

 

Poi fermo, accanto a don Bosco, ringhia e fissa quei due con aria di trionfo e di sfida.

Quei poveretti, luridi di fango e tremanti di spavento, si alzano alla meglio e gridano:

- Don Bosco, per carità, ci liberi da questo cane! Chiediamo scusa e perdono!

Sempre il «Grigio».

Altra volta ancora il «Grigio», invece d'accompagnarlo a casa, gli impedì di varcare la soglia.

Era notte. Don Bosco doveva uscire per una commissione. Mamma Margherita cercava di dissuaderlo; ma egli, esortatala a non temere, prende il cappello, e si avvia accompagnato da alcuni dei suoi giovani.

Giunti al cancello, trovano il «Grigio» sdraiato.

- Oh! il «Grigio»! - esclamò don Bosco. - Tanto meglio! Saremo in buona compagnia. Alzati, dunque, e vieni con noi.

Ma il «Grigio», invece di obbedire, manda un cupo ringhio e resta al suo posto.

Qualcuno dei giovani lo tocca col piede per farlo alzare, ma esso risponde con un ringhio più forte e cupo.

Mamma Margherita che era accorsa, volgendosi a don Bosco, gli dice:

- Se non vuoi ascoltare me, ascolta almeno il cane... non uscire!

Il Santo, per contentare la madre, rientra in casa. E subito sopraggiunge un vicino, tutto ansante e trafelato, a raccomandargli di non uscire di casa, perché quattro individui armati si aggirano nei dintorni, decisi a fargli la pelle. Così era difatti, come si seppe poi da altre persone degne di fede.

 

9. «CI CHIAMEREMO SALESIANI».

Nasce una nuova Congregazione.

Nel 1854 nascono i Salesiani. Don Bosco raggruppa quattro giovanotti dell'Oratorio, che ha coltivato con particolare cura fin dal loro ingresso a Valdocco, e fa un discorso e narra un sogno di quelli che esaltano e fanno correre i brividi.

Il discorso è questo:

- Voi vedete che don Bosco fa quello che può, ma è da solo. Se voi mi darete una mano, invece, insieme faremo miracoli di bene. Migliaia di fanciulli poveri ci aspettano. Vi prometto che la Madonna ci manderà oratori vasti e spaziosi, chiese, case, scuole, laboratori, e tanti preti pronti a darci una mano. E questo in Italia, in Europa e anche in America. Io tra voi già vedo una mitria vescovile...

I quattro giovanotti si guardano in faccia sbalorditi. Sembra di sognare. Eppure don Bosco non scherza, è serio e sembra leggere nel futuro:

- La Madonna vuole che noi iniziamo una società. Ho pensato a lungo che nome darle. Ho deciso che ci chiameremo Salesiani.

E il sogno è il seguente.

 

Il giardino, il pergolato e le rose.

«Un giorno dell'anno 1847, avendo io molto meditato sul modo di far del bene alla gioventù, mi comparve la Regina del cielo (espressione molto rara in don Bosco. In genere dice: ho sognato una signora bellissima...) e mi condusse in un giardino incantevole. Vi era un bellissimo porticato, con piante rampicanti cariche di foglie e di fiori. Questo portico metteva in un pergolato incantevole, fiancheggiato e coperto da meravigliosi rosai in piena fioritura. Anche il terreno era tutto coperto di rose. La Beata Vergine mi disse:

- Va' avanti sotto quel pergolato: è quella la strada che devi percorrere.

Cominciai a camminare. Molti rami scendevano dall'alto come festoni. Io non vedevo che rose ai lati, rose di sopra, rose innanzi ai miei passi. Ma le mie gambe si impigliavano nei rami stesi per terra e ne rimanevano ferite; rimuovevo un ramo trasversale e mi pungevo, sanguinavo nelle mani e in tutta la persona. Le rose nascondevano tutte una grandissima quantità di spine.

Tutti coloro che mi vedevano camminare dicevano: "Don Bosco cammina sempre sulle rose! Tutto gli va bene!. Non vedevano che le spine laceravano le mie povere membra.

Molti chierici, preti e laici da me invitati si erano messi a seguirmi festanti, attirati dalla bellezza di quei fiori; ma si accorsero che si doveva camminare sulle spine, e incominciarono a gridare: "Siamo stati ingannati!". Non pochi tornarono indietro. Rimasi praticamente solo. Allora cominciai a piangere: "Possibile, dicevo, che debba percorrere tutta questa strada da solo?".

Ma presto fui consolato. Vidi avanzarsi verso di me uno stuolo di preti, chierici, secolari, i quali mi dissero: "Siamo tutti suoi. Siamo pronti a seguirla". Precedendoli mi rimisi in via. Solo alcuni si perdettero di coraggio e si

 

arrestarono. Una gran parte di essi giunse con me alla meta.

Percorso tutto il pergolato, mi trovai in un bellissimo giardino. I miei pochi seguaci erano dimagriti, scarmigliati, sanguinanti. Allora si levò una brezza leggera, e a quel soffio tutti guarirono. Soffiò un altro vento, e come per incanto mi trovai circondato da un numero immenso di giovani e di chierici, di laici coadiutori e anche di preti, che si misero a lavorare con me guidando quella gioventù. Parecchi li conobbi di fisionomia, molti non li conoscevo ancora.

Allora la santa Vergine, che era stata la mia guida, mi interrogò:

- Sai cosa significa ciò che tu vedi ora, e ciò che hai visto prima?

- No.

- Sappi che la via da te percorsa tra le rose e le spine significa la cura che tu dovrai prenderti della gioventù. Le spine significano gli ostacoli, i patimenti, i dispiaceri che vi toccheranno. Ma non vi perdete di coraggio. Con la carità e con la mortificazione, tutto supererete, e giungerete alle rose senza spine.

Appena la Madre di Dio ebbe finito di parlare, rinvenni e mi trovai nella mia stanza.

Vi ho raccontato questo - concluse - perché ognuno di noi abbia la sicurezza che è la Madonna che vuole la nostra Congregazione, e perché ci animiamo sempre più a lavorare per la maggior gloria di Dio».

Salus ex inimicis nostris!

Pensare a fondare una Società Religiosa in quei tempi, era una temeraria follia. Le note leggi di soppressione condannavano alla estinzione quelle già esistenti.

Un giorno il ministro Rattazzi - che come si sa,

 

aveva la sua parte in quelle famigerate leggi - gli disse quasi all'improvviso:

- Caro don Bosco, io ammiro lo scopo eminentemente filantropico dell'Opera sua e faccio voti che viva molti anni per il bene di tanti giovani; ma lei è mortale come ogni altro, e se venisse a mancare, che cosa ne sarebbe di questa sua Opera? Ha già pensato a questo caso?

- Eccellenza - rispose don Bosco - è questo il mio maggior fastidio!

- E se lei istituisse una Società di gente, sacerdoti o laici, sotto certe norme... imbevuti del suo spirito, animati dallo stesso zelo, che fossero suoi aiutanti e poi suoi continuatori?

- Gran bella cosa, Eccellenza, ma in questi tempi di persecuzione, crede che sia possibile?

- Possibilissimo! Ella istituisca una Società secondo le esigenze dei tempi, che si assoggetti alle vigenti leggi, che paghi le imposte; una Società insomma di liberi cittadini, i quali si uniscono a vivere insieme a scopo di beneficenza.

Quella proposta fu per don Bosco una rivelazione, essendo il Rattazzi riputato un oracolo in materia politica, e subito lo prese in parola soggiungendo:

- E l'Eccellenza Vostra me la passerebbe una Società in questa forma?

- Ma sì! l'approverei e la farei approvare.

Il Santo ne abbozzò le regole, le quali furono davvero approvate, e la Società Salesiana prese vita e visse, e vivrà in grazia di quello stesso che due anni prima aveva proposto la legge contro le corporazioni religiose.

Don Bosco, parlandone con gli altri amici e coi suoi figlioli, andava scherzosamente ripetendo:

- «Salus ex inimicis nostris!...». L'istituzione della nostra Congregazione Religiosa la dobbiamo ai nemici delle Istituzioni Religiose. Vedete un po' gli scherzi della Provvidenza.

 

Faremo a metà.

Nel 1854 don Bosco incontra un giovanetto sui 17 anni, Michele Rua, che gli viene incontro chiedendogli una immagine, e si ferma a guardarlo; poi, facendo segno con la destra di dividere la mano sinistra a metà, gli dice:

- Michelino, noi faremo a metà.

Il fanciullo, che non aveva mai veduto né conosciuto don Bosco, non comprese allora l'arcano di quelle parole; ma ripetendosi più volte la scena si sentì attratto verso di lui, e prese a seguire il Santo come l'ombra segue il corpo.

Divenne il suo primo chierico, il suo primo sacerdote, il suo primo principale aiutante, il suo primo successore, don Rua, il quale, dopo aver fatto a metà con il suo Maestro nello splendore delle virtù, farà a metà anche nello splendore della santità.

Fu beatificato da Paolo 6° nel 1976.

Fede che vince gli ostacoli.

Nel 1869 era tornato a Roma, risoluto di ottenere l'approvazione della Pia Società Salesiana.

Alla stazione, lo attendeva la vettura del Cardinal Berardi, con preghiera di recarsi subito da lui a visitare e benedire un suo nipotino di undici anni, figlio unico di famiglia nobile e ricchissima, che da 15 giorni lottava tra la vita e la morte, travagliato da forte febbre tifoidea ribelle ad ogni cura.

All'apparire di don Bosco, tutti i familiari gridano:

- Oh! Don Bosco, lo faccia guarire! Ed egli, rivolto al cardinale, disse:

- Sono venuto perché vostra Eminenza mi aiuti presso il Santo Padre ad ottenere l'approvazione della Società Salesiana.

- Ebbene, ella faccia guarire questo mio nipote, ed

 

io andrò, parlerò, farò di tutto presso il Santo Padre.

Don Bosco raccomanda a tutti di avere fiducia in Maria Ausiliatrice, s'appressa al lettuccio dell'infermo, lo benedice, ed all'istante il bambino è libero dalla febbre e perfettamente guarito.

Tutti acclamarono al Santo, mentr'egli esclamava:

- Rendetene grazie a Maria Ausiliatrice!

La podagra del Cardinale.

Ma questo non era che l'inizio. I Cardinali che dovevano dare il voto erano parecchi, e tutti contrari. Chi poteva influire assai era il Cardinale Antonelli, Segretario di Stato di Pio 9°.

Don Bosco si recò a fargli visita, e lo trovò immobile su un seggiolone.

- Venga avanti, carissimo don Bosco, venga avanti!

- Eminenza, come sta?

- Eh! vede come sto. Sono inchiodato qui da parecchi giorni, soffro terribilmente di podagra.

- Eminenza, mi aiuti nei miei affari, ed io le garantisco che starà meglio.

- Che cosa desidera da me?

- Sono venuto per supplicarla di occuparsi della Società Salesiana.

- Già! È cosa assai difficile questa; tuttavia, le prometto di occuparmene appena potrò andare all'udienza.

- Ho bisogno che ci vada presto, anzi, domani!

- Che cosa dice?! Ella vede come mi trova; non posso muovermi!

- Eminenza, abbia fede in Maria Ausiliatrice, e vada domani; domani starà meglio.

- E se poi mi accadrà di peggio?

- Sarò io responsabile; la Madonna sa come fare!

- Va bene. Se avverrà come lei dice, andrò domani, e farò di tutto per la sua Società.

 

Il giorno seguente, i dolori erano completamente cessati, e il Cardinale poteva andare alla udienza e raccontava al Papa il dialogo e la guarigione.

La febbre da cavallo scompare.

Cadevano così ad uno ad uno gli ostacoli, ma ne restava ancora uno, e forse il maggiore.

Il più restio all'approvazione era Monsignor Svegliati, dotto ed attivissimo segretario della Sacra Congregazione. Don Bosco decise di andarlo a trovare.

Era a letto, minacciato da seria polmonite.

- Monsignore, ho bisogno del suo aiuto - gli dice don Bosco. E gli espone il suo desiderio.

- Caro don Bosco, la cosa è molta seria, quasi impossibile! Io poi, non so quando potrò andare in ufficio, trovandomi come ella mi vede.

- Eppure, io ho bisogno che ella vada, e presto, dal Santo Padre.

- Ma come vuole che vada con questa tosse così violenta, e con questa febbre da cavallo?!

- Monsignore, la tosse passerà, diminuirà la febbre: ho bisogno che vada domani.

Il malato lo osservò con occhi stupiti, e don Bosco continuò:

- Abbia fede, Monsignore. Io la raccomanderò alla Madonna, e se lei promette di interessarsi per la Pia Società Salesiana, le prometto che guarirà senz'altro.

- Se m'assicura questo, andrò, ma fra qualche dì.

- No... no... domani! ho bisogno che vada assolutamente domani.

- Ebbene, ci andrò domani, se starò meglio; e le assicuro che parlerò in modo che tutto andrà bene.

L'indomani, la tosse era sparita, la febbre calmata, e Monsignore, pienamente in forze, andò, parlò, perorò in

 

modo che, pochi giorni dopo, il 29 febbraio 1869, la Società Salesiana veniva approvata.

Io vi salverò.

Fra le reclute che dovevano partire per la guerra del 1859 contro gli austriaci, c'erano anche due dei primi chierici di don Bosco: Cagliero e Francesia.

Questi due si presentano tutti ansanti al Santo, il quale, sereno e ridente, disse loro:

- Niente paura... Io vi salverò! Andate alla Curia Vescovile, e fatevi iscrivere nella lista di quelli che si debbono presentare per l'esenzione.

Obbediscono premurosamente; ma poco dopo ritornano dicendo:

- Oh, don Bosco! in Curia ci fu risposto che è troppo tardi, perché l'elenco è già spedito al Ministero.

- E voi andate al Ministero, pregando di esservi aggiunti.

Ritornano più affannati affermando:

- Anche al Ministero ci fu risposto che è troppo tardi, che la pratica è ormai compiuta; ed è impossibile ogni aggiunta.

- Ebbene rivolgetevi al Ministero di Grazia e Giustizia per le vostre ragioni; voi, come chierici, dovete essere esenti.

Ritornarono la terza volta sospirando ed esclamando:

- Alla Curia e ai Ministeri ci son tutti contro. Tutti dicono che è troppo tardi, che si tratta di guerra e bisogna partire.

- E voi non partirete, ripeto! Ci andrò io; dovete essere esenti... Io vi salverò!

Quei due poveri figlioli, commossi fino alle lacrime, gridano:

- Oh padre! Perché tanto disturbo per noi?... Se bisogna partire, partiremo. Vittorio Emanuele avrà due

 

soldati di più. O morremo sul campo, o ritorneremo con le spalline. Non si prenda troppi fastidi.

- Ed io invece me li voglio prendere questi fastidi, proprio per voi. Vi ho detto che vi salverò, e vi salverò ad ogni costo!

Si portò alla Curia, dalla Curia al Ministero e poi di nuovo alla Curia. Esaminò attentamente la lista dei chierici esenti, trovò che due, proprio due, fra gli elencati, si trovavano, come figli di madre vedova, già in condizione di essere esenti. Allora volò con aria di trionfo al Ministero della Guerra e potè farli sostituire con i suoi due Cagliero e Francesia.

Fu davvero un lavoro febbrile, ma coronato da esito splendido.

Lo hai sentito quel tuono?

Don Bosco amava teneramente i figlioli, e, anche lontano, vegliava su di loro. Un giorno un suo chierico fu invitato da una famiglia di benefattori ad andare a passare la giornata insieme.

Il Santo, conoscendo la bontà di quei signori, accondiscese e diede il permesso.

Ma ecco, a un certo punto del pomeriggio, domanda con insistenza del chierico assente, e manda in giro a cercarlo; la sua inquietudine si fa grande, e va esclamando:

- Dove sarà?! Che cosa farà?!

- Ma don Bosco, non ricorda che Lei stesso gli ha dato il permesso?

- Sì... ricordo... ma ora, vorrei che fosse qui.

Nessuno poteva comprendere il perché di tanta agitazione in lui, sempre così calmo e inalterabile; ma lo si seppe alla sera, al ritorno di quel chierico.

Il buon chierico si presenta, lo saluta, gli bacia la mano, ed il Santo gli dice:

 

- Lo hai sentito quel tuono?

- Sì, padre, l'ho udito e l'ho capito. Solo un miracolo mi ha potuto salvare! Mi sono trovato in grave pericolo.

- Ebbene, va' a ringraziare la Madonna, e dille che le sarai sempre degno figliolo.

Il chierico obbedì e ai compagni che curiosi volevano sapere, raccontò:

- In quella famiglia così onesta e cristiana, era giunta una persona estranea, poco corretta. Mise gli occhi su di me, e mi pose in grave pericolo. Mi tese insidie, e chissà che danno avrebbe tentato se, in un momento, non si fosse fatto sentire un fortissimo tuono.

Allora ho capito che don Bosco vegliava su di me, ed ho subito fatto fagotto.

Quella sera don Bosco fu oggetto di molti commenti e di molte interrogazioni, eH egli scherzosamente rispondeva:

- Questa volta il tuono fu senza tempesta; ma all'erta, miei cari, perché i tuoni di don Bosco sono terribili!

Ho indovinato?

Nelle vacanze scolastiche dell'anno 1878, si presentò a Valdocco il capostazione di Torino accompagnato da un ragazzo sui sedici anni, figlio di un suo amico e studente di tecnica, chiedendo di visitare l'Oratorio.

Don Bosco, che si trovava in cortile, salutato il capostazione, si offrì egli stesso di accompagnarli, facendo il giro della casa e fornendo le più esatte spiegazioni di ogni cosa.

Quando furono per congedarsi, don Bosco, salutato il capostazione, batté la mano sulla spalla del giovane e gli disse:

- Quanto a te, Albanello, fermati qui, ché ho bisogno di parlarti.

 

Nessuno aveva detto a don Bosco il nome del giovane. Il poveretto restò come intontito, sentendolo pronunziare da don Bosco, e lo seguì come un automa.

Giunto in camera sua, il Santo soggiunse:

- Ed ora inginocchiati, perché devi confessarti.

- Ma sono parecchi anni che non mi confesso...

- Lo so, lo so; ed è per questo che ti dico di confessarti.

- Ma ci vorrebbe un po' di preparazione.

- Non occorre. Io ti farò la storia di tutta la tua vita, e tu giudicherai se ho indovinato.

Quando ebbe terminato lo interrogò:

- Ebbene, Albanello, ho indovinato?

- Fin troppo! - rispose Albanello quasi sbalordito.

- Ora, domandane perdono al Signore; poi ti assolverò.

Quel giovane pianse come non aveva pianto mai, poi, alzatosi, voleva congedarsi ma il Santo, posandogli la mano sul capo, continuò:

- Non basta, Albanello: la Madonna ti vuole qui, e tu ritornerai all'Oratorio, ti fermerai con don Bosco che ti darà l'abito da prete e ti manderà missionario.

- Oh, non so... vedremo!

- Sì... lo vedremo, e vedrai se indovinerò.

L'Albanello partì ringraziando, ma ruminando in cuor suo: «Questo poi no!... Né prete, né tanto meno missionario!».

Passarono intanto le vacanze ed Albanello, vinto e stravinto dalla vocazione, si presentò all'Oratorio. In due anni, compì il ginnasio; nel 1880 vestì l'abito per mano di don Bosco; e nel 1882, partì missionario nel Brasile.

Di là, ogni volta che scriveva a don Bosco, ricordava la storia della sua vocazione.

 

Festa e vaiolo non stanno insieme.

Nel maggio 1869 si era recato a Lanzo Torinese per la festa di san Filippo Neri, titolare di quel suo primo collegio. Là trovò tutti in desolazione, perché ben sette convittori erano colpiti dal vaiolo, che minacciava di estendersi a tutta la casa.

A quella notizia, don Bosco esclama:

- Già! festa e vaiolo non stanno insieme. Andate a preparare loro gli abiti in fondo al letto, che salirò a benedirli.

Alla vista di don Bosco, i malati gridarono:

- Don Bosco, don Bosco, possiamo alzarci? Ci dia la sua benedizione!

- Avete fede nella Madonna?

- Sì!

- Ebbene, alzatevi!

Don Bosco li benedisse e si ritirò. Tutti si alzarono, si vestirono, e si precipitarono in cortile, meno uno, certo Baravalle, che, dubitando di essere guarito veramente, per precauzione se ne sta a letto.

Alla sera, viene il medico per la visita, e, sapendoli alzati in cortile in quella giornata umida e fredda, s'inquieta, grida all'imprudenza, giudica che quell'atto sarebbe stato fatale, e s'affretta all'infermeria, ove non trova che il prudente Baravalle, il quale, con le cure premurose del dottore, guarì dopo venti giorni, mentre gli altri, guariti all'istante, da 20 giorni correvano e cantavano allegramente.

Che cosa sono mai 90 mila lire?!

A Nizza, vedendo che la sua casa si era fatta troppo ristretta per il gran numero di giovani che chiedevano d'essere accolti, deliberò di acquistarne una più grande.

 

Gli fu indicata una villa in piazza d'armi; però gli si disse subito:

- Caro don Bosco, quella andrebbe bene, ma!...

- Che ma?

- E troppo costosa; pretendono 90 mila lire.

- E che cosa sono mai 90 mila lire?!

- Novantamila lire, sono novantamila, e lei dove le troverà?

- Le troverà la Provvidenza.

- Eh, sì!... Lei ha un bel dire la Provvidenza... ma intanto, non ha un soldo in tasca.

- Io non ho niente; ma se Dio vuole l'ampliamento dell'Istituto, farà trovare il denaro per comperare la casa. Si faccia l'istrumento.

Il comando di don Bosco non ammetteva repliche. Il contratto fu concluso subito; il denaro fu subito trovato, il prezzo pagato e la bella villa Gauthier, grande, sontuosa, magnifica, capace di oltre 300 persone, passò alle opere di don Bosco, e col nuovo anno, si riempì di frugolini e frugoloni irrequieti, che la facevano echeggiare dei loro trilli e dei loro canti più gioiosi.

Don Bosco esclamava poi:

- Vedete che villa Gauthier è venuta, anche in barba alle novantamila lire! Oh! La Provvidenza!... la Provvidenza!!! Essa ha le braccia più lunghe assai della nostra poca fede.

Negli imbrogli.

Nei suoi ultimi anni, trovandosi il Santo a Mathi Torinese per un po' di riposo, non faceva che sognare i suoi figlioli ed esprimere il desiderio di fare di più per loro. Quand'ecco, riceve da una insigne benefattrice una offerta di Lire 2500 per grazia ricevuta, chiedendo ancora preghiere per una grazia nuova.

 

Il Santo risponde sollecitamente, e promette che avrebbe pregato e fatto pregare.

Poco dopo riceve, dalla stessa signora, un'altra offerta di lire tremila.

Don Bosco ringrazia di nuovo più sentitamente, promettendo di nuovo preghiere.

La signora manda una terza offerta di diecimila lire.

Allora il Santo, volgendosi ai Superiori della casa, esclamò:

- Ora mi trovo davvero negli imbrogli! Ditemi voi come debbo comportarmi. Costei non la vuol cedere!

E rideva di un sorriso angelico, mentre due grosse lacrime gli rigavano il viso.

Ci rivedremo al cader delle rose.

Si presentò un giorno a don Bosco un suo religioso coadiutore il quale, allettato dalle belle promesse dei parenti, prese a dirgli che da qualche tempo trovava pesante la vita religiosa, e quindi desiderava ritornarsene a casa sua.

Don Bosco l'ascoltò attentamente e poi rispose:

- Ho capito tutto!... tu dunque vuoi lasciare la nostra casa, perché vi trovi qualche spina, e vuoi ritornare in famiglia ove tutto ti pare fiorito. Ebbene, va' pure.'... ma ci rivedremo al cader delle rose.

Il buon coadiutore lo salutò contento, gli baciò ripetutamente la mano, e se ne andò.

Il suo arrivo in famiglia fu salutato con ovazioni e feste, con pranzi e cene, e inviti anche dagli amici e conoscenti.

Ma col passare delle settimane e dei mesi, incominciarono le angolosità, le parole dure, le risposte piccanti, i tratti scortesi, i diverbi, le provocazioni, le contese, fino al punto in cui ad una sorella, la più affezionata, sfuggì la parola «rinnegato!...».

 

Fu l'ultima stilettata al cuore del povero religioso.

Non mangiò più, non dormì più. Radunò i suoi indumenti, rifece le sue valigie e... via a Torino all'Oratorio, ove buttandosi ai piedi di don Bosco, esclamò:

- Padre, anche se non ne son più degno, mi accolga ancora fra i suoi figli!

Don Bosco, che già lo attendeva, lo rialzò sorridente, e gli disse:

- Te lo avevo detto che, al cader delle rose, ci saremmo riveduti!... Orbene, va', ripiglia il tuo posto, ritorna alle tue occupazioni, e non pensare più né alla casa, né ai parenti. Ti deve bastare il mio amore.

Mani bucate.

Un giorno don Bosco, che era nemico dei debiti, si trattenne con alcuni dei suoi primi Salesiani, tra i quali vi era pure don Rua, che fungeva da economo.

A un certo punto, rivolgendo la parola a quest'ultimo, disse:

- Senti, don Rua: tutti domandano denaro, e tu li mandi via a mani vuote.

- Oh, don Bosco, questo avviene per il semplice motivo che sono vuote le casse.

- Ebbene, si vendano quelle poche cartelle che ci rimangono; e così pagheremo i debiti.

- Qualcuna fu già venduta; ma vendere proprio tutto non pare conveniente.

- Vendi, vendi; il Signore provvederà.

- Perdoni, don Bosco: su quei pochi denari che tengo, ho già fatto i miei conti. Fra quindici giorni si dovrà pagare quel grosso debito di 28 mila lire che scade.

- Ma no! questa è una follia! lasciare da pagare i debiti di oggi per pagare quelli che scadranno fra 15 giorni! Vendi, vendi, e paga.

 

- Ma i debiti di oggi si possono differire; quell'altro no.

- Vendi, vendi; il Signore provvederà. È un chiudere la via alla divina Provvidenza il voler tenere in serbo per i bisogni futuri.

- Ma la Provvidenza suggerisce pure di pensare all'avvenire, e già altre volte ci siamo trovati in gravi situazioni.

- Vendi, vendi! Ascoltami; va' in ufficio, metti fuori quanto hai, soddisfa, e mettiamoci nelle mani del Signore.

Poi, rivolgendosi a tutti i presenti, esclamò:

- Quando sarà possibile trovare un economo che abbia le mani bucate, ossia che mi assecondi interamente?

Tutti risero col buon padre di quella magnifica espressione, e gridarono in coro:

- L'uomo delle mani bucate è bell'e trovato; è don Rua.

E fu così davvero, perché don Rua, da quel giorno, assecondò interamente don Bosco.

L'anima dei divertimenti.

Don Bosco era solito dire: «La gioventù bisogna sempre tenerla occupata, perché l'acqua stagnante imputridisce».

Egli amava le ricreazioni clamorose; e per darne l'esempio, era sempre il primo ai giochi e l'anima dei divertimenti.

Sveltissimo a correre, non di rado sfidava tutti i suoi giovani a sopravanzarlo. Li allineava, e gridava: uno... due... tre!

Un nugolo di ragazzi si slanciava alla corsa; ma don Bosco era sempre il primo a raggiungere la meta.

Allora, per non lasciarli mortificati, andava a riem

 

pirsi le tasche di caramelle, e ne lanciava di qua e di là in mezzo ai crocchi.

Egli a tutti sorrideva, a tutti dispensava, con la caramella, anche una parola dolce, arguta, incoraggiante, veramente paterna.

Questi suoi modi gli accaparrarono tanto l'animo di tutti, che ognuno andava a gara per dimostrare, con l'obbedienza e il rispetto, quanto fosse l'amore e la riconoscenza di cui si sentivano pervasi.

Così voleva facessero poi tutti i suoi Salesiani e che la ricreazione fosse sempre animata e chiassosa.

Un giorno, che ne vide alcuni starsene in crocchio a chiacchierare, si fece subito in mezzo a dire:

- Guardate che, mentre voi riposate, il demonio lavora.

A chi gli osservava che, a correre e a giocare, si sciupano le scarpe ed i vestiti, rispondeva:

- Via, via!..., meglio spender in scarpe e in vestiti che in medicine. Sarti e calzolai li abbiamo in casa. È meglio essere in grazia di Dio rattoppati, che nelle mani del demonio lucidi ed attillati.

Quello della cioccolata!...

Nelle case salesiane si suole celebrare con particolare solennità la festa di san Luigi Gonzaga; e già fin dai primi tempi, don Bosco dava a questa festa la massima importanza.

Nell'anno 1858, per quella circostanza, aveva ordinato ad un esercizio della città un servizio di caffelatte e cioccolata, coi rispettivi panini e dolci.

A metà della Messa, giunge il garzone con un carretto, e depone ogni cosa presso la sacrestia; poi entra in chiesa attratto dalla melodia dei canti e dallo splendore della funzione.

Il sacrista, che era rimasto a custodire tutto quel ben

 

di Dio, non seppe resistere alla fragranza che emanava da quelle caffettiere fumanti e dalla leccornia di quei dolci, che pareva gli dicessero: prendi e mangia; difatti, dopo breve alternativa, si fa coraggio e, franco e risoluto, mesce un primo tazzone, poi un secondo e un terzo, sempre inzuppando e insaccando a piene gote.

Terminata la Messa, i signori s'accomodano in un salotto attiguo. Il cameriere, a un cenno di don Bosco, corre a prendere la colazione, e trova quasi vuote le caffettiere, e quasi sparito addirittura il servizio dei dolci.

- Povero me!... Come si fa?...

Tutto tremante, corre a raccontare a don Bosco la sparizione.

Don Bosco, che non si scomponeva mai, lo rimanda di corsa per una nuova provvista, e così si rimedia a ogni cosa.

Ma intanto, chi sarà stato l'autore della birbonata? Quand'ecco, alcuni ragazzi si precipitano affannosi attorno a don Bosco a dirgli piangendo:

- Presto, presto, don Bosco, venga a vedere il sacrista che muore!

- Dov'è?

- Laggiù in fondo al cortile. Si stira e si dimena a terra, e grida: «lo muoio... io muoio!».

Don Bosco accorre. Viglietti confessa la marachella, chiede perdono, e prega di disporlo a morire.

- No, non morrai - gli dice don Bosco; - solo il ricordo ti resterà!

Portato all'infermeria, se la cavò con una buona dose di olio di ricino; ma da quel giorno, tutti presero a chiamarlo «quello della cioccolata», e questo nome gli era appiccicato ancora cinquant'anni dopo dacché aveva lasciato l'oratorio.

 

Generoso come un re.

Don Bosco, quantunque povero, era generoso come un re, e così voleva che fossero i suoi figlioli.

Un giorno un suo sacerdote condusse ad una passeggiata una schiera dei suoi alunni. Ad un certo punto, avendo smarrito la via, si trovò a mezzogiorno in un paese distante, ove il buon Parroco, mosso a compassione, li tenne a pranzo con sé, facendo loro le più liete cortesie.

Al ritorno, raccontò la cosa a don Bosco, il quale gli disse:

- E tu che cosa hai dato in compenso?

- Io?... che cosa dovevo dargli?!

- Tu dovevi chiudere in una busta un biglietto da cento lire, e dargliela suggellata, pregandolo di celebrare una Messa per te e per i tuoi giovani. Ciò ti serva di norma, perché, in questi casi, non bisogna essere stretti di mano, ma generosi come un re. Questa volta rimedierò io allo sbaglio. - E così fece.

Cinquecento lire son troppe.

Era faceto ed ameno anche con i suoi dipendenti.

Nel 1871 inviava il prof, don Paolo Albera, che fu poi il suo secondo successore, a fondare la casa di Marassi presso Genova.

Costui, trattandosi di andare a fondare una casa, aveva accettato da amici e conoscenti una piccola scorta di danaro; e quando, prima di partire, il Santo gli chiese se avesse bisogno di qualche cosa, egli rispose:

- Don Bosco, la ringrazio; ho già con me 500 lire.

- Oh mio caro - gli osservò don Bosco - non è necessario tanto danaro. Anche a Genova vi sarà la Provvidenza.

 

E tratte dal cassetto poche lire, gliele diede, ritirandogli il biglietto da 500.

- Il serbare qualunque somma per i bisogni di domani, mi pare un'offesa alla Divina Provvidenza!

Questa massima la lasciò per eredità ai suoi successori.

E io... mi farei Salesiano.

Un giorno, in un crocchio di confratelli, si parlava con grande ammirazione dei vari Ordini Religiosi, elogiando le gesta e lo zelo di questo e quell'altro. A un certo punto, uno esclamò:

- Se non fossi Salesiano, mi farei volentieri... Don Bosco, che aveva condiviso ed approvate tutte le lodi a cotesti diversi Ordini, udendo quella conclusione, con calma risoluta e incisiva, a sua volta esclamò:

- E io, se non fossi Salesiano, mi farei Salesiano! Tutti applaudirono e si buttarono a gara a baciargli la mano.

Il gran segreto.

Monsignor Ferrè, Vescovo di Casale, tenendo una conferenza ai Cooperatori Salesiani, venne fuori con queste parole:

- Sapete perché la congregazione di don Bosco si estende così prodigiosamente e i collegi salesiani progrediscono così bene? Ve lo dico io: gli è perché don Bosco ha due grandi segreti, che sono la chiave di tutto il grande bene operato dai suoi. Primo segreto, quello delle spugne. Egli imbeve i suoi Salesiani e i suoi giovani di pratiche di pietà, che quasi inebriano; e questi, pur volendolo, non possono più fare il male e lo rigettano, come le spugne piene rifiutano qualsiasi altro liquido. Il secondo segreto

 

consiste nel caricare i suoi dipendenti di molto e svariato lavoro. Egli accumula su ciascuno tante cose da fare, li affardella di tante faccende e cure, che non hanno né trovano più il tempo a peccare e quasi neppure a parare le mosche, come i muli sotto il tiro continuo.

Riferite queste cose a don Bosco, egli approvava ed aggiungeva:

- È per l'appunto così; finché saremo buone spugne imbevute di pietà, e buoni muli sempre sotto tiro, la nostra Congregazione marcerà sicura. Si può dire che tutti sono contro di noi, e che noi dobbiamo lottare contro tutti. Il mondo legale ci è assolutamente avverso; il vento soffia contrario da ogni parte; ma niente paura! Finché saremo muli e spugne, Dio sarà con noi. Noi abbiamo dinanzi agli occhi un orizzonte chiarissimo; la nostra via è tracciata:

Muli di lavoro,

Spugne di pietà,

Evviva sempre

La Pia Società!

Noi saremo sempre amici.

Quando il buon Padre fu colpito dall'ultima malattia, il giovane Luigi Orione fu uno dei dodici che offersero la propria vita al Signore per prolungare l'esistenza del Santo, sottoscrivendo in un foglio questa commovente implorazione:

«O Gesù Sacramentato, Maria Ausiliatrice dei cristiani, San Francesco di Sales, nostro Patrono, i poveri sottoscritti, al fine di ottenere la conservazione del loro amatissimo Padre e Superiore don Bosco, offrono in cambio la propria vita. Deh, vi supplichiamo, degnatevi di gradire l'offerta e di esaudirci».

Il foglio fu collocato sull'altare di sant'Anna nella chiesa di Maria Ausiliatrice mentre don Berto, segretario

 

del santo, celebrava la Messa per quella intenzione, servito da Luigi Orione.

Il Signore non accolse l'eroica offerta, per dare alla Chiesa un altro apostolo, ai poveri un altro padre. Ma il giovinetto predestinato sentì la benedizione di don Bosco, appena morto il Santo.

Luigi Orione era giunto all'Oratorio nell'ottobre del 1886. Proveniva dal seminario francescano di Voghera dal quale era uscito dopo una forte polmonite. Era figlio di un povero selciatore di strade. Luigino rimase incantato di don Bosco. Quando, raramente ormai, scendeva in cortile, Luigino gli correva incontro. La prima volta don Bosco gli sorrise e gli chiese:

- Dimmi, su, com'è la luna al tuo paese? È più grossa che a Torino?

Orione ride, estasiato e don Bosco gli sfiorò il capo con la mano.

- T'ses prope 'n fa fiôché (sei un bel sempliciotto!). - Un complimento che il ragazzo gradì un mondo, tanto più che don Bosco, congedandosi, gli disse:

- Guarda che noi saremo sempre amici!

Per esser amico di don Bosco, Luigino voleva anzitutto confessarsi da lui, fargli una confessione generale di tutta la vita. Fece un accurato esame di coscienza, consultò alcuni formulari, si accusò di tutto, tranne che di aver ammazzato («Questo no!» - scrisse). Riempì tre quaderni e poi anche lui si accodò, alla porta di don Bosco, tra i ragazzi che attendevano di confessarsi.

Quando fu il suo turno, don Bosco lo guardò sorridendo.

- Dammi i tuoi peccati. - Il ragazzo tirò fuori il primo quadernetto.

Don Bosco lo prese tra le dita e lo stracciò.

- Dammi gli altri.

 

Anche gli altri quaderni fecero la stessa fine. Orione osservava sconcertato.

- E ora la confessione è fatta - disse don Bosco. - Non pensare mai più a quello che hai scritto.

E gli sorrise. Orione non dimenticò mai più quel sorriso.

Il miracolo del dito tagliato.

Il 17 dicembre 1887, assieme agli alunni della 5a ginnasio, Luigi Orione si confessò per l'ultima volta da don Bosco infermo. Anzi, rientrato come gli altri nella sala di studio, Orione uscì di nuovo e tornò da don Bosco. Fu quello il suo ultimo colloquio con il Santo.

Morto don Bosco, tra i giovani che vegliano accanto alla sua salma esposta ai fedeli, il 1° febbraio 1888, c'è anche Orione, che prende dalla folla gli oggetti da posare sul corpo del Santo. Ad un tratto, Orione (come scrive egli stesso) ha una curiosa idea: pensa di affettare del pane, ridurlo in pillole da posare sul corpo di don Bosco, per poi distribuirle. Entrato nella sala di refezione prende un grosso e affilato coltello e si accinge ad affettare un filone di pane. Dalla fretta, vibrando il primo colpo, si spacca verticalmente l'indice della mano destra (egli è mancino). Angosciato, pensa subito che senza quel dito non potrà diventare sacerdote, come già aspirava. Avvolge allora nel fazzoletto il dito tagliato stringendolo bene e lo sostiene con l'altra mano. Corre presso la salma di don Bosco e con viva fede accosta il dito sanguinante alla mano di don Bosco. A quel contatto la ferita si rimargina all'istante.

Narrando il fatto prodigioso, don Orione era solito mostrare la cicatrice rimastagli nell'indice destro, assicurando il perfetto funzionamento del dito.

 

Divenuto sacerdote, fondatore dell'Istituto dei Figli della Divina Provvidenza, suscitatore di tante opere provvidenziali, non dimenticò mai il suo Maestro. Dello spirito di lui e del Cottolengo animò il proprio spirito e ai due santi serbò la più fervida devozione. Non passava forse mai a Torino senza scendere a Valdocco a venerare l'Ausiliatrice, a pregare don Bosco. Se appena poteva si inginocchiava in presbiterio, al posto che occupava quando giovinetto partecipava alle funzioni come membro del «piccolo clero» e riviveva, pregando, i fervori della pietà eucaristica dei tempi di don Bosco. Il giorno della canonizzazione (1 aprile 1934) egli fu a Roma a rendere omaggio al Santo e a dividere con la Famiglia Salesiana la grande letizia di quella Pasqua che Pio 11° definì «Pasqua salesiana». Il 3 aprile seguente partecipò alla solenne udienza che il papa Ratti, concesse ai pellegrini che gremivano la basilica di san Pietro.

L'estensore di queste note in quella occasione si sentì sussurrare da un alto Prelato della Curia romana:

- Vuol vedere il don Bosco dei nostri giorni? Guardi laggiù! - e gli indicò don Orione che in quel momento attraversava piazza san Pietro, solo, l'aspetto dimesso, lo sguardo raggiante di un'intima gioia che gli animava tutta la persona.

Don Orione fu beatificato da Papa Giovanni Paolo 2° il 16 ottobre 1980.

 

10. LA POLITICA DI DON BOSCO.

«Nessuna politica. Fare del bene a tutti, del male a nessuno. Questa è la mia politica». Così diceva don Bosco.

Tattica e savoir faire (saper fare) furono sempre le armi che adoperava il Santo, da giovane coi compagni e compaesani, da seminarista coi condiscepoli e coi superiori, da sacerdote con tutti e persino coi protestanti, con i massoni e con le più alte autorità, come attestano gli episodi più piacevoli e più gustosi della sua vita.

Ne scelgo alcuni fra mille.

Prete più, prete meno.

In quei tempi di trionfante liberalismo, uomini politici, temendo in don Bosco un oppositore, volevano coinvolgere anche lui nei moti rivoluzionari, e gli facevano insistenza perché prendesse parte coi suoi giovani ai pubblici festeggiamenti che si svolgevano in Torino.

Un giorno, incontrandolo il famoso Angelo Brofferio, gli disse:

- Domani, in Piazza Castello, è fissato un posto anche per lei: veda di non mancare.

- Scusi, Onorevole, - rispose don Bosco - sono tanto impegnato per procurare il pane ai miei orfanelli. Se anche non v'andassi io, altri meglio di me occuperebbero il posto. E poi, prete più, prete meno, che importa!

 

Un altro giorno, il marchese Roberto D'Azeglio lo invitò ad intervenire col suo Oratorio alla parata sulla piazza della Gran Madre di Dio, per festeggiare la festa dello Statuto.

- Signor marchese - osservò don Bosco - il mio istituto è una famiglia di giovani poveri, male in arnese: ci faremmo burlare se facessimo tale comparsa... ne scapiterebbe anche l'importanza e la grandiosità della festa! Mi abbia quindi per scusato.

Altra volta, in simili circostanze, invitato a pronunciare un discorso d'occasione, si scusò dicendo:

- Signori, mi mettano in mezzo a un esercito di ragazzi o dinanzi a un raduno di contadini, e dei discorsi ne farò a loro piacimento; ma dinanzi ad un pubblico colto e scelto, col mio dire inelegante e il mio fare bonario, temerei di mettere a riso l'assemblea e guastare ogni cosa.

Chiamato in Municipio a rendere conto dei suoi rifiuti e del suo atteggiamento si presentò con aria di bonomo, con la barba da radere, con le scarpe mal legate, dando risposte di un uomo distratto e poco intelligente, tanto che uno di quei signori, che non conosceva don Bosco se non di nome, rivolto ai compagni, mormorò:

- Oibò... lasciamo un po' stare. Questo povero matterello non sarà colui che spianterà le istituzioni dello Stato.

Caramelle amare.

Il tratto di don Bosco con personaggi del mondo politico e con Ministri di stato fu sempre improntato a

 

un sano realismo e a sollecitudine pastorale. Eccone un esempio.

Un giorno si recò al Ministero degli Interni. Titolare di quel Dicastero era Urbano Rattazzi. Don Bosco trovò l'anticamera già affollata, ma il Ministro, appena seppe che don Bosco attendeva, si fece premura di riceverlo subito.

Il Santo, attraversando la fila dei curiosi e meravigliati per quella preferenza, si presentò, e disse al Ministro, con quella semplicità tanto naturale in lui:

- Quanta gente, Eccellenza! questo suo ufficio mi dà l'aria di un confessionale in tempo di Pasqua.

- Eh, caro don Bosco - rispose il Ministro - con questa differenza: che chi va a confessarsi, se ne parte benedicendo il confèssore, mentre chi parte dalle nostre udienze, spesso ci maledice, perché non si è potuto soddisfare alle richieste.

La conversazione si protrasse assai, e quando don Bosco si alzò per licenziarsi, si alzò anche il Ministro che, prendendo per mano il Santo, gli disse:

- Don Bosco, mi dica qualche cosa...

Don Bosco lo guardò meravigliato; poi, con la massima confidenza, rispose.

- Eccellenza... pensi a salvarsi l'anima!

Il Ministro, stringendo forte la mano a don Bosco, abbassò la fronte e pianse come un ragazzo.

Quando poi gli si chiedeva perché il Ministro si fosse messo a piangere, egli rispondeva sorridendo:

- Eh, gli ho detto qualche cosa... Ma sono le caramelle amare quelle che fanno bene.

Questo stesso Ministro, un'altra volta, gli fece una domanda strana:

- Mi dica, don Bosco: io sono scomunicato?

 

Il Santo, preso così all'improvviso, stette alquanto pensoso, e poi rispose:

- Eccellenza, mi spiace, ma non potrei trovare argomenti che lo scusino.

- Bravo, don Bosco! - soggiunse il Ministro; - finora nessuno me l'aveva mai voluto dire. Preghi per me, e faccia pregare i suoi giovani, affinché non abbia ad andare all'inferno.

- Sì, pregherò e farò pregare, ma lei faccia così... e così...

Il Ministro moriva poco dopo. Aveva chiesto e desiderato il sacerdote, e il Signore gli aveva certamente usato misericordia, perché egli aveva usato misericordia agli orfanelli di don Bosco.

Grande funerale a Corte!

L'anno 1855 vide uno scontro durissimo fra lo Stato Piemontese e la Chiesa.

Verso la fine del 1854 fu presentato alla Camera un progetto-legge del ministro Urbano Rattazzi (agli Interni nel primo ministero del marchese Camillo Cavour) «tendente a ridurre l'influenza della Chiesa», come afferma lo storico Francesco Traniello. Esso proponeva di sciogliere tutti gli ordini religiosi contemplativi, che cioè non si dedicavano a qualche ministero attivo (istruzione, predicazione, assistenza ai malati) e l'incameramento dei loro beni da parte dello stato - che era ciò che soprattutto premeva al Cavour.

Le forze cattoliche, guidate dai vescovi, si organizzarono perché questa cosiddetta legge sui frati non passasse alle Camere, ma si dava per scontata l'approvazione alla Camera dei Deputati e, di stretta misura, anche quella al Senato. Solo il Re poteva bloccare la legge.

Stante questa atmosfera, in un rigido pomeriggio di dicembre, don Bosco (che portava i suoi guanti di lana

 

vecchi e sdruciti per proteggere i grossi geloni alle dita), raccontò ai suoi più intimi di aver fatto un sogno strano. Era nel cortile quando aveva visto entrare dal cancello un valletto di corte, vestito di rosso, che gridò:

- Gran funerale a Corte! Gran funerale a Corte! Appena sveglio, don Bosco prese la penna e scrisse al Re, pregandolo di impedire, a qualunque costo, quella legge.

Cinque giorni dopo, sognò di nuovo. Gli pareva di essere nella sua camera, intento a scrivere, quando ode lo scalpiccio di un cavallo in cortile; vede aprirsi la porta, ed apparire lo stesso valletto in livrea rossa, che entra a metà e grida:

- Annunzia: non gran funerale a Corte, ma grandi funerali a Corte!

E ripetute due volte queste parole, se ne andò chiudendo la porta dietro di sé.

Don Bosco corse sul balcone, e visto il valletto già in sella, gli chiese il perché di tale annunzio; ma quegli, spronando il cavallo, gridò ancora:

- Grandi funerali a Corte!!! E si dileguò.

Appena giorno, il Santo indirizzò al Re un'altra lettera, nella quale raccontava la seconda minaccia, e pregava sua Maestà a fare in modo di impedire ad ogni costo quella legge.

Intanto la Regina Madre, Maria Teresa, colpita in quei giorni da grave malore, il 12 gennaio muore in età di 54 anni.

La mattina del 16, le si celebrano i funerali; e la sera dello stesso giorno, la Regina Maria Adelaide riceve il Santo Viatico, e muore il giorno 20, in età di soli 33 anni.

La stessa sera, riceve il Viatico il Principe Ferdinando, fratello del re, che spira la notte dal 10 all'11 febbraio, in età anche lui di 33 anni.

I chierici dell'oratorio - i soli a conoscenza di queste cose - «erano esterrefatti nel veder avverate in modo

 

così fulmineo le profezie di don Bosco - scrive don Lemoyne. - Nemmeno in tempo di peste si erano aperte tre tombe reali nel giro di un mese».

Intanto alla Camera la legge sui frati viene discussa il 15 febbraio e approvata (94 voti contro 23) per passare poi al Senato.

Non erano finiti i lutti per Casa Savoia. D 17 maggio muore il figlioletto del Re, Vittorio Emanuele Leopoldo di appena quattro mesi. Si dice a Corte che il Re sia molto sconcertato per tanti funesti eventi. Ma il 22 maggio la legge passa anche al Senato con quindici voti di maggioranza. Il re la firmò il 29 maggio.

Questa volta don Bosco non rise. Santo e menagramo (a seconda da che parte si voglia vedere la cosa) aveva previsto giusto, purtroppo!

L'amicizia del Re.

Re Vittorio Emanuele 2°, che passò alla storia con il nome di Padre della Patria con le virtù e i difetti che tutti gli riconoscono, era in fondo un galantuomo e, a modo suo, anche un credente.

Dopo le famose lettere dei «funerali a corte» che tanto l'avevano scombussolato, cercò più volte d'incontrare don Bosco, senza mai riuscirci.

- Cuntacc! - disse un giorno al Conte d'Angrogna suo aiutante di campo, - voglio proprio vedere questo prete in faccia.

Ed ecco che, un bel mattino, cavalcando col suo generale, venne a Valdocco e chiese di parlare con don Bosco. Per caso, pochi minuti prima, questi aveva detto al portinaio:

- Questa mattina ho molto da fare. Se venisse anche il Re, gli dirai che non posso riceverlo.

Il portinaio fu fedele alla consegna, e Vittorio Emanuele si allontanò aggrondato. L'aiutante, il giorno se

 

guente si recò dal Santo e, con fare risentito, l'interrogò:

- È lei don Bosco?

- Sì, sono io.

- E lei ha osato scrivere certe lettere al Re, cercando d'imporgli il modo di governare?!

- Io ho scritto, ma non ho inteso imporre la mia volontà a nessuno.

Allora il generale cominciò ad inveire, a chiamarlo impostore, fanatico, ribelle, nemico del Re.

Don Bosco cercò di interrompere quel torrente d'ingiurie, ma il generale che smaniava sempre più, a un certo punto, disse:

- Senta, qui non ci vogliono parole, ma fatti! Lei deve dare soddisfazione degli insulti che ebbe l'ardire di indirizzate al Re.

- In che modo?

- In nome di Sua Maestà, segga, e scriva ciò che io le detterò.

- Eccomi pronto.

Il generale incominciò a dettare una formula di ritrattazione, che era la negazione della verità. Don Bosco depose la penna dicendo:

- Non è possibile! Io non scrivo simili ritrattazioni.

- Eppure, deve scriverla a qualunque costo!

- Ed io non la scrivo!

Il generale, furibondo, si toccò la sciabola, come per sfidarlo a duello, ma don Bosco, con l'abituale dolcezza, lo disarmò e soggiunse:

- Signor Conte, se avessi saputo che desiderava aggiustare quest'affare, io stesso mi sarei recato a casa sua, e le avrei risparmiato l'incomodo di questa gita.

Il generale, mezzo sbalordito da quella proposta, si sentì calmo e cambiato. Preso un tono più dolce, soggiunse:

- Dunque, lei verrebbe a casa mia?

- Sicuro!

- E ne avrebbe il coraggio?

 

- Certo!

- E se la prendessi in parola?

- Faccia pure.

Il giorno dopo, all'ora fissata, don Bosco fu veramente in casa del conte d'Angrogna. Là si combinò una lettera di convenienza al Re; e da quel giorno d'Angrogna divenne amico sincero di don Bosco e suo benefattore.

In seguito, anche Vittorio Emanuele concepì una stima grande per don Bosco, cercando d'incontrarlo a Torino ed a Firenze. Disse di lui un giorno all'Arcivescovo di Genova:

- Monsignore, sa? il nostro don Bosco è veramente un santo!

È cosa singolare.

Siccome le sue profezie avevano suscitato in Torino una enorme impressione, nel settembre del 1855 piombò all'Oratorio il questore di palazzo, che gli proibì, a nome del Re, di fare ancora profezie circa le prossime morti.

- E perché? - osservò don Bosco.

- Perché son cose che impressionano, e potrebbero non avverarsi.

- Che impressionino e facciano del bene, sì; ma che non si siano avverate, non è mai capitato.

- Ebbene, dica a me il nome di chi, in quest'anno, sarà il primo a morire tra i suoi dipendenti.

- Mi dà formale promessa di conservare il segreto?

- La do, sul mio onore.

- Boggero Giovanni.

Il questore segnò quel nome sul suo taccuino, e se ne andò.

Questo Giovanni Boggero aveva allora 26 anni; era di bella presenza, di bell'ingegno, amato da tutti e in piena salute.

Tre mesi dopo, ossia il mattino del 14 dicembre,

 

mentre stava per far colazione, stramazzò improvvisamente a terra e morì d'apoplessia fulminante.

Quando il questore venne a saperlo, ritornò all'Oratorio e disse a don Bosco:

- Dica pure quel che vuole ai suoi giovani; ne ha tutte le licenze immaginabili. - Quindi, baciandogli la mano commosso, si allontanò ripetendo: «È cosa singolare, è cosa troppo singolare!».

A chi poi lo richiedeva circa siffatte profezie, il Santo sorridendo rispondeva:

- È cosa singolare!.. l'ha detto il questore.

Viva Vittorio Emanuele, Cavour e Garibaldi.

Un altro giorno, trovandosi a pranzo con esponenti del governo e personaggi di varie tendenze politiche, ascoltò i brindisi inneggianti alla libertà, a Vittorio Emanuele, a Cavour e a Garibaldi.

Invitato poi a parlare anche lui, alzò il bicchiere, e senza scomporsi, esclamò sorridendo:

- Viva Vittorio Emanuele, Cavour e Garibaldi, sotto la bandiera del Papa, affinché possano salvarsi l'anima!

Tutti l'applaudirono, ammirando il tatto fine del Santo e la franca professione delle sue idee; ed uno di loro gridò:

- Evviva don Bosco! Egli non vuole proprio la morte di nessuno!

Desiderium peccatorum peribit.

Il 6 agosto 1876, inaugurandosi la ferrovia Torino-Ciriè-Lanzo, il Prefetto di Torino aveva chiesto di servire il rinfresco alle Autorità nel collegio che don Bosco aveva in quest'ultimo paese.

 

Vi partecipavano i Ministri Agostino Depretis, Giovanni Nicòtera, Giuseppe Zanardelli con molti deputati, e vi presenziò anche don Bosco.

Servito il rinfresco, andarono tutti a sedere in giardino, e si portò il discorso sui frequenti viaggi del Santo a Roma e sulle sue visite in Vaticano. Quindi passarono a qualche amichevole scherzo.

Ad un certo punto, il deputato Ercole esclamò:

- Don Bosco legge nei cuori. Sentiamo un po' da lui chi è più peccatore: Nicòtera o Zanardelli?

Tutti risero a questa uscita amena, e il Santo rispose:

- Veramente, per poter dare una risposta giusta, bisognerebbe che venissero qui a fare gli Esercizi Spirituali; e allora, dopo una confessione generale, potrei dare un giudizio sul loro interno.

Ma siccome Ercole insisteva, Nicòtera lo interruppe dicendo:

- Oh!... perché vuoi mettere me come termine di paragone? Domanda invece a don Bosco se tu sei più peccatore degli altri.

Ed egli:

- Non ho voglia di convertirmi io... C'è tempo!

- Oh, sì! - soggiunse Nicòtera. - Non sai che sta scritto nei salmi: «Desiderium peccatorum peribit»?

- Bene!... bravissimo! - ripeterono tutti; ed un altro continuò:

- Mi dica, don Bosco, ella crede che noi ci salveremo?

- Eh!... io lo spero - rispose il Santo. - La misericordia di Dio è tanto grande!

- Ma noi non abbiamo voglia di convertirci tanto presto!

- Il che vuol dire che desiderano continuare, e poi... se si sentiranno...

- Sì, così per l'appunto!

- E allora - concluse il Santo - si avvererà ciò

 

che ha detto quel signore poco fa: Desiderium peccatorum peribit!

Segreti di famiglia.

Don Bosco, per le sue frequenti visite al Papa, era sospettato dalla Polizia. Nel maggio del 1860 fu sottoposto ad una minutissima perquisizione, durante la quale gli agenti, nel visitare un armadio, trovarono un cassetto chiuso a chiave.

- Che c'è qui? - chiese con premura il Delegato.

- Cose confidenziali, cose segrete - rispose don Bosco. - Non voglio che alcuno lo apra.

- Che confidenze! Che segreti! Venga ad aprire.

- Non posso. Ci sono cose che possono tornare a mio disonore. Rispettate i segreti di famiglia!

- Con noi, non ci sono segreti! Venga ad aprire, o scassineremo lo sportello.

- Minacciato dalla forza, io cedo, ma... non vorrei. Aperto il cassetto, il Delegato abbranca le carte là contenute, e facendole vedere ai compagni, grida:

- Ora ci siamo!

Gongolante di gioia, si mette sollecitamente a farle passare, assistito dalla cupida curiosità degli altri sbirri.

Ne apre una, poi una seconda, indi una terza e legge:

Pane somministrato a don Bosco dal panettiere Magra, Lire 7800.

Cuoio somministrato ai calzolai di don Bosco, Lire 2150.

Stoffa somministrata alla sartoria dell'Oratorio, Lire 730.

- Ma che razza di carte sono queste?

- Adesso che avete cominciato, continuate e lo saprete.

Aprono altri fogli, e non trovano che note di riso,

 

paste, olio e simili, tutte ancora da pagare. Allora il Delegato esclama:

- Ma perché ci corbella così?!

- Io non corbello nessuno! non avevo piacere che i miei debiti fossero conosciuti; ma giacché li avete tutti voluti conoscere, pazienza! Se vi compiaceste di pagarmi almeno qualcuna di queste note, fareste un'opera di carità.

Quei signori si posero a ridere, e vennero a più miti consigli.

Don Bosco, allora, fece portare una bottiglia, e bevvero tutti alla salute della perquisizione.

Gatti nell'armadio.

Tra gli inquisitori e i perquisitori più arrabbiati contro i preti e gli Istituti Religiosi, e quindi contro don Bosco, vi era un certo Cav. Gatti, un alto impiegato governativo.

Costui era stato incaricato di una inquisizione alle scuole dell'Oratorio, e ne aveva fatto al governo una relazione spietata e menzognera.

Don Bosco, temendo la chiusura del suo istituto, si recò direttamente dal Ministro dell'Istruzione a parare la tempesta.

Il Ministro, chiamato il Gatti, lo mise a confronto con il Santo per sostenere le accuse fatte in detta relazione; ma costui fu talmente impappinato ed arrabbiato, che a un certo punto, non potendo più sostenere le sue menzogne, si alzò, e pieno di dispetto, tentò di andarsene.

Però, nella confusione e nel livore che lo divorava, sbagliò la porta, ed aperto un armadio, vi si cacciò dentro.

A quella vista, il Ministro gridò:

- Ehi, cavaliere, adagio! quello è un armadio! Ritorni indietro.

 

E alzatosi, andò egli stesso ad aprirgli la porta di uscita.

Le astuzie di una marchesa.

Nel settembre del 1864 la capitale del regno fu trasferita da Torino a Firenze, e don Bosco, a richiesta d'alcuni insigni benefattori, decise di recarsi colà in cerca di aiuti.

Quel viaggio a Firenze fu un vero trionfo. Tutti i giornali di quei giorni parlarono di lui. Fu ospitato nell'arcivescovado; i canonici della cattedrale tennero un'accademia in suo onore; e le nobiltà tutte gareggiavano per averlo presso di loro.

La Marchesa Gerini, fra le altre, lo pregò di fermarsi qualche giorno a Firenze, e don Bosco rispose:

- Non posso, Marchesa; i miei figli mi aspettano.

- Che importa? Aspettino; quando giungerà lo rivedranno!

- Oh, sì. Essi aspettano il pane! Se io non vado, chi paga loro il pane?

- Quanti sono?

- Circa mille.

- Quale somma ci vorrà per provvedere il pane ai suoi giovani in questi giorni?

- Diecimila lire circa.

- E se si trovasse questa somma, si fermerebbe davvero?

- Perché no?

- Ebbene, io le darò le diecimila lire.

- Se è così, il Signore la benedica! - esclamò sorridendo.

 

Puf... puf... puf...

Durante la sua permanenza nella città di Firenze, don Bosco venne chiamato d'urgenza al Ministero degli Interni per affari d'importanza.

Trovandosi a colloquio con il Primo Ministro Bettino Ricasoli e con il ministro Lanza, questi gli chiese:

- Ma lei, don Bosco, come fa a mantenere tanti giovani e sostenere tante spese? Dove prende il denaro?

Don Bosco, ridendo, rispose:

- Signor Ministro, vado avanti a vapore.

- Che vuol dire?

- Vado avanti come fa il vapore, cioè il treno, puf... puf... puf...! (ossia debiti, debiti, debiti).

Tutti risero di cuore; ma poi Lanza soggiunse:

- Questo si intende; ma poi questi debiti bisognerà onorarli.

- Veda, Eccellenza, io le dirò che dietro la macchina ci vuole fuoco perché proceda; ed io ci metto questo fuoco.

- Di che fuoco intende parlare?!

- Del fuoco della fede in Dio e nella sua Provvidenza. Senza questo fuoco, l'opera dell'uomo è nulla. Cadono gli imperi e rovinano i regni.

Queste parole, pronunziate come sapeva pronunziarle il nostro Santo, lasciarono in tutti coloro una impressione solenne, e si persuasero che egli era veramente l'uomo di Dio.

Titolo di Cavaliere.

Quando il conte Luigi Cibrario, ministro della Pubblica Istruzione, gli inviò il diploma con la nomina di Cavaliere dell'Ordine dei santi Maurizio e Lazzaro, egli si affrettò a recarsi da lui e gli disse:

- Illustrissimo signor Conte, se mi chiamassero

 

Cavaliere, chi oserebbe ancora farmi l'elemosina? E poi, di croci ne ho già troppe! L'onorificenza la dia piuttosto ai miei orfanelli.

- E in che modo?

- Ottenendo loro qualche sussidio per provvederli di pane.

Fu contentato e sulla Gazzetta ufficiale di quei giorni comparve il decreto che fissava la pensione di lire 500 annue all'Opera di don Bosco.

I bersaglieri a Porta Pia.

Il Risorgimento Italiano si concluse con la presa di Roma nel 1870. La Francia, che manteneva un grosso presidio in Roma, a protezione dello Stato pontificio, fu costretta a ritirarlo, in seguito alla dichiarazione di guerra di Napoleone 3° alla Prussia (19 luglio). Il successivo disastro di Sedan (2 settembre), nel quale lo stesso imperatore fu fatto prigioniero, consentì al governo italiano di sentirsi «le mani libere» nei confronti di Roma. Un esercito di 60.000 uomini al comando del generale Raffaele Cadorna investì Roma, che era difesa da 14.600 volontari agli ordini del generale Kanzler.

Pio 9°, che considerava un errore la sua fuga a Gaeta nel 1848, era ben deciso a restare in Roma, nonostante che diverse nazioni fossero disposte a ospitarlo. Una nave inglese era pronta per trasferirlo a Malta.

Il Papa volle consultare persone di sua fiducia, primo fra tutti don Bosco.

La lettera di risposta del nostro Santo fu copiata in bella copia da don Giovanni Cagliero e ha lo stile solenne e ispirato di cui si serviva don Bosco quando parlava in qualità di «profeta».

- Che la sentinella, l'Angelo d'Israele, si fermi al suo posto e stia alla guardia della rocca di Dio e dell'Arca santa.

 

Alle 5,30 del 20 settembre i bersaglieri italiani aprirono il fuoco su Porta Pia, squarciando una breccia di trenta metri. Il Papa un'ora dopo faceva issare la bandiera bianca su Castel Sant'Angelo. Poche furono le vittime.

Il Papa si ritirò in Vaticano, considerandosi prigioniero. Si aprì in tal modo la famosa «Questione romana» che si protrasse, con alterne vicende, per quasi sessant'anni, e che fu composta solo nel 1929 (11 febbraio) con la «conciliazione» e la firma dei Patti Lateranensi i quali, secondo l'espressione di Pio 11°, «ridonarono Dio all'Italia e l'Italia a Dio».

Don Bosco apprese la notizia della conquista di Roma mentre era in visita al suo collegio di Lanzo Torinese. Con meraviglia di tutti i presenti - dice don Lemoyne, che fu teste oculare - egli non ne fu turbato, come se si trattasse di cosa risaputa da tempo.

 

11. I PAPI DI DON BOSCO.

Don Bosco conobbe, venerò ed ebbe familiari relazioni con due Papi del suo tempo: Pio 9° (1846-1878) e Leone 13° (1878-1903). Alcuni episodi rivelano quanto fosse grande la devozione del Santo per il Vicario di Cristo.

Niente Monsignore.

Quando, nel 1858, don Bosco si recò la prima volta a Roma a conferire con Pio 9° per la fondazione della Società Salesiana, il Santo Padre, per dargli un pegno della sua stima e del suo affetto, aveva pensato di nominarlo suo Cameriere Segreto, ossia Monsignore.

E don Bosco, che non aveva mai ambito onori, modestamente ringraziò, soggiungendo spiritosamente:

- Santità, che bella figura farei io quando comparissi in mezzo ai miei ragazzi vestito da Monsignore! I miei figli non mi riconoscerebbero più; non oserebbero avvicinarmi, e tirarmi da una parte e dall'altra come fanno adesso. E poi, la gente mi crederebbe ricco e... addio elemosine. I miei poveri giovani ne avrebbero a morir di fame, e le mie opere a perire. Oh, quant'è meglio che resti sempre il povero don Bosco!

Il Papa ammirò l'umiltà così graziosa di lui, e lo prese in specialissima confidenza e familiarità.

 

Sotto il piede del Papa.

Nella settimana Santa del 1858, il Papa lo volle presso di sé in tutte le funzioni della Basilica di San Pietro, e la Domenica di Pasqua, 4 aprile, essendosi il Santo portato con un Cardinale sulla loggia di San Pietro, dove il Papa si sarebbe recato a benedire il popolo di Roma, mentre stava osservando estatico quello spettacolo di oltre 200 mila persone, ecco arrivargli alle spalle la sedia gestatoria su cui era portato il Papa.

Non potendo più ritirarsi da alcun lato, si volse di fianco, e la punta del piede del Santo Pontefice si posò sulla sua spalla.

Due giorni dopo, ritornato all'udienza, il Papa, appena lo vide, gli disse con apparente serietà:

- Reverendo, dove vi siete andato a cacciare il giorno di Pasqua, durante la Benedizione papale? Lì, dinanzi al Papa. E quasi con le spalle sotto il suo piede!... Come se il Papa avesse bisogno di esser sostenuto da don Bosco.

- Santità - rispose don Bosco - fui colpito all'improvviso!... chiedo venia se...

- E aggiungete ancora l'affronto col chiedere se mi avete offeso?!

Il povero don Bosco lo guardò con aria così confusa che ci volle tutta la serietà di Pio 9° per non scoppiar a ridere.

Tre Papi debitori.

In un'altra udienza avuta da Pio 9°, don Bosco vi si recò portando una lunga lista di favori spirituali che desiderava ottenere per la Società Salesiana. Alcuni erano talmente importanti, che egli non osava quasi sperare.

A un certo punto, il discorso venne sull'attaccamento

 

di don Bosco e dei suoi Salesiani alla Santa Sede e al Papa in particolare; e il Pontefice esclamò con enfasi:

- Caro don Bosco, lo so! Tre Papi sono a voi debitori! Ne avete difeso la fama oltraggiata con la vostra Storia d'Italia, con la Storia Ecclesiastica e con le Letture Cattoliche. Tre Papi, capite, vi sono debitori!

Il Santo, pigliata la palla al balzo, alzò gli occhi al Santo Padre, e argutamente soggiunse:

- Non solo i passati, ma anche i presenti!

- Ho capito! avete qualche cosa da chiedere? Allora don Bosco tirò fuori e presentò la supplica ed il Papa, esaminatala, gli concesse tutti i favori che desiderava dicendo:

- Così il Papa presente paga i suoi debiti.

Le 300 volpi...

Nell'udienza che don Bosco ebbe dal Papa Pio 9° il 19 gennaio 1867 poté costatare quanta fosse la familiarità con la quale questo Papa lo trattava.

Caduto il discorso sulle tristi condizioni nelle quali i settari avevano ridotto la Chiesa, il Papa chiese a don Bosco:

- E in quanto all'amnistia che abbiamo concesso ai condannati politici, che cosa ne dite?

Il Santo, ben prevedendo i gravi avvenimenti che sarebbero succeduti, esitava a rispondere; ma il Papa soggiunse insistendo:

- Su, su, dite pur liberamente il vostro pensiero.

- Vostra Santità - rispose don Bosco - con quel tratto di sovrana clemenza pare che abbia fatto come Sansone quando catturò le 300 volpi e poi le lasciò andare in libertà. Esse corsero ovunque, a portarvi l'incendio e la distruzione.

- Bene, bene, avete indovinato! - esclamò il Pontefice. E poi soggiunse: - Noi ci siamo ingannati! Si

 

ammansiscono e si addomesticano le bestie feroci, ma le «volpi perdono il pelo, ma non il vizio».

La voce del cielo al Pastore dei Pastori.

L'8 dicembre 1869 Pio 9° aprì ufficialmente il Concilio Vaticano 1°, voluto dal Papa allo scopo di esporre chiaramente la dottrina cattolica in serrato confronto con gli errori moderni e per definire dogma di fede la prerogativa della «infallibilità» del Papa.

Ma i tempi, per lo stato della Chiesa, volgevano tristi. La guerra tra la Francia e la Prussia era nell'aria e la sopravvivenza medesima dello stato pontificio, difesa strenuamente dal governo del Papa, era in serio pericolo.

Si comprende l'ansia di Pio 9° nel tentativo di conoscere «i segni dei tempi» che coinvolgevano con il potere temporale i destini della Chiesa medesima.

Fu detto e scritto che il Papa interrogò personalmente don Bosco, le cui ispirazioni profetiche erano divulgate, nei due lunghi colloqui privati che gli concesse nell'udienza dell'8 e del 12 febbraio. Le precedenti edizioni di questo libro riportavano anche le battute drammatiche del dialogo tra don Bosco e il Papa. In realtà questi parlò delle speranze che riponeva nel Concilio e chiese al Santo di diffondere tra il popolo, con la collana di Letture cattoliche, la dottrina sulla infallibilità del Papa. Gli chiese anche qualche previsione sul futuro del Concilio e della Chiesa?

In una successiva udienza (12 febbraio) don Bosco consegnò al Papa alcune pagine di «previsioni sull'avvenire».

L'esposizione (di cui si conserva l'autografo di don Bosco) ha uno stile immaginoso, simbolico, nel quale le previsioni s'intrecciano alle invettive, agli appelli sovente misteriosi e confusi.

«...Ora la voce del cielo è al Pastore dei Pastori. Tu

 

sei nella gran Conferenza con i tuoi Assessori (allusione al Concilio e ai Padri conciliari, in numero di 700, venuti da tutto il mondo). Ma il nemico del bene studia e pratica tutte le arti contro di te. Seminerà discordie tra i suoi Assessori. Susciterà nemici tra i figli miei. Le potenze del secolo vomiteranno fuoco e vorrebbero che le parole fossero soffocate in gola ai Custodi della mia legge. Ciò non sarà. Tu accelera; se non si sciolgono le difficoltà, siano stroncate. Se sarai nelle angustie, non arrestarti, ma continua finché sia troncato il capo dell'Idra dell'errore. Questo colpo farà tremare la terra e l'inferno. Ma il mondo sarà assicurato e tutti i buoni esulteranno...

«...I giorni corrono veloci, gli anni si avanzano al numero stabilito. Ma la Gran Regina sarà sempre il tuo aiuto, e come nei tempi passati, così per l'avvenire sarà sempre grande e potente aiuto della Chiesa».

Anche del Papa, poche righe più avanti, si dice testualmente: «Ora egli è vecchio, cadente, inerme; spogliato di tutto, tuttavia, con la schiava parola, fa tremare il mondo».

Questo è tutto quanto don Bosco predisse sul Concilio e sul futuro del Papa. Lo sviluppo storico ha confermato quanto quella visione liberatoria, ma per il momento impietosa, fosse nell'ordine delle cose disposte dalla Provvidenza, per i suoi misteriosi fini.

Sorpasserà gli anni di San Pietro.

Dal seguente aneddoto, appare sempre meglio come Pio 9° ricambiasse l'amore che don Bosco e i Salesiani nutrivano per lui e per la Sede Apostolica, e quanto fosse squisita la bontà di questo Papa.

Nel febbraio del 1869, recatosi don Bosco nuovamente dal Papa, questi l'accolse con le lacrime agli occhi e gli disse:

 

- Caro don Bosco, io sono vecchio; da un momento all'altro posso mancare; se avete qualche cosa da chiedere per la vostra Congregazione, fate presto.

Il Santo con la sua tranquillità e sicurezza abituale, guardando amorosamente il Pontefice, rispose in tono profetico:

- Santo Padre, il Signore vi serba ancora a grandi cose, e a fare del gran bene per la Chiesa.

- Eh!... - soggiunse Pio 9° - manca solo un anno e mezzo all'età del pontificato di San Pietro.

- E voi, Santità, lo sorpasserete.

- Che dite mai? Non è mai capitato.

- Ebbene, io dico a Vostra Santità che, non solo vedrà i giorni e gli anni del Pontificato di san Pietro, ma altri ancora.

La profezia si avverò.

La merenda del Papa.

In quella stessa udienza, Pio 9°, per dimostrare a don Bosco tutta la paterna bontà che nutriva per lui e per i suoi figli, dopo avergli detto: «Vi concedo tutte le facoltà possibili», concluse:

- Ma voi avete ancora da chiedermi qualche cosa. Don Bosco rimase alquanto sospeso, e il Papa continuò:

- Sì, sì, voi desiderate ancora qualche cosa da me.

- Santità, dopo la vostra Benedizione, che potrei ancora desiderare?

- E come! Non desiderate fare stare allegri i vostri giovani quando sarete ritornato in mezzo a loro?

- Santità, questo sì!

- Dunque, aspettate!

Aperto lo scrigno, ne trasse un bel rotolo di monete d'oro, e, senza neppure contarle, le pose in mano al Santo dicendo:

 

- Prendete, e date loro una buona merenda a mio nome.

Così fu fatto, e quella merenda fu chiamata «La merenda del Papa».

Predice il nuovo Papa.

Morto Pio 9°, si stava preparando il Conclave per l'elezione del nuovo Pontefice.

Don Bosco che aveva trattato con Francesco Crispi in merito al luogo ove si sarebbe potuto tenere un libero Conclave, in uno di quei giorni si aggirava in Vaticano, quand'ecco si imbatté in un Cardinale che non aveva mai veduto. Chi gli faceva da guida gli disse:

- Ecco qui l'Eminentissimo Pecci.

Don Bosco mira in faccia il Porporato, poi l'avvicina, e con accento filiale gli dice:

- Vostra Eminenza mi permetterà che le baci la mano.

- Chi è lei, che si appressa così franco e disinvolto?

- Io sono un povero prete, che ora bacia la mano a vostra Eminenza, pregando con ferma speranza che, fra pochi giorni, le possa baciare il sacro piede.

- Badate a quello che fate! anzi vi proibisco di pregare a tale scopo.

- Ella non può proibirmi di chiedere a Dio quello che a lui piace.

- Se voi pregate per questo fine, vi minaccio la censura.

- Eminenza, ella non ha la potestà di infliggere censure; quando l'abbia, saprò rispettarla.

- Ma chi è lei che mi parla così autorevolmente?

- Io sono don Bosco.

- Per carità, tacete! È tempo di lavorare, non di burlare.

 

- Niente burla... ma verità - conchiuse Don Bosco sorridendo.

E che fosse verità lo dimostrò il fatto che il Cardinale Gioacchino Pecci, pochi giorni dopo, era il nuovo Papa Leone 13°.

Incontrandosi poi con don Bosco andava ripetendo:

- Voi foste il primo a salutarmi Papa, ed io sarò il primo vostro cooperatore Salesiano.

Il Conclave si terrà a Roma.

Nel febbraio del 1878, incaricato dalla Santa Sede di saggiare le intenzioni del Governo circa il prossimo Conclave, chiese udienza a Francesco Crispi, Primo Ministro; e vedendo che Crispi tentennava, francamente gli dichiarò:

- A nome del Sacro Collegio, chiedo una risposta pronta e categorica, perché, in ogni caso, il Conclave verrà tenuto, magari a Trieste (a quel tempo sotto l'Austria) o ad Avignone (Francia).

Crispi, colpito da quella fermezza, e pensando che il Governo avrebbe avuto tutto l'interesse che il Papa fosse eletto a Roma, si alzò e tese la mano al Santo dicendogli:

- Assicuri da parte mia i Cardinali, che il Governo rispetterà e farà rispettare il Conclave e che l'ordine pubblico non sarà minimamente turbato.

Don Bosco s'affrettò a portare la notizia in Vaticano, e la Segreteria di stato si congratulò con lui per il buon esito della trattativa.

Questa franchezza di carattere e fermezza di idee procurò sempre a don Bosco ammirazione e benevolenza.

 

12. QUESTUANTE PER LA CHIESA DEL PAPA.

Sfida contro la morte.

Nel maggio 1883 don Bosco va in Francia, in cerca di aiuti per le sue opere, e specialmente per la erigenda chiesa del Sacro Cuore di Gesù in Roma, che il Papa Leone 13° gli ha caricata sulle spalle.

Il suo viaggio per la Francia è un viaggio trionfale. La stessa sera del suo arrivo a Parigi è chiamato a benedire un giovanetto moribondo, figlio di una rinomatissima Contessa, al quale erano già stati amministrati gli ultimi Sacramenti.

- Sì, andrò - dice don Bosco - lo benedirò, ma a patto che domani mattina venga a servirmi la Messa alla Maddalena, ove terrò una conferenza.

La proposta pareva strana e sbalorditiva; ma egli, calmo e sereno, s'avvia a quella casa, e dinanzi al morente già entrato nello stato comatoso, fa una breve preghiera, lo benedice, e gli ripete:

- Domani, verrà a servirmi la Messa.

La notizia di quella sfida lanciata contro la morte si divulga, e al mattino seguente, la bella chiesa monumentale della Maddalena è presa d'assalto da una moltitudine incuriosita.

Sulla folla taciturna e orante alita l'ansia dell'attesa. Squilla il campanello che annuncia la Messa di don Bosco, ed ecco il giovane contino, ritto e bello come un angelo, precedere don Bosco col Messale fra le braccia.

 

Passava nella folla immensa un fremito di commozione; mille binocoli si appuntavano a lui, che solo la sera prima era moribondo.

Una nobile donna, presente al prodigio, vota all'istante tutto il suo cospicuo patrimonio alle opere di don Bosco.

Altra sfida alla morte.

Quell'anno non doveva chiudersi senza altri scherzi dello stesso genere da parte della Divina Provvidenza. Nell'autunno, le più autorevoli persone aristocratiche dell'Austria lo richiedevano al letto del Principe Enrico, figlio del Duca di Berry, che era agli estremi. Tutti i giornali lo davano moribondo, e si voleva don Bosco, nella ferma fiducia che egli lo guarisse.

Don Bosco esitava ad accondiscendere, e diceva:

- Hanno tanti sacerdoti, e possono anche avere dei vescovi; che bisogno c'è di far correre il povero don Bosco?

- Sì, è vero - gli si rispondeva - ma se quel principe vuole sentire una parola da lei?!

Finalmente cedette e partì. Giunto al castello, disse senz'altro a quelli che corsero ad incontrarlo:

- Infirmitas haec non est ad mortem (L'ammalato non morrà).

Lo benedisse, gli fece invocare Maria Ausiliatrice, e discese per un po' di ristoro.

Quel giorno era sant'Enrico, onomastico del Principe. Alla fine del pranzo, giunge in sala l'infermo a brindare con la moglie Maria Teresa d'Este, e con quelli della Corte che pendevano dalle labbra di don Bosco, e il giorno seguente prendeva parte ad una partita di caccia data in suo onore.

Quella guarigione fece stupire le celebrità mediche d'Europa, che avevano visitato e curato il Principe, e

 

don Bosco ritornato a Torino, a quanti lo andavano complimentando, diceva ridendo:

- Oh quanto si è meno in soggezione in casa propria e al letto della povera gente, che non nei palazzi reali e al letto dei Principi!

Venite a vedete un santo!...

A Marsiglia, aveva preso alloggio dai Fratelli delle Scuole Cristiane, che tenevano colà un collegio di 600 giovani.

Nei primi giorni, pressato da molteplici occupazioni, non aveva avuto il tempo di intrattenersi con quei ragazzi, e neppure i superiori avevano pensato di presentarlo loro.

Un giorno, uno di quei convittori, attirato dalla curiosità, gli si avvicina; e don Bosco, con tutta affabilità e confidenza, come soleva fare con i suoi di Torino, si china al suo orecchio e gli dice una parolina.

Fu una scintilla elettrica. Quel fanciullo si stacca da don Bosco, e prende a gridare forte:

- Compagni! Compagni! Venite a vedere un Santo!

L'echeggiar di quelle grida mise in subbuglio i giovani e i superiori che, usciti sulle porte e nei corridoi, si spingono, si urtano, si precipitano per le scale attorno al prete santo, il quale, sbalordito da quell'irruzione, ma placido e sorridente, li accoglie come avrebbe fatto un padre affezionato coi più affezionati figlioli.

La presenza di don Bosco suscitò tale fermento, che tutti vollero parlare e confessarsi da lui, producendosi il salutare effetto di una muta di Esercizi Spirituali.

Quegli zelanti Fratelli, congedando il Santo, andavano ripetendo:

- Ancora un poco, e ci ruba il cuore di tutti i nostri giovani!

 

Incominciamo!...

Ma intanto, era passata una bella settimana dacché si trovava a Marsiglia e, a differenza delle altre volte, o nulla o quasi nulla aveva potuto raggranellare per le sue opere.

Un bel giorno, mentre quasi angosciato se ne condoleva col Direttore dell'Istituto, sembrò rianimarsi ed esclamò:

- Incominciamo!...

E incominciò davvero. Ecco che, essendogli presentato un giovane affatto incapace a reggersi in piedi, egli con la benedizione di Maria Ausiliatrice lo raddrizza guarito. Accorrono a lui altri malati, ed egli li sana pienamente. Ad altri legge nella mente; ad altri tocca il cuore; ad altri indovina i peccati; ad altri predice il futuro, li conforta e benedice.

La notizia di simili prodigi si diffonde come baleno, e da tutta la città e dintorni una folla immensa, sempre crescente, accorre a chiedere la benedizione di don Bosco, ed implorarne grazie e favori.

Con i miracoli fioccano le offerte; tutti si accorgono che ha incominciato davvero...

Fede che ammazza.

Nel ritorno dai suoi ultimi viaggi in Francia, passò per Grenoble.

Un popolo immenso l'attendeva. Le piazze e le vie rigurgitavano di gente, e il Parroco, che gli era mosso incontro con tutto il clero in forma solenne, lo pregò ad alta voce di benedire i suoi parrocchiani.

Quella moltitudine però non si contentò, ma tutti gareggiavano per giungere a lui, per baciargli le mani o almeno toccarne le vesti. Alcuni, non potendo riuscirvi, presero a porgere rosari e crocifissi ed altri oggetti per farli arrivare fino a lui, e con quelli lo colpivano nella

 

persona, nelle mani e perfino nel viso; e glieli premevano anche sulle mani perché li benedicesse e sulle labbra perché li baciasse.

Ad un certo punto, non potendone più, pregò i vicini che lo liberassero esclamando:

- Povero me!... la loro fede mi ammazza!

Ci volle del tempo per poter giungere alla vettura! Vi arrivò ansante e trafelato, e facendo vedere ai compagni le mani e la faccia indolenzite, diceva ridendo:

- Ancora un poco, e mi flagellavano come Gesù nel Pretorio di Pilato.

Bagno involontario.

Durante questo viaggio, a Nizza, prese un bagno involontario.

Un giorno ritornando dalle sue visite, per accorciare la via si azzardò ad attraversare il fiumicello Paglione sopra un ponticello di legno senza sponde e malfermo. Caso volle che, mettendo il piede in fallo, cadesse nell'acqua, prima che chi lo accompagnava potesse dargli appoggio.

Inzuppato dalla testa ai piedi, fece in pochi passi il breve cammino fino al collegio, e domandò abiti e biancheria per cambiarsi.

Il personale e confratelli accorsi si diedero attorno alla ricerca, ma essendo la casa assai povera, non fu trovata né una cosa né l'altra, per cui il Santo dovette mettersi a letto e attendere che il mite sole nizzardo gli asciugasse gli indumenti.

Avendo pertanto dovuto sospendere le visite e le udienze, la cosa fu saputa da molti signori; anzi, pubblicata da qualche giornale, fece in breve il giro della città, e fu Provvidenza, perché giunsero al collegio tre sottane nuovissime, due soprabiti fiammanti, e molti capi di

 

biancheria e calze; per cui don Bosco, ridendo, andava esclamando:

- Un bagno così redditizio, anche involontario, si potrebbe fare ogni giorno.

L'Abbé Bonhomme!

In quella stessa circostanza, trovandosi a Nizza Marittima, aveva preso una vettura di piazza; ma quando si arrivò al momento di pagare, si avvide di essere senza un soldo. Perciò pregò il vetturale che passasse più tardi dal Patronage Saint-Pierre, dove lo avrebbe soddisfatto.

- Di chi debbo cercare?

- Di me.

- Come si chiama?

- Abate «Bonomo».

Verso sera, il vetturale venne, e chiesto al portinaio dell'Abate «Bonomo», questi rispose:

- Ma qui non c'è nessun «Bonomo».

Il vetturale insiste, alza la voce, ed il portinaio, perduta la pazienza, gli indica bruscamente la porta.

Quegli, tutto rabbioso, stava per uscire, quando entra don Bosco. Al vederlo, prende a gridare in aria di trionfo:

- Voilà l'Abbé «Bonhomme!».

Don Bosco, ridendo, lo paga dandogli anche la mancia; ed egli soddisfatto e confuso, esclama:

- Cet homme n'est rien bonhomme... Il est grand homme! (Costui non è bonomo... è un grand'uomo!).

Impresta la sua voce.

Verso i suoi ultimi anni, don Bosco si era di nuovo recato in Francia in cerca di aiuti. Ora accadde che il Direttore di una di quelle case aveva, per quella circo

 

stanza, fatto preparare una recita, con invito a tutti i cooperatori ed ai signori della città.

Giunto il momento di andare in scena, ecco che viene a mancare improvvisamente la voce ad uno degli attori principali.

Sostituirlo era cosa impossibile; licenziare tanta gente senza la recita, non era conveniente. Si ricorse a don Bosco, il quale, chiamato a sé il giovane attore, gli disse:

- Sei contento che ti impresti la mia voce?

- Oh, don Bosco!

- Lascia fare a me. Inginocchiati, prendi la mia benedizione, e va' a sostenere la tua parte.

Il ragazzo obbedisce, ringrazia, va, sostiene la sua parte perfettamente; ed il Santo restò rauco e muto per tutto quel tempo, senza poter proferir parola. Finita la recita e richiamato a sé il giovanetto, dopo averlo complimentato, gli soggiunse:

- Ed ora, ritornami la mia voce, affinché possa chiedere del pane per i miei orfanelli.

E la voce ritornò a don Bosco completamente, mentre il ragazzo ritornò rauco come prima.

Il trionfo di Barcellona.

Nel 1886, cedendo alle vive istanze dei Cooperatori Salesiani, si recò in Spagna, preannunziato da tutti i giornali: il suo arrivo a Barcellona fu come l'arrivo di un Re. Da ogni parte erano accorsi ad incontrarlo rappresentanze e personaggi insigni.

Alla stazione l'attendeva un corteo di quaranta carrozze delle prime nobiltà.

Per vederlo, la gente saliva sui tetti delle case, sui muri di cinta, sugli alberi della strada.

Si dovettero raddoppiare le corse dei treni e le macchine per trasportare i convogli sovraccarichi di persone.

 

L'entusiasmo regnò sovrano in tutti i giorni della sua permanenza in quella città.

Dalle prime ore del mattino fino a tarda sera, era un affluire continuo di magistrati, di dame, di nobili, di religiosi, frammisti a un'onda di popolo, per vedere almeno una volta il Santo ed avere la sua benedizione dalla balconata del suo alloggio.

In quei giorni, guarì gli storpi e rattrappiti, malati di ogni età, e predisse ad un bambino di due anni che si sarebbe fatto sacerdote Salesiano, come difatti avvenne.

Il 15 aprile, la Società Cattolica, che contava tra i suoi membri il fior fiore della cittadinanza, volle dare un'accademia in onore di don Bosco e insignirlo con una grande medaglia d'oro e con gli emblemi di San Giorgio.

Si pronunciarono i primi entusiastici discorsi in onore suo e della sua mirabile Opera, e in fine, invitarono a parlare anche lui.

Egli si alzò e disse brevemente:

- Il fine, ossia lo scopo della mia Società, è quello di spopolare le vie di ladroncelli e di scapestrati, di educarli alla consolazione delle famiglie, ad onore della patria, di farne degli uomini che salveranno le vostre sostanze, mentre un giorno ve le chiederebbero con la rivoltella alla mano. E tutto ciò lo si compie mediante la vostra carità; ma solo a Dio tutto l'onore e tutta la gloria!

Quindi, con enfasi speciale, esclamò:

- Fortunata e benedetta Barcellona! Parlerò di te e delle tue virtù in tutta Italia; farò vedere questa medaglia all'Augusto Pontefice, e gli dirò come e quanto qui sia amata e riverita la Santità sua!

- Fortunata e benedetta Barcellona, che sei tanto attaccata alla Religione dei tuoi avi e tanto prodiga di beneficenza verso i bisognosi!

Un delirio di applausi e di acclamazioni si sprigionò da quei cuori inteneriti e deliranti.

Si fece, seduta stante, una colletta a favore delle opere Salesiane.

 

Infine, diede a tutti la sua benedizione. Qui lo spettacolo fu dei più commoventi. Quella folla di signori e signore si prostrò in ginocchio, e poi l'assediarono per baciargli il vestito e la mano; ci volle un'ora e mezza prima che potesse giungere alla porta, ed arrivò a casa molto tardi, stanco e spossato, ma pure ilare, e andava esclamando per scemare alquanto il suo onore:

- Quam parva sapientia regitur mundus! (Quanto poco ci vuole ad ottenere l'ammirazione del mondo).

 

13. LE ARGUZIE DI DON BOSCO.

Abbiam detto fin da principio che don Bosco era di carattere assai faceto e arguto. Lo stesso si può dire di sua madre. I fatterelli seguenti ne sono una splendida prova.

Il bastone della polenta.

Nei primordi del suo Oratorio, per mancanza di locali, era costretto a radunare in cucina i vari gruppi dei suoi giovani studenti e artigiani. In un canto, seduti su un tavolo, c'erano i sarti che rattoppavano; più in là, ad un deschetto, i calzolai che martellavano; poi i legatori che cucivano i libri; dall'altra parte, gli studenti che svolgevano i loro compiti. Don Bosco era maestro in tutto, insegnava anche il canto e la musica, ed aiutava la mamma nel mestiere di cuoco.

Un giorno, mentre rimestava la polenta, aveva radunato attorno al focolare i cantori ai quali insegnava una canzone per Natale. A un certo punto, accortosi che precipitavano alquanto, si volge ed alzando il bastone della polenta, prese con quello a segnare il tempo.

Quell'atto improvviso e repentino, quel bastone giallo e fumante, quegli spruzzi bollenti che piovevano sulle mani e sulla faccia dei cantori in erba, fecero sbellicare dalle risa.

 

Peccato che non fossero ancora di moda le istantanee e le cartoline illustrate.

Quando troveremo un bue.

Quelle polente però e quelle altre brode di fagioli e di castagne secche, non sempre stuzzicavano l'appetito dei suoi giovani, e talora succedeva che or l'uno or l'altro facessero il niffolo.

Allora don Bosco, da tenero papà, li andava incoraggiando con le sue trovate amene, e un giorno disse ad uno dei maggiormente schifiltosi:

- Su, Pin, mangia di buona voglia; quando troveremo un bue che non sia di nessuno, lo macelleremo e faremo delle belle scorpacciate di costolette arrosto.

Tanto bastò perché il ragazzo, rassegnato e festoso, mangiasse allegramente.

Perché quel chiodo?!

Ogni volta che gli capitava di incontrarsi con qualche suo allievo o conoscente che, per trascuranza o per inavvertenza, non lo salutava, faceva suo il fatto attribuito a san Filippo Neri, ossia lo fermava e gli diceva:

- Amico, perché quel chiodo sul cappello? L'amico prendeva in mano il cappello, e girandolo e rigirandolo, rispondeva alquanto smarrito:

- Quale chiodo?

Il Santo, sorridente e buono:

- Scusa, sai!... mi pareva di vedere un chiodo che ti fermasse il cappello, perché, passando, non mi salutavi.

Tanto bastava per cattivarsi la benevolenza di tutti perché tutti, passandogli innanzi, lo salutassero con premura, affinché non vedesse il chiodo sul cappello.

 

I numeri del lotto.

Un giorno vennero due signori a domandargli i numeri del lotto. Il Santo, non avendo potuto scansarsi alle premurose insistenze, disse loro:

- Ebbene, giocate questi numeri: 10-5-14. 

Quelli, contenti, se ne andavano; ma don Bosco soggiunse:

- Non ne volete la spiegazione?

- Non c'è bisogno!

- Ma se non ve la do, non saprete giocarli.

- Ce la dia dunque.

- Sentite bene: il numero 10 sono i dieci comandamenti di Dio. Il numero 5 sono i cinque precetti della Chiesa. Il numero 14 sono le quattordici opere di misericordia corporali e spirituali. Giocateli davvero, e farete fortuna.

Grosso salame.

Trovandosi un giorno con un buon numero di superiori e di ragazzi, domandò ad uno di questi:

- Delle cose che hai veduto in vita tua qual è che ti è piaciuta di più?

Il ragazzo rispose prontamente:

- Don Bosco!

Tutti applaudirono. Il Santo allora, sorridendo, raccontò:

- Nell'ultima esposizione di Torino, vennero a visitare quelle grandi novità dei contadini del mio paese. Entrando nei diversi reparti, tutti facevano le più grandi meraviglie delle cose colà esposte. Solo uno se ne stava sempre zitto e indifferente.

Ognuno pensava fra sé: possibile che, fra tanti oggetti così vari e meravigliosi, nessuno abbia a piacergli? Continuando pertanto il giro, arrivarono ad una sala

 

ove, tra le altre cose, era esposto un grosso e magnifico salame. A tal vista, quel tale tosto gridò:

- Oh!... questo si che è proprio bello!!!

A quel punto tutti i ragazzi e i superiori capirono che il Santo, con quell'allusione, aveva voluto ridimensionare, scherzandoci su, l'ammirazione di quel ragazzo per lui.

«Cerco il dolce!»

Altra volta, in casa di signori, gli fu portata una tazza di caffè, nella quale, per sbaglio, avevano messo del sale inglese invece dello zucchero. Egli la centellinò con apparente buon gusto; poi indugiando sugli ultimi sorsi, esclamò:

- Cercavo il «dulcis in fundo» (dopo l'amaro il dolce), ma non lo trovo!

Chiarita la cosa, le risate furono molte, e molte le scuse.

Buon granatiere.

In uno degli ultimi suoi anni, si recò a fargli visita una signora la quale, vedendo lo sforzo che faceva per passare da un posto ad un altro del suo studio, cercò di sorreggerlo per un braccio. Ma egli, in tono risoluto e faceto, si schermì esclamando:

- Come!... un granatiere come don Bosco... crede ella che abbia bisogno di farsi sorreggere? questo mai.

E fece da sé, raddoppiando la sua energia.

 

Pelo e contropelo.

Entrando un giorno da un barbiere per farsi radere la barba, s'accorse che, invece del barbiere, vi era una barbiera.

Esce allora di botto esclamando tutto ridente:

- Non sia mai che una donna mi pigli pel naso, e mi faccia il pelo e il contropelo!

La bellezza di 400 lire.

Un giorno, trovandosi ad una mensa imbandita di molte e squisitissime vivande, giunto al terzo piatto, cessò di mangiare. Accortosene, il padrone di casa gli disse:

- Lei, don Bosco, perché non mangia?... Non si sente bene?

- Sto benissimo - rispose il Santo - ma dinanzi a tanta abbondanza, penso ai miei giovani, i quali stentano a sfamarsi.

Uno dei convitati si alza e dice:

- Giusto! Ebbene, pensiamo anche ai suoi giovani. Prende un piatto, e va in giro per una colletta, che fruttò la bellezza di 400 lire.

Un peso sul cuore.

Altra volta, trovandosi a pranzo dal banchiere Cotta, ad un certo punto si rannuvolò, ed avendogli il banchiere domandato se avesse qualche fastidio, rispose:

- Ho qui sul cuore un certo peso di parecchie migliaia di lire che lei mi ha dato ad imprestito, e che non saprei come restituire.

- Stia di buon umore - soggiunse il banchiere; - fra poco si porterà il caffè, e questo le aggiusterà lo stomaco.

 

Difatti, venuto il caffè, trovò nel piattino la ricevuta firmata a saldo di tutti i debiti che aveva con la banca.

Farei di cappello al diavolo...

Interrogato come riuscisse a farsela con tutti, nobili e signori, parlamentari e Re, rispose:

- Guardate, miei cari, io non avrei difficoltà a fare di cappello al diavolo, purché mi lasciasse passare per andare a salvare un'anima.

Tant'è... siamo di carnevale.

Quando si recò la prima volta in Francia, dovendo fermarsi colà per parecchio tempo, fu consigliato di vestirsi secondo l'uso dei preti di quel paese.

Egli acconsentì, e pavoneggiandosi con quel cappello e con quel rabat (colletto) alla francese, andava esclamando:

- Già!... quest'oggi incomincia il carnevale e bisogna fare qualcosa di straordinario!

Chi riderà sarà il demonio.

Un giorno, trovandosi a conversare con parecchi dei suoi figli, questi fecero cadere il discorso sulla sua morte e sul compianto generale che ne sarebbe seguito.

Egli, con tutta serenità, rispose:

- Ebbene, se morisse don Bosco, la gente direbbe: «poverino, è morto anche lui!...» e basta. Chi farebbe gran festa e riderebbe davvero, sarebbe il demonio, il quale direbbe: «È finalmente scomparso colui che mi faceva gran guerra e mi rubava le anime!».

 

Bertoldo, Bertoldino...

Caterina Daghero, seconda superiora generale delle Figlie di Maria Ausiliatrice, accompagnò un giorno dal Santo una suora che soffriva di scrupoli, ed era di tormento a sé ed agli altri.

Don Bosco l'ascoltò pazientemente; poi, chiamata la superiora, le disse:

- Conoscete il libro di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno?

- No, Padre, non lo conosco.

- Ebbene, cercatelo, compratelo e, quando vedete questa figliola pensierosa, fategliene leggere qualche pagina. Lei non ha bisogno che di distrarsi e stare allegra.

O così... o niente pranzo!...

Nel 1884, essendo ospite del Vescovo di Pinerolo, un giorno quel prelato dovette assentarsi e lasciarlo solo. Giunta l'ora del pranzo, don Bosco chiamò il cameriere e il giardiniere e li invitò gentilmente a sedere a mensa con sé.

Quelli si profondevano in mille scuse, ed egli:

- O così... o niente pranzo!. Forse che non dovremo stare insieme per sempre nel santo Paradiso?

Gianduieide.

Nel carnevale del 1869, che in Torino si festeggiava nel modo più decoroso, signorile e gaio, ottenne dal Municipio di porre un banco di vendita in piazza Castello negli ultimi giorni dei festeggiamenti.

Il banco dell'Oratorio fu tra i più belli e meglio forniti, specialmente di libri ameni e divertenti.

I venditori erano vestiti in costume di Gianduia, e

 

attiravano un gran numero di persone, spacciando a caro prezzo le loro mercanzie a tutta la nobiltà di Torino.

Gli affari furono eccellenti, e quando la contessa di Camburzano, il giorno dopo, scrisse a don Bosco congratulandosi con lui della idea veramente singolare, di cui solo i santi sanno farsi autori, egli rispondeva:

- Come don Bosco è per tutti, così deve approfittare di tutto anche col fare il «Gianduia» per sfamare i suoi giovani e tirar innanzi le sue opere.

Argenteria che scompare.

Don Bosco, come già si disse, era molto spiritoso e faceto. Trovandosi un giorno a pranzo dal Barone Martin, in Francia, ebbe modo d'osservare che i commensali ammiravano assai un ricco servizio da tavola, tutto in argento finemente cesellato.

Prima di prendere commiato, vedendo che il signor Barone, forse per dimenticanza, o forse per riguardo ai forestieri, non gli faceva la solita offerta per le sue opere, ricorse a quest'astuzia. Si accostò al tavolo sul quale stava esposto quel servizio e prese ad insaccare nella sua valigetta. I baroni e gli altri stavano a vedere come andasse a finire quello scherzo; ed egli, compiuta l'operazione, si volta al Barone e chiede:

- Signor Barone, quanto potrà valere questo servizio?

- Se si volesse comprare nuovo - risponde il padrone - ci vorrebbero dieci mila franchi; ma a rivenderlo, se ne ritirerebbero forse solo mille.

- Ebbene - soggiunse don Bosco tutto serio - piuttosto che rivenderlo ad altri, lo rimetto a lei; mi dia mille lire per i miei orfanelli.

Fu uno scroscio di risa generali. E il Barone sborsò volentieri le mille lire.

 

Restituitemi il mio orologio.

Le sue sante arguzie ed amenità se le permetteva anche con persone di riguardo, quando fosse stato necessario. A Parigi, recatosi a far visita ad un ricco signore, si sentì rivolgere queste parole un po' adulatorie:

- Sento raccontare di voi tante meraviglie: sarei curioso di vederne con i miei occhi qualcuna.

- Ben volentieri - rispose il Santo. - Anche subito, se volete.

- Sì, sì! - esclamò l'altro.

Don Bosco divagò alquanto, e dopo pochi istanti, soggiunse:

- Eccomi dunque pronto; la prego di osservare l'ora precisa.

Quel signore fa per cavar di tasca l'orologio, e non lo trova più e allora prese a gridare:

- Datemi il mio orologio: ho prove sufficienti della vostra santità.

- Oh no! - disse don Bosco - l'orologio non ve lo do, se non mi date il prezzo equivalente per i miei ragazzi.

- Ma il mio orologio costa 300 lire.

- Bene, bene, datemi 300 lire, ed eccovi l'orologio. Il signore regalò non 300, ma 500 lire.

Uovo e gallina.

Un giorno era in conversazione con due medici, due avvocati e un professore. Costoro si erano messi in testa di provare a don Bosco che l'esistenza di Dio è impossibile.

Don Bosco li lasciò sfogare per bene, e quando ebbero sciorinato tutte le loro ragioni e prove, raccontò loro, a modo di scherzo, la storia dell'uovo e della gallina, e interrogò:

- Ora a voi! È esistito prima l'uovo o la gallina?

 

- Oh! certamente fu prima la gallina - rispose subito uno dei medici, mentre gli altri approvarono.

- E donde nacque la gallina?

- Dall'uovo - proruppero - insieme.

- Ma chi fece quel primo uovo da cui nacque la prima gallina?

Allora tutti tacquero, giacché più nessuno sapeva rispondere.

- Dite pure - soggiunse il Santo; - fu dunque prima l'uovo o la gallina?

Dopo un istante di silenzio, l'altro medico esclamò:

- Al diavolo l'uovo e la gallina!... come si fa a rispondere?

Allora don Bosco soggiunse:

- Piuttosto che al diavolo, io darei uovo e gallina al cuoco che li cucinasse per farci star allegri; ma voi, signori miei, andate pur dall'uovo alla gallina finché volete, e dovrete alfin conchiudere che vi è un Dio che, come ha creato tutte le cose, ha anche creato l'uovo da cui venne poi la gallina, o la gallina da cui venne poi l'uovo. E così andiamo pure di figlio in padre fin che ci piace; ma dobbiamo terminare ad un uomo creato da Dio, cioè con Adamo che fu il primo uomo.

Tutti dovettero approvare, o almeno tacere, e congratularsi col Santo che li aveva così bellamente e spiritosamente messi nel sacco.

Curiosità appagata.

In un viaggio a Parigi, si recò a far visita ad un signore molto danaroso, ma non troppo benefico né largo in offerte.

Costui, desideroso di sapere il fine per cui il Santo si fosse recato a Parigi, gli disse:

- Signor Abate, c'è chi dice che voi siete venuto a

 

Parigi per far conoscere le vostre opere; chi per fondare un Istituto; chi per fini politici...

- Signore - rispose il Santo - sapete che cos'è che spinge i lupi ad addentrarsi negli abitati? È la fame, la sola fame! Orbene, è appunto per togliere la fame ai miei orfanelli, e provvedere loro il necessario, che sono venuto a Parigi. Qui vi sono molte persone caritatevoli e generose, come voi, dalle quali spero un'abbondante carità.

- Ho capito! - rispose quel tale che aveva capito la lezione; e, non volendo smentire don Bosco, gli lasciò una bella elemosina, che non fu l'ultima.

Con una signora bisbetica.

Una signora assai caritatevole, ma bisbetica, un giorno invitò il Santo a pranzo.

Don Bosco promise, ma poi non potè tenere l'invito.

Quella signora, indispettita per la mancata parola, gli scrisse una lettera di fuoco nella quale finiva col protestare che non avrebbe più dato soccorso alcuno all'Oratorio.

Il Santo attese qualche giorno per lasciar calmare la bufera, poi si recò in persona da lei, e coi più bei modi le disse:

- Signora, sono venuto a riportarle la sua lettera, perché mi spiacerebbe se si conservasse per il giorno del giudizio.

La signora, a quelle parole dette fra il serio e il faceto, si rasserenò all'istante e, fatta la pace, riprese a mandare le sue offerte.

Dieci lire per confessarsi.

Un giorno si presentò a don Bosco un individuo, chiedendo di confessarsi.

 

Il Santo subito l'accolse con premura, e gli domandò:

- Quanto tempo è che non vi confessate?

- Sono dieci anni.

- Allora - continuò il Santo - datemi dieci lire.

- Ma perché?! ho sempre sentito dire che per confessarsi non si paga nulla.

- E se per confessarsi non si paga nulla perché mai voi avete aspettato dieci anni?

Quel tale alzò gli occhi confuso, e vedendo don Bosco sorridere, esclamò:

- Ha ragione, Padre; d'ora innanzi, non sarà più così.

Dunque io sono un burlone.

Questa gli capitò a Parigi. Per la moltitudine di gente che desiderava parlargli o semplicemente vederlo, spesso accadeva che la casa ove pigliava alloggio si gremiva talmente da impedirne l'entrata.

Una mattina, dopo Messa, essendosi alquanto attardato in sacrestia, non gli fu più possibile aprirsi il passo. Alle sue preghiere di lasciarlo passare per poter dare le udienze, andavano rispondendo:

- Rieur! (burlone). Voi ci volete ingannare.

- No, no!... Voi non siete don Bosco... Don Bosco è là, e noi vogliamo essere i primi.

Il Santo, vedendo inutile ogni insistenza, pensò bene di andar in cerca di un'altra entrata per la porticina del giardino, e man mano che cotesti increduli si presentavano poi a lui in udienza, diceva loro scherzosamente:

- Dunque, io sono un burlone?! Orbene, fatemi un'offerta più generosa in compenso della figura patita.

E fioccavano i biglietti e le monete.

 

La contessa... giovane.

Don Bosco aveva più volte udito parlare di una contessa, persona molto ricca e molto religiosa, e desiderava farne conoscenza, ma le circostanze gli avevano sempre impedito di stringere relazione.

Sapeva che costei aveva una innocua debolezza: si piccava di essere giovane, e si offendeva acerbamente che qualcuno accennasse alla sua età avanzata. E siccome aveva una figlia che oltrepassava i trent'anni e che la gente chiama la contessa giovane, era per lei insopportabile essere chiamata la Contessa vecchia.

Un giorno il Santo si incontrò all'improvviso con questa Contessa, la quale si fece a dirgli:

- Scusi, sarebbe lei don Bosco?

- Per servirla, signora! E da chi ho l'onore di essere interrogato?

- Sono la Contessa X...

Don Bosco colse a volo l'occasione, e subito soggiunse:

- Oh, la contessa X! Son proprio felice di questo incontro. E la signora Contessa sua madre come sta?

- Mia madre?... È da un pezzo che il Signore l'ha presa con sé.

- Ma come? Sento sempre dire che sta benissimo e che è sempre giovane ed arzilla.

- Guardi, don Bosco, lei forse prende abbaglio... mi scambia con mia figlia. Io sono la Contessa Madre!

- Perdoni, signora Contessa, il mio sbaglio è pienamente scusabile, giacché la trovo così giovanile... Mi congratulo con lei!

- Che vuole! - soggiunse la contessa sorridendo con visibile compiacenza - mi mantengo così perché non ho mai commesso disordini in vita mia.

- Ebbene - concluse don Bosco - io me ne rallegro con lei, e pregherò il Signore che la conservi molti anni ancora.

- Grazie, don Bosco, accetto l'augurio, e lei accetti

 

intanto questa piccola offerta per le sue opere; d'ora innanzi, procurerò di fare di più.

Erano due biglietti rossi (da 100 lire) che metteva furtivamente nelle mani di don Bosco.

Se ne accorgerà.

Abbiamo già raccontato parecchi aneddoti circa la forza di muscoli del nostro Santo.

Da giovane non trovava difficoltà a stritolare fra due dita noci, nocciole e noccioli di pesca e di albicocche, e spezzava come fuscelli le verghe di ferro che servono comunemente di ringhiera ai balconi. Anche nei suoi ultimi anni di vita, e dopo molte malattie, poteva far vedere di avere, di tale forza, quasi nulla perduto.

Nel 1884, trovandosi il Santo a letto ammalato, il medico curante, vedendolo assai depresso, volle misurare la forza dell'infermo e presentandogli il braccio, gli disse:

- Don Bosco, mi stringa il polso con tutta la forza che può.

Il Santo lo guardò con aria di meraviglia e insieme di compatimento, e rispose:

- Badi, dottore, che se ne accorgerà!

- Non abbia timore di farmi male.

Don Bosco accondiscese, e prese a stringere; il dottore, dopo aver resistito alquanto, mandò un grido e, svincolandosi, esclamò:

- Basta, basta! l'esperimento è fatto. Che branche di ferro!

Allora gli presentò il dinamometro (che è l'istrumento col quale si misurano le forze) e don Bosco lo pregò di provarsi prima lui, che poté raggiungere i 43 gradi. Lo pregò ancora di passarlo al sacerdote che lo assisteva. Questi, stringendo con tutta la vigoria, raggiunse il 45.

- Adesso mi provo io - soggiunse il Santo. E presolo, raggiunse i 60, ossia il massimo.

 

- Che tenaglie!... - esclamò ancora il dottore; - egli malato è più forte di noi sani.

Cercatemi due mantici.

Questo spirito arguto lo conservò fino agli ultimi suoi giorni, quando, ai superiori ed agli infermieri che l'assistevano e lo compassionavano essendogli il respiro molto pesante, disse ancora quasi celiando:

- Andate in cerca di un fabbricante di mantici, che venga ad accomodare i miei.

E si sforzava di ridere per temperare la comune mestizia di quelle ore affannose.

Questa serenità perenne, che l'accompagnò nelle vicende liete e tristi per tutta la vita, l'ha ancora accompagnato certamente dinanzi a Dio nell'eterno Paradiso!

Bo...bo...Ia...ia... fa boia!

Anche la mamma di don Bosco era arguta e facile alle amene trovate. Ancora quindicenne, il padre la lasciò un giorno alla custodia del granoturco disteso nell'aia al sole.

In quel tempo, bivaccavano nei dintorni dei soldati tedeschi, che lasciavano liberi alla pastura i loro cavalli. Questi, attratti dall'odore del granoturco, si accostarono all'aia di Margherita e presero a mangiare tranquillamente.

Margherita grida ai cavalli, prega i soldati di richiamarli; ma i cavalli non se ne danno per inteso, ed i soldati, burlandosi di lei, rispondono in tedesco:

- Bo...bo...Ia...ia...! Ella, indispettita, grida:

- Bo...ia fa boia! e voi siete dei boia, che lasciate divorare tutto il nostro raccolto.

E armatasi di una lunga pertica, prese coraggiosamente a battere i cavalli e cacciarli lontano.

 

14. CHIAROVEGGENZA E DOTI METAPSICHICHE?

Conosce i segreti.

Nel maggio-giugno 1844 si trovava ricoverata all'ospedale di San Giovanni una povera donna tisica all'ultimo stadio. La sua vita era stata deplorevole, e si temeva che finisse con una morte disperata.

Invischiata in mille tresche, da molto tempo non si era più accostata ai Sacramenti, e dava in alte smanie quando il cappellano o le suore l'invitavano a confessarsi. Anche don Giuseppe Cafasso era stato respinto, e questi pregò don Bosco di interessarsene lui.

Egli accorre; si mette a parlare di cose indifferenti, e infine le fa questa dichiarazione:

- A nome di Dio, vi dico che, nella sua misericordia, Egli vi concede ancora poche ore di vita perché possiate pensare all'anima vostra. Fate presto a confessarvi e ricevere gli altri sacramenti. Domani sarete all'eternità.

Queste parole riempirono di tanto terrore l'anima di quella infelice, che, richiamato il Santo, si confessò in quella stessa sera, morì rassegnata e convertita.

Predice l'avvenire.

Erano passati pochi giorni dal fatto suddetto, quando una ricca signora, moglie dell'ambasciatore del Porto

 

gallo in Torino, dovendo mettersi in viaggio, pensò di sistemare prima le cose dell'anima sua, e si recò a tal fine nella chiesa di San Francesco d'Assisi, dove don Bosco era vicecurato.

Ella non conosceva il Santo, e neppure don Bosco si era mai incontrato con lei. Veduto un prete che, inginocchiato presso un confessionale, pregava con aria molto raccolta, si presentò a confessarsi da lui.

Don Bosco l'ascoltò, e le consigliò una certa elemosina da farsi in quello stesso giorno.

- Padre, non posso!

- E come non può, dal momento che possiede tante ricchezze?

La signora rimase sbalordita nel sentire come quel sacerdote avesse conosciuto la sua posizione sociale, mentre era certa di non essersi data in nessun modo a conoscere, e rispose:

- Padre, non posso farla questa penitenza, perché sto per mettermi in viaggio.

- Ebbene, faccia quest'altra: preghi il suo Angelo Custode che la preservi da ogni male in ciò che le accadrà quest'oggi.

La signora restò ancora più colpita. Ritornata a casa, raccontò la cosa ai familiari; fece con loro la preghiera all'Angelo Custode, e salì in vettura con la figlia e con una cameriera.

Fatta poca strada, ecco che i cavalli si adombrano e si slanciano a corsa sfrenata. Il cocchiere è sbalzato di cassetta; la carrozza ribalta, e la signora si trova col capo a terra, mentre i cavalli continuano a precipizio.

In un attimo di lucidità, ella invoca ad alta voce il suo Angelo Custode, ed i cavalli s'arrestano nell'istante.

Accorre gente a sollevare i caduti, e con meraviglia grande, trovano che nessuno s'era fatto il più piccolo male.

La nobile signora, ritornata a Torino, si recò nuovamente alla chiesa di San Francesco d'Assisi; volle sapere

 

chi era quel prete, lo volle ringraziare, e da quel momento divenne fervente cooperatrice salesiana.

Chi glielo ha detto?

Un giorno si presentò a confessarsi una persona che, per soverchia timidità (o paura), più che manifestare i propri peccati, cercava di infrascarli e scusarli.

Il Santo, che leggeva nell'anima dei suoi penitenti, lo lasciò fare alquanto, ma poi, interrompendolo, gli disse con bel garbo:

- Scusi, è venuto per accusarsi o per scusarsi?

- Oh, padre! per accusarmi!

- Dunque, si accusi e dica senz'altro: «Ho pensato così e così; ho fatto così e così; ne è avvenuto questo e questo». - E gli disse chiare e tonde tutte le sue miserie.

Quel poveretto, confuso, ma arcicontento, baciandogli anche le mani, gli domandò:

- Ma come ha fatto a sapere tutte queste cose?... Chi glielo ha detto?

- Me lo ha detto la sua confusione e paura; o meglio, gliel'ho letto nel cuore. Perdoni, sa, se l'ho indovinato; non volevo che facesse un sacrilegio e andasse all'inferno, giacché «chi si accusa, Dio lo scusa; chi si scusa, Dio lo accusa».

Come fa a saperlo?

Il Conte di Camburzano, deputato al Parlamento e grande ammiratore di don Bosco, trovandosi un giorno in una conversazione con personalità politiche, prese a raccontare le meraviglie di questo santo sacerdote.

Quasi tutti ascoltavano con aria di sogghigno, ed una signora più evoluta esclamò:

- Vorrei vederlo questo uomo miracoloso, e pro

 

vare se sa dirmi «come mi trovo in coscienza». Allora crederò quanto si dice di lui.

Tutti applaudirono. Venne stabilito di farne la prova, e la signora in parola scrisse sull'istante a don Bosco.

Il Santo, con la solita premura e consueta semplicità, rispose a volta di corriere.

- La signora potrebbe starsene tranquilla in coscienza, quando ritornasse a suo marito e rimediasse alle sue confessioni da vent'anni addietro.

Quella signora era affatto sconosciuta a don Bosco, e tutte le persone di sua conoscenza la credevano vedova.

A tale risposta, ella andava ripetendo: «Come fa a saperlo?...» e non poteva darsene pace.

Ho la coscienza in regola?

In uno dei suoi viaggi a Nizza Marittima, fu invitato da monsignor Postel. Dopo una lunga conversazione col Santo, monsignore venne fuori con questa domanda:

- Don Bosco, mi dica se ho la coscienza in regola col Signore.

Il servo di Dio lo guardò con sorpresa, e fece per andarsene. Ma il prelato corre alla porta, la chiude a due giri, si pone la chiave in tasca, e ripete:

- Carissimo don Bosco, noi non usciremo di qua, finché io non abbia saputo come io sto col Signore.

A questo tono risoluto e fermo, don Bosco diede un lungo sospiro, raccolto in se stesso meditò un istante; poi, alzando gli occhi in faccia a monsignore, disse con infinita compiacenza e spiccando chiaramente le parole:

- Voi siete in stato di grazia.

- Oh don Bosco! ma io temo che la sola sua benignità per me lo faccia parlare in questo modo.

- Niente benignità; questa è la pura verità.

- Ma come fa a saperlo?

- Le ho letto nel cuore!

E si abbracciarono teneramente.

 

Un prete di polenta...

Un giorno si presenta a don Bosco un operaio che gli dice di aver cinque bambini ai quali dal giorno antecedente non aveva potuto provvedere il cibo.

Il Santo lo guardò con aria di compassione; poi, fruga di qua, fruga di là, finalmente trovò quattro soldi, e glieli diede accompagnandoli con una sua benedizione.

Partitosi costui, don Bosco si volse all'amico Giuseppe Brosio, detto il Bersagliere, che si trovava presente, e disse:

- Poveretto! Se avessi avuto cento lire gliele avrei date tutte, perché mi ha detto la verità.

- E lei come fa a saperlo, se non lo conosce?

- Anzi, ti dico di più - continuò don Bosco. - Costui è sincero e leale non solo, ma laborioso e affezionato alla famiglia; fu ridotto alla miseria dalla sola sventura.

- Ma come fa a sapere tutto questo?

Allora don Bosco, prendendogli una mano e stringendola forte, esclamò:

- Gli ho letto nel cuore!

Combinazione volle che, dopo qualche tempo, Giuseppe Brosio incontrasse per Torino quell'uomo al quale il Santo aveva dato i quattro soldi. Costui, riconosciutolo, gli disse:

- Con quei quattro soldi ho comperato della farina di granoturco ed ho fatto la polenta ai miei bambini. Ma... polenta miracolosa!... mentre poteva bastare appena per due, ne mangiammo in sette, e tutti a sazietà, tanto che fino all'indomani nessuno sentì più fame. Don Bosco è un santo, e noi in casa lo chiamiamo il santo della polenta. Ma non basta! Dopo quella sua benedizione, io ho trovato subito lavoro; i miei affari migliorarono.

Quando il Bersagliere raccontò a don Bosco quell'incontro e quel discorso, questi esclamò:

- Son proprio un prete di polenta!

 

Otis-Botis-Pia-Totis.

La sera del 7 febbraio 1865, don Bosco raccontava ai suoi giovani il fatto seguente.

Un ricco signore era ammalato da più di due mesi; la malattia andava aggravandosi, ed un suo amico, buon cristiano, gli fece notare che sarebbe stato cosa prudente chiamare il prete.

- Oh, no! - rispose l'ammalato. - Confessarmi? No! Non voglio che venga nessun prete.

- E se venisse don Bosco?

- Don Bosco?! Veramente, don Bosco lo vedrei volentieri. Ne raccontano tante di lui. Venga pure, ma ad un patto: che non mi parli di confessione.

L'infermo si mostrò contentissimo della mia visita, ma, prego, mi disse tosto, mi parli di storia, di politica, di mille cose, ma non di religione né di confessione.

Come desidera, signore - risposi io. E presi a raccontare storielle amene e burlette ridicole, rincarando ognor più la dose, quanto più vedevo che il malato vi pigliava gusto. A un certo punto, non potendone proprio più, mi pregò di cessare, perché l'avrei fatto morire di riso prima che di malattia.

Allora gli dissi:

- Bene, parliamo dunque di cose serie.

- Sia pure, ma ricordi, don Bosco, che non voglio sentire di confessione; questo è il patto che le feci.

- Ma signore, vuole che non le parli di confessione, e sempre me la nomina: è segno che le sta a cuore! Comunque, io non la confesserò: le parlerò solo della sua vita passata. - E cominciai a descrivergli minutamente lo stato lacrimevole della sua coscienza.

L'infermo mi ascoltò con tutta attenzione e quando ebbi finito, mi disse:

- Ma, caro don Bosco, come ha fatto a conoscere così bene tutte le mie azioni?

Ed io risposi:

 

- Veda, signore, io ho quattro parole con le quali leggo nell'anima a chi voglio.

- Quali sono queste parole?

- Sono: Otis-Botis-Pia-Totis.

Il malato spalancò tanto d'occhi, e soggiunse:

- Dunque è inutile che io mi confessi poiché lei sa tutto: la confessione è bell'e fatta.

- Sì, è fatta ed ella non avrà difficoltà a dichiararsi colpevole di questi peccati, a pentirsene, e fare un proponimento fermo di cambiare vita, se al Signore piacerà conservargliela ancora.

- Nessuna difficoltà; anzi, ne sarò lietissimo.

Orecchie lunghe.

Viaggiando in treno diretto a Sampierdarena, gli capitò di dover prender posto di fronte a due Suore della carità di san Vincenzo de' Paoli.

Alla stazione di Asti parecchie persone si presentarono allo sportello a salutarlo, e quelle suore capirono di trovarsi in faccia a don Bosco, del quale sentivano tanto parlare, ma che non avevano mai veduto.

Grande fu la loro gioia nel vederlo così da vicino; e una di esse, più ardita, l'andava fissando alla sfuggita. E pensava fra sé: «Don Bosco! che sia proprio lui? Giudicandolo da quanto se ne dice, io me lo immaginavo alto nella persona, tarchiato, di aspetto imponente, mentre è un prete da nulla. E poi... ha le orecchie così lunghe...».

Ad un tratto don Bosco si volta al confratello che l'accompagnava, e gli dice in modo da essere sentito anche dalle due suore:

- Senti: una volta mi saltò il ticchio di farmi fare la fotografia; ma quando il fotografo mi presentò sei piccole copie, dopo averle alquanto osservate, esclamai: «Oh!... credevo di essere una bella persona, alto, tarchiato, di aspetto imponente, ed invece mi avvedo di essere un

 

prete da nulla... e poi... queste orecchie così lunghe!».

La suorina allibì; ma don Bosco, per distrarla, le domandò sorridendo:

- Suorina, dove va?

- In Sardegna.

- E in Sardegna che cosa farà?

- Sono destinata ad un orfanotrofio femminile.

- Ohibò! lei, invece, deve occuparsi dei ragazzi.

- Che dice mai?!

- Non le piace forse?

- No.

- Eppure sarà così, e coi birichini farà tanto del bene.

Giunto a Sampierdarena, don Bosco discese, e voltandosi ancora una volta alla suorina, le disse:

- Suor Brambilla, lavori poi volentieri per i ragazzi. Fu profeta. Suor Brambilla, come scrisse poi lei stessa al Santo appena giunta a Sassari, si sentì cambiata di situazione, e fu addetta all'Ospizio maschile.

Magnetismo spurio.

A Torino in via santa Teresa uno pseudo dottore, tale Giurio, teneva gabinetto di magnetismo in compagnia di una chiaroveggente chiamata Brancani, e poiché molti infermi di malattie nervose o incurabili mandavano colà effetti di loro uso personale, esaminando i quali essi diagnosticavano le malattie, davano consigli e prescrivevano rimedi, don Bosco volle sfatare questa credulità dannosa e pericolosa.

Vi si presentò con due compagni. Trovò la sala piena di spettatori. Dopo aver assistito a parecchie esperienze, chiese al dottore di essere messo in comunicazione magnetica con la veggente.

Ad un cenno del dottore, il Santo incominciò a interrogarla; ma le risposte della sonnambula erano stram

 

palate ed inconcludenti. Egli trasse allora di tasca una ciocca di capelli e domandò:

- Di chi sono questi capelli?

- Povero giovane! - mormorò la donna - quanto devi soffrire!

- La persona a cui appartengono questi capelli - rispose don Bosco - non è un giovane. Mi dica almeno dove abita.

- Abita... abita giù, giù... in via della Zecca.

- Non è in via della Zecca.

- Abita più giù... più giù al di là del Po...

- Niente affatto, non abita da quella parte; mi dica qual è la sua malattia.

- Subito. Oh, quante sofferenze... povero infelice!

- Ma insomma, qual è il suo male? - incalzò don Bosco.

- Poverino!... è ammalato di epilessia.

- Ma che!... non fu mai epilettico.

A queste punto la donna, prima impacciata, divenne furiosa e ruppe in parole così oscene, che provocarono tumulto e indignazione in tutti, e fu sciolta l'adunanza.

Tutta quella gente, uscendo sconcertata, si compiaceva con don Bosco che aveva loro aperto gli occhi.

La sonnambula.

Un'altra volta, avendo saputo che in piazza Castello un alienista attirava la gente dando loro spettacolo di rivelazioni e predizioni per mezzo di una sonnambula, facendo persino leggere delle lettere chiuse, vi si recò anche lui, tenendo in mano una lettera sigillata.

- Venga avanti, Reverendo - gridò l'alienista. Don Bosco avanzò fin là dove sedeva una donna con gli occhi bendati.

- Che cosa comanda, Reverendo? - chiese il ciarlatano.

 

- Desidererei sapere il contenuto di questa lettera - rispose don Bosco alzandola alla vista di tutti.

- Sarà soddisfatto.

E rivolto alla sonnambula, le comandò di leggere. La donna esitò giacché il gioco era imprevisto; ma, costretta a parlare, esclamò:

- Vedo... vedo tutto chiaro e preciso!

- E che cosa vedete?

- Non posso dirlo.

- Perché non potete dirlo?

- Perché c'è il segreto.

- Quale segreto?

- Il segreto del sigillo.

- Si capisce, signori - spiegò l'alienista alla gente e a don Bosco. - Ha ragione la sonnambula; il segreto delle lettere sigillate non può essere violato.

- Presto fatto - soggiunse don Bosco rompendo il sigillo.

- Così va bene, ed ora leggete - replicò il ciarlatano alla donna.

- Non posso!

- Ma perché non potete?

- Perché non posso e non voglio operare dinanzi a gente che appartiene all'altare.

Allora tutta quella gente se ne andò fischiando la sonnambula e il ciarlatano, ed elogiando il Santo, che, anche qui, aveva loro aperto gli occhi.

I calci dell'ingegnere.

Nel 1869 don Bosco viaggiava in treno da Firenze a Torino. C'erano nel suo scompartimento alcuni signori che discorrevano delle vicende di quei giorni; e la presenza di un prete svegliò in loro le antipatie che nutrivano per ogni genere di religiosi, e specialmente per i Gesuiti.

 

Uno di loro venne fuori con queste affermazioni:

- Bisognerebbe farla finita con quella genia di Gesuiti, e sopprimere tutti i Collegi tenuti dai preti. Se comandassi io, vorrei anzitutto distruggere quel covile che quel certo don Bosco ha in Torino, e piglierei a calci lui e tutti i suoi giovani.

Indi, volgendosi a don Bosco, continuò:

- Non è vero, Reverendo, che andrebbe bene così? Il Santo, con la sua solita bonarietà e schiettezza, rispose:

- A me pare di no.

- Conosce lei don Bosco?

- Un pochino.

- Non è forse come dico io?

- Non credo.

- Non è forse vero che l'educazione che egli impartisce ai suoi giovani non è secondo le nostre idee?

Don Bosco tentennò il capo, come per dire: non sarebbe meglio che la smettesse con queste sue fanfaluche?

- Ma quel don Bosco alleva tanti Gesuiti, e noi non abbiamo bisogno né di preti né di frati.

Il Santo avrebbe voluto tacere ma, compiacente e dignitoso come sempre, entrò in lizza per sostenere la buona causa dell'Opera sua, e rispose:

- Senta, signore, io ho visitato più volte l'Oratorio di don Bosco; ho parlato con lui; conosco l'istruzione che dà; so come educa quei ragazzi, e posso assicurarle che egli non ha altra mira che fare, di quei poveri orfani, dei buoni cristiani e degli onesti cittadini.

- Sta bene, Reverendo, quanto ella dice; però... ecco: presentemente, noi viviamo in tempi nuovi... è passato il medioevo!

Il treno entrò in stazione. I viaggiatori s'affrettarono a discendere; e così fece anche il nostro mangiapreti, che era un ingegnere.

Passarono circa sei mesi, ed ecco che a Roma si pubblicarono degli appalti per importanti costruzioni. Il no

 

stro ingegnere, che si sentiva in gamba, pensò di concorrere anche lui; ma, si sa, alle volte non basta essere in gamba; ci vuole anche qualche calcio che aiuti a raggiungere la mèta. E allora, che fare?

Il nostro eroe sentì il bisogno di quel calcio, ed incontratosi con un marchese di sua conoscenza, lo pregò di interessarsi di lui, promettendogli eterna gratitudine.

Il marchese che aveva le braccia lunghe, ma non abbastanza, rispose:

- Ben volentieri! Direttamente però non ci riuscirei. Conosco tuttavia chi potrà far bene tutto.

- E chi?

- Don Bosco.

- Don Bosco?! Ne ho sentito parlare...

- Ebbene, scenda a Valdocco, si presenti a lui a mio nome, e l'affare andrà a meraviglia.

- È influente questo don Bosco?

- A Roma e in Vaticano può tutto! Una sua parolina al Cardinale Antonelli farà il miracolo.

Al signor ingegnere gelava il fegato nel doversi presentare a colui che poc'anzi avrebbe preso volentieri a calci. Ma... trattandosi di una grossa impresa e di un lauto guadagno, si fece coraggio e andò. Dopo tutto, don Bosco non lo aveva mai veduto, e non era conosciuto da lui.

Il Santo l'accolse con affabilità, e gli disse:

- Il sacerdote è sempre felice di poter prestare un buon servizio; presenti questo mio biglietto al Cardinale Antonelli, e si abbia i miei migliori auguri di felice riuscita.

- Grazie, Reverendo! Se comanda qualche cosa per Roma...

Don Bosco rifletté un istante e poi, quasi scherzando, disse:

- Ah! Ecco: la prego che, quando si troverà davanti al Cardinale di Stato, non gli dica che don Bosco biso

 

gnerebbe prenderlo a calci, e metterlo fuori dell'Oratorio.

L'ingegnere fissò il Santo. Era lui, proprio lui il prete del treno!

Immaginate la sua confusione. Si profuse in mille scuse, e protestò la sua perfetta stima per don Bosco e per la sua Opera, promettendo che non gli sarebbe mai più capitato di dire male dei preti.

La pratica a Roma riuscì; l'ingegnere ebbe il lucroso appalto e guadagnò fior di quattrini, divenendo a poco a poco cristiano esemplare, zelante cooperatore salesiano, e benefattore insigne di don Bosco.

Don Bosco milionario.

Altra volta, viaggiando in ferrovia, si imbatté in un individuo che, alla vista, si poteva giudicare un commesso viaggiatore.

Lo scompartimento era quasi pieno, e il nostro viaggiatore venne a parlare di don Bosco, sul conto del quale prese a dirne di cotte e di crude, quantunque non l'avesse mai conosciuto neppure di vista.

Don Bosco ascoltava e taceva; ma quando il facile chiacchierone venne a dire che don Bosco era un intrigante e che sprecava i denari della gente per arricchire i parenti, lo interruppe dicendo:

- Scusi, è sicuro di quanto asserisce? Lo conosce don Bosco? Conosce la sua famiglia?

- Se lo conosco! Lo vedo quasi ogni giorno e conosco benissimo anche la sua famiglia. Egli manda continuamente delle belle somme alla madre e al fratello. Si è fatto fabbricare una villa al Suo paese, ove va a passarvi l'estate da gran signore, con cavalli e carrozze.

- Ebbene, mi permetto di farle osservare che, di tutte queste cose, non vi è l'ombra di vero, e che sono pure invenzioni.

 

- Come? A me una smentita? E chi è lei che osa tanto?

Il treno giunge a una stazione, e salgono altri viaggiatori i quali, vedendo don Bosco, esclamano:

- Oh! don Bosco! Lei qui? Come sta?

- Don Bosco! - sussurrano i presenti. - È lui... proprio lui.

- Sì, sono proprio io, don Bosco. E ripigliando il discorso, mi sento obbligato a dichiararvi che tutto quanto ha detto questo signore non è altro che falsità e bugia. Mia madre è morta da anni, dopo di essersi sacrificata con me all'Oratorio per il bene di tanti orfanelli. Mio fratello abita sempre la misera casetta ove siamo nati; e di ville, cavalli e carrozze, ne ho tante quante costui, che viaggia, come me, in terza classe.

Tutti applaudirono alle parole del Santo, facendolo segno alle più grandi cortesie; ed il merlotto, confuso e smarrito, alla prima stazione cambiò scompartimento.

 

15. I SOGNI DI DON BOSCO.

Che valore dava don Bosco ai suoi sogni?

Il primo compilatore delle Memorie biografiche, don G.B. Lemoyne, riferisce questo giudizio di don Bosco medesimo:

«Nei primi anni io andavo a rilento a prestare a questi sogni tutta quella credenza che meritavano. Molte volte li attribuivo a scherzi della fantasia. Raccontando quei sogni, annunciando morti imminenti, predicendo il futuro, più volte ero rimasto nell'incertezza, non fidandomi di aver compreso e temendo di dire bugie. Alcune volte mi confessai da don Cafasso di questo, secondo me, azzardato parlare. Mi ascoltò, pensò alquanto, poi disse: "Dal momento che quanto dite si avvera, potete stare tranquillo e continuare". Però solo anni dopo quando morì il giovane Casalegno e lo vidi nella cassa sopra due sedie nel portico, precisamente come nel sogno, allora più non esitai a credere fermamente che quei sogni fossero avvisi del Signore».

A sua volta, don E. Ceria, biografo di don Bosco, che compilò gli ultimi nove volumi delle Memorie biografiche, classifica i sogni di don Bosco in tre gruppi:

- Sogni che non sono altro che sogni (come facciamo noi nelle notti di cattiva digestione): a rigore di termini non ci dovrebbero stare nella vita di don Bosco. Qualcuno fu riportato nelle Memorie biografiche per conoscere più elementi possibili della vita di don Bosco.

- Sogni che non furono sogni ma vere visioni: avvenuti in pieno giorno, come la rivelazione sul futuro di Giovanni Cagliero.

- Sogni fatti di notte, che rivelano cose oscure o future.

È difficile però distinguere tra le tre categorie. Una volta, non

 

sappiamo quando, don Bosco sognò di trovarsi in San Pietro, dentro la grande nicchia che si apre sotto il cornicione a destra della navata centrale, perpendicolarmente alla statua bronzea di san Pietro e al medaglione in mosaico di Pio 9°. Egli non sa capacitarsi come sia capitato lassù. Vuole scendere. Chiama, grida, ma nessuno risponde. Finalmente, vinto dall'angoscia, si sveglia. Un sogno da cattiva digestione, si direbbe. Ma chi guarda quella nicchia di San Pietro in questo 1936 vi vede la grandiosa statua di don Bosco dello scultore Canonica. E allora si capisce che la cattiva digestione non c'entrava.

Il sogno che rivela il futuro.

«A nove anni - narra don Bosco nelle Memorie biografiche - feci un sogno che mi rimase profondamente impresso nella mente. Mi parve di essere vicino alla mia casa, ai Becchi, in un cortile spazioso dove era raccolta una moltitudine di ragazzetti che giocavano. Alcuni ridevano, altri bestemmiavano. Io mi sono subito lanciato in mezzo a loro, per farli smettere.

Il quel momento apparve un Uomo venerando, nobilmente vestito. Il volto era così luminoso che non potevo fissarlo. Mi chiamò per nome e mi disse:

- Non con le percosse, ma con la mansuetudine e con la carità dovrai acquistare questi tuoi amici. Mettiti dunque immediatamente a parlare loro sulla bruttezza del peccato e sulla preziosità della virtù.

Confuso e spaventato risposi che io ero un ragazzo povero e ignorante. In quel momento i ragazzi, cessando le risse e gli schiamazzi, si raccolsero tutti intorno a Colui che parlava. Quasi senza sapere cosa dicessi:

- Chi siete voi - domandai - che mi comandate cose impossibili?

- Proprio perché queste cose ti sembrano impossibili, dovrai renderle possibili con l'obbedienza e acquistando la scienza.

- Come potrò acquistare la scienza?

- Io ti darò la Maestra. Sotto la sua guida potrai diventare sapiente.

 

- Ma chi siete voi?

- Io sono il Figlio di Colei che tua madre ti insegnò a salutare tre volte al giorno. Il mio nome domandalo a mia Madre.

In quel momento vidi accanto a lui una Donna di maestoso aspetto, vestita di un manto che splendeva come il sole. Scorgendomi confuso, mi fece cenno di avvicinarmi, mi prese con bontà per mano:

- Guarda! - mi disse. Guardando mi accorsi che quei ragazzi erano tutti scomparsi, e al loro posto vidi una moltitudine di capretti, di cani, di gatti, di orsi e di altri animali.

- Ecco il tuo campo, ecco dove dovrai lavorare. Renditi umile, forte e robusto: e ciò che in questo momento vedi succedere di questi animali tu lo farai per i miei figli.

Volsi allora lo sguardo, ed ecco: invece di animali feroci apparvero altrettanti mansueti agnelli che, saltellando, correvano e belavano, come per far festa intorno a quell'Uomo e a quella Signora.

A quel punto mi misi a piangere, e pregai quella Donna a voler parlare in modo chiaro, perché io non sapevo cosa volesse significare.

Lei mi pose la mano sul capo e mi disse:

- A suo tempo tutto comprenderai.

Aveva appena dette queste parole che un rumore mi svegliò, e ogni cosa disparve. Io rimasi sbalordito. Mi sembrava di avere le mani che facevano male per i pugni che avevo dato, che la faccia mi bruciasse per gli schiaffi ricevuti da quei monelli.

Al mattino ho raccontato il sogno prima ai miei fratelli, che si misero a ridere, poi a mia madre e alla nonna. Ognuno dava la sua interpretazione: "Diventerai un pecoraio" disse Giuseppe. "Un capo di briganti" malignò Antonio. Mia madre: "Chissà che non abbia a diventare prete". Ma la nonna diede la sentenza definitiva: "Non bisogna badare ai sogni"».

 

Il sogno del campo di meliga.

Il 12 ottobre 1844 a Torino, alla vigilia di trasferire l'Oratorio nella periferia di Valdocco, don Bosco fa un altro sogno «che mi parve un'appendice di quello fatto ai Becchi, a nove anni».

Ancora irrompono i lupi ed egli tenta di fuggire. Ma «una signora vestita da pastorella mi fa cenno di seguirla, guidando quello strano gregge. Facemmo tre fermate. Ad ogni fermata molti di quei lupi si cangiavano in agnelli.

Oppresso dalla stanchezza tentai di sedermi, ma lei m'invitò a continuare il cammino. Arrivammo a un vasto cortile, con porticato intorno, e all'estremità una chiesa. Il numero degli agnelli divenne grandissimo. Sopraggiunsero parecchi pastori per custodirli. Ma si fermavano poco. Allora successe una meraviglia. Molti agnelli si mutavano in pastorelli, che si prendevano cura degli altri. La pastorella mi invitò a guardare a mezzodì. Guardando vidi un campo in cui era stata seminata meliga, patate, cavoli, barbabietole, lattughe e molti altri erbaggi. "Guarda un'altra volta" mi disse; e guardai di nuovo. Allora vidi una stupenda ed alta chiesa. Un'orchestra, una musica istrumentale e vocale mi invitavano a cantar messa. Nell'interno di quella chiesa era una fascia bianca, in cui a caratteri cubitali era scritto: Hic domus mea, inde gloria mea (Qui è la mia casa, di qui uscirà la mia gloria)».

Il sogno delle tre chiese.

Nello stesso mese di ottobre rifece un altro sogno che è in sostanza una variante del primo. Don Bosco lo riferì a don G.B. Lemoyne che s'affrettò a metterlo per iscritto.

«... Una signora mi disse: "Guarda!". E io vidi una piccola chiesa, piccola e bassa, con un piccolo cortile e

 

giovani in gran numero... Essendo la chiesa divenuta troppo angusta, ricorsi ancora a lei, ed essa mi fece vedere un'altra chiesa, assai più grande, con una casa vicina... Mi vidi circondato da uno stuolo immenso di giovani, e vidi una grandissima chiesa, con molti edifici tutto intorno e con un bel monumento nel mezzo».

C'è evidente prefigurazione dello sviluppo dell'Oratorio: la prima cappellina ricavata dalla tettoia Pinardi del 1846, la chiesa di san Francesco di Sales consacrata il 20 giugno 1852 che fu la vera Porziuncola salesiana e infine il grande santuario sognato, la basilica di Maria Ausiliatrice, chiesa madre della Congregazione, inaugurata il 9 giugno 1868, nel contesto sonante di tutte le istituzioni di Valdocco. C'erano in chiesa 1200 giovani. Non manca neppure il monumento che i posteri erigeranno a lui, don Bosco, davanti al Santuario.

La strenna della Madonna.

Dopo le preghiere della sera, il 2 gennaio 1862, i giovani, in silenzio, attesero don Bosco. Aveva promesso di annunciare qualcosa di nuovo per l'anno nuovo.

Disse infatti: «La strenna che vi do non è mia. Che direste se la Madonna in persona venisse da voi a uno a uno per dirvi una parola? Se ella avesse preparato per ciascuno di voi un suo biglietto per indicarvi ciò di cui più abbisognate, o quello che lei vuole da voi? Ebbene, la cosa è appunto così. La Madonna dà a ciascuno di voi una strenna.

Prima di tutto però io voglio premettere alcune condizioni. La prima è che non si divulghi il fatto fuori di casa, perché io potrei essere compromesso. La seconda è questa: chi vuole credervi, ci creda; se qualcuno non ci vuol credere, stracci il suo biglietto e non ci dia retta, ma non se ne burli, si guardi dal metterlo in ridicolo.

Capisco che qualcuno vorrà sapere e domanderà:

 

Come è avvenuto questo? La Madonna ha scritto lei i biglietti? La Madonna in persona ha parlato a don Bosco? Don Bosco è il segretario della Madonna? Io vi rispondo: non vi dirò niente di più di ciò che ho detto. I biglietti li ho scritti io, ma come sia avvenuto non ve lo posso dire, né alcuno si prenda l'incarico di domandarmelo perché mi metterebbe negli imbrogli.

Ciascuno si contenti di sapere che il biglietto viene dalla Madonna. E una grazia speciale. È da anni che domando questa grazia, e finalmente l'ho ottenuta. Venite dunque in camera mia e darò a ciascuno il proprio biglietto. Vi assicuro che nemmeno io so quel che è scritto su ogni singolo biglietto. Io li ho scritti sopra un quaderno; accanto al biglietto c'è il nome di ognuno di voi; taglio il biglietto e trattengo i nomi. Per cui se qualcuno lo perde o se lo dimentica, non ci posso più far nulla. Dato che la faccenda è molto lunga, in queste sere potrete incominciare a sfilare in camera mia. Dormite bene e buona notte».

I giovani si affrettarono ad affollarsi con grande ansietà nella camera di don Bosco e ricevettero il loro biglietto personale. Chi era fuori di sé dalla gioia, chi piangeva, chi se ne stava appartato; qualcuno lo faceva vedere ai compagni; altri lo tenevano gelosamente nascosto. Ma per ognuno c'era la parola giusta della Madonna, la rivelazione delle proprie doti particolari, utilizzate o no.

Don Bosco sapeva bene che i ragazzi hanno qualche dote che può diventare la qualità che più li distingue dagli altri. Quante doti aspettano di essere riconosciute: nei più bravi che non vogliono farsi avanti; in quelli che sono lenti per natura ma che poi finiscono con il fare un lavoro magnifico; chi ha hobbies al di fuori della scuola; occorre essere pronti a scoprire e incoraggiare queste doti naturali dei giovani.

 

Il sogno dei due Samaritani.

Nell'aprile del 1864, a Torino, don Bosco tenne un corso di Esercizi spirituali ai suoi giovani, seguiti con grande fervore. I ragazzi ne uscirono con una freschezza di gioia nel cuore.

Come spesso succede dopo gli Esercizi, c'era stato subito dopo un crollo improvviso. Il demonio, cacciato fuori, aveva scoperto (come narra Gesù in una parabola) che la casa era pulita, spazzata, adorna, ma vuota e allora, con sette spiriti peggiori, tentava di riprenderne possesso.

Don Bosco ebbe due sogni. Così narra il primo:

«La notte che precedeva il 3 aprile mi pareva di stare dal balcone a guardare i ragazzi che si divertivano nel cortile. All'improvviso vidi apparire un vasto lenzuolo bianco che si stese a coprire tutto il cortile; i ragazzi continuavano a giocare e a gridare. Poi, vidi molti uccellacci e spaventosi corvi svolazzare sopra quel lenzuolo cercando un varco; appena lo trovavano picchiavano addosso ai giovani e li beccavano. Ogni volta che raggiungevano i ragazzi ne facevano strage: a chi cavavano gli occhi; ad altri bucavano la lingua tanto da ridurla in frammenti; ad altri ancora beccavano la fronte; a molti straziavano e laceravano il cuore. E, cosa strana, nessuno dei ragazzi feriti reagiva; tutti restavano come insensibili, non cercavano neppure di difendersi. Subito dopo, udii un gemito corale, straziante, prolungato: i feriti dai corvi si agitavano, gridavano e si ritiravano lontani dagli altri. Mentre stavo ragionando su quello che vedevo, udii bussare alla porta e mi svegliai».

Dopo aver raccontato il sogno ai ragazzi, don Bosco notò che nelle settimane successive pochi ragazzi si confessarono e le comunioni calavano. Allora il sogno si ripresentò:

«Mi pareva di trovarmi presso la ringhiera a guardare i ragazzi in ricreazione. Di lassù vedevo i ragazzi feriti dai corvi. Ed ecco, vidi avanzare un Personaggio con un flacone di balsamo, un medicinale meraviglioso, accompagnato da un individuo che teneva in mano un pannolino. I due pietosi Samaritani cominciarono a medicare le piaghe dei feriti; appena spalmavano l'unguento, i feriti guarivano di colpo. Ne vidi alcuni però che, all'avvicinarsi dei due prodigiosi in

 

fermieri, si scostavano e fuggivano perché non volevano essere guariti. Io li conosco tutti e procurerò di sanare le loro ferite.

Il Personaggio misterioso col vasetto di medicinale era Gesù; chi l'accompagnava era il sacerdote».

L'usignolo e lo sparviero.

Tra il 3 e il 7 luglio 1872 il caldo stagnava sulla città di Torino. Don Bosco in quei giorni pregò il Signore di fargli conoscere la cartella clinica spirituale dei suoi ragazzi. E una notte sognò quanto narrò poi nel sermoncino detto «la buona notte» con cui era solito congedarsi dai suoi figlioli al termine d'ogni giorno.

«Mi pareva di trovarmi in un cortile molto spazioso, circondato e cintato di case, di piante e di cespugli. Sui rami degli alberi e tra la verzura pigolavano uccelli dentro i nidi, pronti ormai a spiccare i primi voli. A un tratto mi cadde davanti ai piedi un piccolo usignolo; volevo raccoglierlo, ma l'usignolo mi sfuggì e se ne volò al centro del cortile. Lo rincorsi per aiutarlo, ma quello sbatté le ali e sfrecciò verso il cielo. Di colpo gli piombò addosso uno sparviero, lo ghermì e se lo portò via per divorarselo.

"Povero usignoletto - mormorai - io volevo salvarti, ma tu mi sei sfuggito. Perché hai fatto questo?". Mi rispose un flebile lamento, come un accorato pigolio, poi udii una voce chiara che diceva: "Siamo in dieci, siamo in dieci, siamo in dieci". Lì per li mi svegliai; ma la notte seguente ripresi il sogno dal punto d'interruzione precedente.

Vidi volteggiare nell'aria lo sparviero; io lo rimproverai per la sua crudele rapina. Subito mi cadde ai piedi un biglietto su cui erano scritti i nomi di dieci ragazzi, che avevano la cartella clinica della loro anima molto disastrata: in quel mese di luglio si erano rovinati spiritualmente».

Fin qui il sogno. Don Bosco era persuaso che le vacanze sono un tempo difficile per i giovani, una specie di pericoloso collaudo e usava una frase molto espressiva: «I ragazzi vanno in vacanza con ali di colomba e tornano in autunno con le corna del diavolo».

Voleva dire che i giovanetti, quando vanno in vacanza, si fanno l'idea - anche se non l'esprimono in modo

 

esplicito - che sia meglio vivere in fretta, perché il domani potrebbe non venire mai. E per troppi ragazzi vivere in fretta si traduce in dolorose esperienze di peccato.

Tocca ai genitori e agli educatori vigilare sul comportamento dei loro ragazzi e tenerli sotto un amorevole e dolce controllo.

Un sogno missionario rivelatore.

L'immensa pianura e gli uomini feroci.

Tra il 1871 e il 1872 don Bosco fece un sogno nel quale convergono il fervore immaginoso degli anni giovanili in cui vagheggiava di andar missionario e insieme si profila il campo specifico della futura missione dei salesiani. Il Santo lo narrò prima a Pio 9° e poi ai suoi preti Lemoyne e Barberis che lo trascrissero fedelmente.

«Mi parve di trovarmi in una regione selvaggia e totalmente sconosciuta. Era un'immensa pianura incolta, nella quale non si scorgevano né colline né monti. Nelle estremità lontanissime, però, si stagliavano scabrose montagne. Vidi turbe di uomini che la percorrevano. Erano quasi nudi, di statura straordinaria, aspetto feroce. Avevano capelli ispidi e lunghi, colore abbronzato e nerognolo. Erano vestiti soltanto di larghi mantelli di pelli di animali, che scendevano loro dalle spalle. Per armi usavano una lunga lancia e la fionda.

Quelle tribù di uomini sperse offrivano allo sguardo scene diverse: alcuni correvano dando la caccia alle fiere; altri andavano, portando conficcati sulle punte delle lance pezzi di carne sanguinolenta. Gli uni combattevano fra di loro; gli altri venivano alle mani con soldati vestiti all'europea, e il terreno era sparso di cadaveri. Io fremevo a quello spettacolo.

Ed ecco spuntare all'estremità della pianura molte persone: dal vestito e dal modo di agire capii che erano missionari di vari Ordini. Si avvicinavano per predicare a

 

quei barbari la religione di Gesù Cristo. Li fissai ben bene, ma non conobbi nessuno. Andarono in mezzo a quei selvaggi: i barbari però appena li videro, con furore si avventarono contro e li uccidevano. Ficcavano i macabri trofei sulla punta delle loro lunghe picche.

Intanto vidi in lontananza un drappello di altri missionari che si avvicinavano ai selvaggi con volto ilare, preceduti da una schiera di giovanetti. Io tremavo pensando: "Vengono a farsi uccidere". E mi avvicinai. Erano chierici e preti. Li fissai con attenzione e li riconobbi per nostri salesiani. I primi mi erano noti, e sebbene non abbia potuto conoscere personalmente molti altri che seguivano i primi, mi accorsi essere anch'essi missionari salesiani, proprio dei nostri.

"Come mai?" dissi tra me. Non avrei voluto lasciarli andare avanti, ed ero li per fermarli. Mi aspettavo che da un momento all'altro toccasse loro la stessa sorte dei primi missionari, quando vidi che il loro comparire metteva allegria in tutte quelle tribù dei barbari. Abbassarono le armi, deposero la loro ferocia, e accolsero i nostri con ogni segno di cortesia. Meravigliato dicevo tra me: "Vediamo un po' come va a finire!". E vidi che i nostri missionari si avanzavano verso quei selvaggi, li istruivano, ed essi ascoltavano volentieri la loro voce. Insegnavano, ed essi imparavano con premura. Ammonivano, ed essi accettavano e mettevano in pratica i loro ammonimenti.

Stetti ad osservare: i missionari recitavano il Rosario, e i selvaggi rispondevano a quella preghiera. Dopo un po' i salesiani andarono a porsi nel centro di quella folla che li circondò. S'inginocchiarono. I selvaggi, deposte le armi, piegarono essi pure le ginocchia. Ed ecco uno dei salesiani intonare Lodate Maria, o lingue fedeli, e quelle turbe, tutte a una voce, continuarono il canto, con tanta forza di voce che io, quasi spaventato, mi svegliai».

E riconoscibile la sceneggiatura delle immense distese della Patagonia, del Chaco, della Terra del Fuoco con la cornice innevata delle Ande altissime. I poveri indios sel

 

vaggi... da salvare. Solo il 29 gennaio 1875 don Bosco annunciò la prima spedizione missionaria in Argentina che sarebbe stata guidata da don Giovanni Cagliero.

Il sogno dell'identità salesiana

«Sono miei figli e li affido a te...»

È del 1877 il sogno profetico nel quale il carisma proprio della famiglia salesiana è reso in trasparenza: dedicarsi alla formazione cristiana dei ragazzi, mediante una tenera devozione a Maria.

Parve a don Bosco di trovarsi in un luogo sconosciuto, ma nell'ambiente familiare della sua infanzia tribolata: un rustico, attrezzi agricoli sparsi su un'aia. È l'alba. Silenzio. D'un tratto s'ode una voce. Appare un ragazzo di stalla (com'era stato lui stesso alla cascina Moglia) vicino a una Donna soave, vestita da contadina. Il ragazzo canta in francese: «Amico venerato, sii per noi padre diletto». Don Bosco si smarrisce e non riesce a capire. Il ragazzo continua a cantare: «I miei compagni ti diranno ciò che vogliamo». All'improvviso irrompono sull'aia una vera fiumana di giovani che ritmano un coro: «O nostra guida, menaci al giardino della bontà». «Ma chi sono questi ragazzi?» domanda imbarazzato don Bosco. Gli rispondono in canto: «La nostra patria è il paese di Maria».

Allora si avanza la gentilissima Donna; prende per mano il ragazzetto cantore, accenna agli altri ragazzi di seguirla e si sposta verso un'altra aia più grande, non molto lontana, prospiciente un grosso fabbricato. La Donna dall'aspetto misterioso e celestiale si volge a don Bosco e gli dice: «Questi giovani sono tutti tuoi». «Miei? - risponde turbato don Bosco. - Ma con quale autorità lei me li affida?». «Con quale autorità? - La Donna ha un leggero sbalzo di voce e un filo di sorriso. - Sono miei figli e li affido a te». «Ma come farò con

 

tanti giovani così chiassosi e irrequieti?». «Osserva», gli ingiunge la Donna.

Don Bosco si volge e vede una grande schiera di ragazzi che avanzano. La Madonna getta su di loro un suo lungo velo azzurrino; poi lo ritira. E di colpo, come al tocco di una bacchetta magica, quei ragazzi diventano adulti: preti e chierici. «E questi preti e chierici sono miei?» chiede don Bosco. «Saranno tuoi se saprai formarteli» conclude la Donna e scompare con un sorriso.

La gemma preziosa.

Un altro sogno stupendo è del 1885, pochi anni prima della morte del Santo. È una sceneggiata poetica, secondo il gusto del tempo, volta a far capire ai ragazzi il valore della virtù della castità, la sua bellezza rara e preziosa. E la pulizia interiore che onora la vita, l'arricchisce, la rende capace di amore vero, disinteressato, generoso, libero e rispettoso degli altri.

Racconta don Bosco:

«Mi pareva - raccontò - di trovarmi davanti a un immenso, incantevole declivio; verdeggiava in dolce pendio: sembrava un paradiso terrestre, illuminato da una luce più abbagliante del sole. L'erba pettinatissima era punteggiata di fiori. In mezzo vi si stendeva un tappeto di un candore così niveo da accecare. Sugli orli del tappeto si leggeva, a caratteri d'oro, la seguente scritta: "Beati i puri che camminano secondo la Legge del Signore. Dio non priverà di beni quanti camminano nell'innocenza. Non resteranno confusi in tempi critici e si sazieranno durante i giorni di carestia. Il Signore conosce i giorni degli immacolati e la loro eredità perdurerà in eterno".

"Poi vidi due stupende fanciulle dodicenni sedute sul margine del tappeto dove il declivio faceva scalino. Il loro contegno era dignitoso; irradiavano dagli occhi una gioia di felicità celestiale. Sulle loro labbra sfavillava un dolce sorriso. Una veste bianca scendeva fino ai loro piedi e una cintura rossa fiammeggiante con bordi d'oro allacciava i fianchi. Portavano al collo come monile un nastro di corolle di gigli, di viole, di rose. Come braccialetti avevano ai polsi un mazzo di margherite. Ma la bellezza e il fulgore di quei fiori non erano confrontabili con le gemme più preziose. Una capigliatura gli scendeva lungo le

 

spalle. Cominciarono un colloquio con uno squillo incantevole di voce.

Una di loro disse: "Che cos'è l'innocenza? È lo stato felice della Grazia santificante conservata per mezzo della costante ed esatta osservanza della Legge di Dio". E l'altra fanciulla ribatteva: "La purezza è fonte e origine di ogni scienza e di tutte le virtù".

La prima riprese il duetto dopo un attimo di silenzio e disse: "Oh, se i giovani conoscessero quale prezioso tesoro è l'innocenza! Ma purtroppo non riflettono e non pensano quale danno si infliggono quando la macchiano. L'innocenza è come uno squisitissimo liquore". E la seconda fanciulla aggiunse: "D'accordo, ma è racchiuso dentro un flacone di fragilissimo cristallo; se non è portato con grande cautela facilmente s'infrange come il vetro soffiato". E la prima ancora: "L'innocenza è una gemma preziosissima". La seconda commentò: "Ma chi non ne conosce il valore, la perde con facilità; e la baratta con qualsiasi oggetto vile e banale"».

Ultimo sogno missionario.

I salesiani, con Maria, in tutto il mondo.

Durante la notte dal 9 al 10 aprile del 1886 don Bosco fece un altro stupendo sogno missionario. Gli pareva di essere vicino alla casa nativa presso Castelnuovo su un poggio detto «Colle del vino». Di lassù lo sguardo spaziava. Ed ecco, ode lo strepito e il chiasso di una numerosa moltitudine di ragazzi. Poco dopo se li vede spuntare dinanzi e corrergli incontro per gridargli: «Ti abbiamo aspettato tanto, ma finalmente ci sei e non ci sfuggirai».

Don Bosco li guarda e si chiede che cosa vogliano da lui. A un tratto vede avanzare un immenso gregge guidato da una Pastorella che, separati gli agnelli dalle pecore, si ferma dinanzi a lui per dirgli: «Guarda ciò che ti sta dinanzi. Ebbene: ricorda il sogno da te fatto a nove anni di età». Con un sorriso fa venire attorno a don Bosco i ragazzi, e gli dice: «Guarda ora da questa parte; spingi il tuo sguardo. Anzi, spingetelo voi tutti per leggere quanto sta scritto. Che cosa si vede?». «Scorgo montagne, poi mare e altri monti e mari» risponde don Bosco. «Io

 

leggo Valparaiso» trilla un fanciullo. «E io Santiago» interloquisce un ragazzo.

«Adesso - continua la Pastorella - volgiti a guardare da questa parte». «Scorgo montagne, colline e mari», soggiunge don Bosco. «Noi leggiamo Pechino» esclamano i ragazzi. E don Bosco vede un'immensa città attraversata da un largo fiume su cui si scorgevano ponti lunghissimi. «Bene» approva la nobile e stupenda Pastorella, che sembra la Mamma di tutti quei giovani. Poi aggiunge: «Ora, tira una sola linea da un'estremità all'altra, da Pechino a Santiago; fa' centro nel mezzo dell'Africa, e avrai un'idea esatta di quanto dovranno fare i tuoi salesiani». «Ma come è possibile fare tutto questo? - obietta don Bosco. - Le distanze sono immense, i luoghi inaccessibili; sono pochi i salesiani...». «Non ti turbare. Faranno questo i tuoi figli e i figli dei tuoi figli e i loro figli ancora; ma si procuri di conservare lo spirito della tua Congregazione».

Poi con uno sguardo profondo la Pastorella aggiunge: «Mettiti di buona volontà. C'è una sola cosa da fare: raccomanda ai tuoi figli che coltivino costantemente le virtù della Vergine Madre». «Ebbene - conclude don Bosco - predicherò a tutti queste parole». «Sta' attento però con quelli che studiano le scienze divine, perché la scienza del Cielo non si deve mischiare con le cose della terra». Di colpo, tutto si eclissa e svanisce. Don Bosco non vede più nulla.

Quando don Bosco raccontò per la prima volta questo sogno, gli facevano corona alcuni sacerdoti che di tratto in tratto esclamavano: «Oh, la Madonna!». E don Bosco sottolineava: «Lei ci ama. È la Mamma».

Intervista a don Bosco.

L'intervista è lo scoop (la trovata che fa colpo) del giornalismo moderno. Oggi tutti i personaggi si fanno

 

intervistare per i mass media e per farsi conoscere al mondo. Don Bosco non amava la pubblicità. Ma era divenuto una personalità di calibro mondiale, specie sulla fine della sua vita, e non poté sfuggire alle domande dirette di un reporter del journal de Rome, che lo affrontò appunto a Roma nell'aprile del 1884. L'intervista fu pubblicata sul giornale il 25 aprile 1884. Eccone uno stralcio:

D. - Vorrebbe dirci qual è il suo sistema educativo?

R. - Semplicissimo: lasciare ai giovani piena libertà di fare le cose che loro sono maggiormente simpatiche. Il punto sta nello scoprire quali sono i germi delle loro buone qualità, e poi procurare di svilupparli. Ognuno fa con piacere solo quello che sa di poter fare. Io mi regolo con questo principio, e i miei allievi lavorano tutti non solo con attività, ma con amore. In 46 anni non ho mai inflitto un solo castigo. E oso affermare che i miei alunni mi vogliono molto bene. Il mio sistema, voi l'avete capito, è educare con ragione, religione e amore.

D. - Come ha fatto a estendere le sue opere fino alla Patagonia e alla Terra del Fuoco?

R. - Un po' alla volta.

D. - Che cosa ne pensa delle condizioni della Chiesa in Europa, in Italia e del suo avvenire?

R. - Io non sono un profeta. Lo siete invece un po' tutti voi, giornalisti. Quindi è a voi che bisognerebbe domandare che cosa accadrà. Nessuno, eccetto Dio, conosce l'avvenire. Tuttavia, umanamente parlando, c'è da credere che l'avvenire sarà grave. Le mie previsioni sono molto tristi, ma non temo nulla. Dio salverà sempre la sua Chiesa, e la Madonna, che visibilmente protegge il mondo contemporaneo, saprà far sorgere dei redentori.

Fine testo, segue l'indice.

 

INDICE.

1. GLI ANNI DEL FOCOLARE.

Giuanìn testa rotta, pagina 17; «Volete accarezzarmi le spalle!», pagina 18; «Perdono, mamma!», pagina 20; Diplomazia di un ragazzo, pagina 20; Disavventura di un cacciatore di nidi, pagina 21; Gli spiriti folletti, pagina 22; Piccolo giocoliere, pagina 24; Piccole industrie, pagina 25; Sfida per la prima volta un ciarlatano, pagina 26; Addio, piccolo merlo, pagina 28; Pane nero e buon cuore, pagina 29; L'anima dei divertimenti, pagina 29.

2. LO STILLICIDIO DELL'ADOLESCENZA.

Ragazzo di stalla alla cascina Moglia, pagina 31; La predica ben pagata, pagina 33; Orfano un'altra volta, pagina 34; Se riesco a farmi prete, pagina 36; A scuola, ma con i buoni, pagina 37; Uno scolaro assai dotato, pagina 37; L'albero della cuccagna è una provvidenza 39; Saggio di capacità, pagina 40; Prodigio di memoria, pagina 40; Altre doti sorprendenti e... più che naturali, pagina 42; Muscoli di ferro, pagina 43.

3. ANNI VERDI E SERENI.

La veste nera e il seminario, pagina 45; Novello Sansone, pagina 46; Suonatore di violino, pagina 47; Più forte di un cavallo, pagina 47; Il numero con il cavallo, pagina 48; Coraggio alla prova, pagina 50; Un'allegra scampagnata, pagina 51; Un morto che parla, pagina 54; Predicatore improvvisato, pagina 54; Berretta nuova, pagina 56; «Camperete novantanni!», pagina 57; Qui c'è un mago!, pagina 57; O Dio o diavolo, pagina 58; Una sfida memorabile, pagina 61; Salvato dal fulmine, pagina 63; Una birbonata del diavolo, pagina 63

4. IL VOLTO DI UN GIOVANE PRETE.

Sacerdote per sempre, pagina 65; Come san Filippo Neri, pagina 66; Astuzie sante, pagina 67; Pillole di pane, pagina 68; O la borsa o la vita, pagina 69; Predicazione fruttuosa, pagina 72; Gesù in fuga, pagina 73; «Avete una veste troppo sottile», pagina 73

5. I GIOVANI, LA GRANDE PASSIONE.

Confessore dei pii delinquenti, pagina 75; L'incontro provvidenziale, pagina 76; Potenza dell'entusiasmo, pagina 79; La cuffia di una

 

impertinente, pagina 81; Come crescono i cavoli, pagina 83; Una colazione al monte, pagina 83; Scorta d'onore, pagina 84; Cantori in barca 86; L'allarme dei parroci, pagina 87; Piange e ride con i suoi figlioli, pagina 90; La marchesa di Barolo, pagina 91; Incredibile affetto, pagina 93; Fiori e fiori, pagina 94; È creduto pazzo, pagina 94; Al manicomio, pagina 96; Campane che suonano da sé, pagina 97

6. L'ORATORIO DI VALDOCCO.

Minacce e castigo, pagina 98; Scherzo della Provvidenza, pagina 100; Altro scherzo della Provvidenza, pagina 100; Carnevale che non guasta, pagina 101; La coda del diavolo, pagina 102; Eppure caleranno, pagina 103; L'ospizio fallito, pagina 105; Fulmine provvidenziale, pagina 106; Vino del santo nome di Dio, pagina 107; Mangerò un cane, pagina 108; Un caffè dal boia, pagina 109; Con i discoli della «Generala» 110; O religione o bastone, pagina 111; Addio, mamma Margherita, pagina 112; La grande chiesa sognata, pagina 113; «Di qui la mia gloria!», pagina 113; Grazie ottenute con la medaglia, pagina 114

7. LA VITA NELL'ORATORIO.

Si moltiplicano le ostie, pagina 116; ...e le castagne, pagina 117; Placido sonno, pagina 118; Ho perduto i peccati, pagina 119; Battaglia nell'orto 120; E se morissi stanotte?, pagina 120; Non gli ho firmato il passaporto, pagina 121; Risuscita un morto, pagina 122; Guai a Torino!..., pagina 124; Il colera del 1854, pagina 125; Berta in sacco, pagina 126; Abito grande e porta stretta, pagina 128; Robiole... e peccati 130; La lezione di don Bosco, pagina 131

8. NON TOCCATE DON BOSCO!

Controversia con i Valdesi, pagina 133; Me ne rido!, pagina 134; Vino avvelenato, pagina 135; Grandine di bastonate, pagina 136; «O si decide o è morto», pagina 138; Il «Grigio», pagina 139; Ancora il «Grigio» 140; Sempre il «Grigio», pagina 141

9. «CI CHIAMEREMO SALESIANI».

Nasce una nuova Congregazione, pagina 142; Il giardino, il pergolato e le rose, pagina 143; Salus ex inimicis nostris!..., pagina 144; Faremo a metà, pagina 146; Fede che vince gli ostacoli, pagina 146; La podagra del Cardinale, pagina 148; La febbre da cavallo scompare, pagina 149; Io vi salverò, pagina 150; Lo hai sentito quel tuono? pagina 151; Ho indovinato? pagina 152; Festa e vaiolo non stanno insieme, pagina 155; Che cosa sono mai 90 mila lire?! pagina 155; Negli imbrogli, pagina 156; Ci rivedremo al cader delle rose, pagina 157; Mani bucate, pagina 158; L'anima dei divertimenti, pagina 159; Quello della cioccolata!..., pagina 160; Generoso come un re, pagina 162; Cinquecento lire son troppe, pagina 162; E io... mi farei Salesiano, pagina 163; Il gran segreto, pagina 163; Noi saremo sempre amici, pagina 164; Il miracolo del dito tagliato, pagina 166

 

10. LA POLITICA DI DON BOSCO.

Prete più, prete meno, pagina 168; Caramelle amare, pagina 169; Grande funerale a Corte! pagina 171; L'amicizia del Re, pagina 173; È cosa singolare, pagina 176; Viva Vittorio Emanuele, Cavour e Garibaldi, pagina 177; Desiderium peccatorum peribit, pagina 177; Segreti di famiglia, pagina 179; Gatti nell'armadio, pagina 180; Le astuzie di una marchesa, pagina 181; Puf... puf... puf..., pagina 182; Titolo di Cavaliere, pagina 182; I bersaglieri a Porta Pia, pagina 183

11. I PAPI DI DON BOSCO.

Niente Monsignore, pagina 185; Sotto il piede del Papa, pagina 186; Tre Papi debitori, pagina 186; Le 300 volpi..., pagina 187; La voce del cielo al Pastore dei Pastori, pagina 188; Sorpasserà gli anni di San Pietro, pagina 189; La merenda del Papa, pagina 190; Predice il nuovo Papa, pagina 191; Il Conclave si terrà a Roma, pagina 192

12. QUESTUANTE PER LA CHIESA DEL PAPA.

Sfida contro la morte, pagina 194; Altra sfida alla morte, pagina 196; Venite a vedere un santo! pagina 197; Incominciamo! pagina 198; Fede che ammazza, pagina 198; Bagno involontario, pagina 199; L'Abbé Bonhomme!, pagina 200; Impresta la sua voce, pagina 200; Il trionfo di Barcellona, pagina 201

13. LE ARGUZIE DI DON BOSCO.

Il bastone della polenta, pagina 205; Quando troveremo un bue, pagina 207; Perché quel chiodo?! pagina 207; I numeri del lotto, pagina 209; Grosso salame, pagina 209; «Cerco il dolce!» pagina 210; Buon granatiere, pagina 210; Pelo e contropelo, pagina 211; La bellezza di 400 lire, pagina 211; Un peso sul cuore, pagina 211; Farei di cappello al diavolo, pagina 213; Tante... siamo di carnevale, pagina 213; Chi riderà sarà il demonio, pagina 213; Bertoldo, Bertoldino..., pagina 214; O così... o niente pranzo! pagina 214; Gianduieide, pagina 214; Argenteria che scompare, pagina 215; Restituitemi il mio orologio, pagina 216; Uovo e gallina, pagina 216; Curiosità appagata, pagina 217; Con una signora bisbetica, pagina 218; Dieci lire per confessarsi, pagina 218; Dunque io sono un burlone, pagina 219; La contessa... giovane, pagina 220; Se ne accorgerà, pagina 221; Cercatemi due mantici, pagina 222; Bo...bo...Ia...ia... fa boia! pagina 222

14. CHIAROVEGGENZA E DOTI METAPSICHICHE? Conosce i segreti, pagina 223; Predice l'avvenire, pagina 223; Chi glielo ha detto? pagina 225; Come fa a saperlo? pagina 225; Ho la coscienza in regola? pagina 226; Un prete di polenta..., pagina 227; Otis-Botis-Pia-Totis, pagina 228; Orecchie lunghe, pagina 229; Magnetismo spurio, pagina 230; La sonnambula, pagina 231; I calci dell'ingegnere 233; Don Bosco milionario, pagina 236

 

15. I SOGNI DI DON BOSCO.

Il sogno che rivela il futuro, pagina 239; Il sogno del campo di meliga, pagina 241; Il sogno delle tre chiese, pagina 241; La strenna della Madonna, pagina 242; Il sogno dei due Samaritani, pagina 244; L'usignolo e lo sparviero, pagina 245; Un sogno missionario rivelatore. L'immensa pianura e gli uomini feroci, pagina 246; Il sogno dell'identità salesiana: «Sono miei figli e li affido a te...», pagina 248; La gemma preziosa, pagina 249; Ultimo sogno missionario. I salesiani, con Maria, in tutto il mondo, pagina 250; Intervista a don Bosco, pagina 251

Fine libro.

 

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