Educazione

Di ritorno da Auschwitz

I tedeschi alla fine fanno saltare per aria i forni e le camere a gas. Lo fanno per nascondere l'inimmaginabile. Ma perché sentono la necessità di farlo? A chi devono davvero nasconderlo? Al mondo o alla loro coscienza? Credo a tutte e due...


 

 

del 03 dicembre 2013

 

 

Pioviggina. L'aria sa di grigio e il cielo è pesante. Chiusi nei giacconi, quasi a difendersi dallo sgomento verso cui andiamo, aspettiamo la guida. Alla fine, la scuola ha deciso di accettare la proposta del Comune, che ogni anno "sostiene" un viaggio di istruzione di una scuola della nostra città, in questo luogo. E così la gita alla Caritas di Roma si rimanderà. Ma questa meta è altrettanto "significativa". Un evento e un luogo che ha segnato il '900. E il cui senso, ancora oggi ci interroga e ci perseguita: Auschwitz.

 

Varcata la scritta, ogni cosa bussa all'anima come un rintocco di dolore; il brusio si spegne da solo e il silenzio, tra una sosta e l'altra, inizia davvero ad urlare. Così vivo quelle tre ore "di visita" come un pellegrinaggio, con l'anima sospesa e incredula perché il terrore e la morte diventano palpabili. E solo alla fine, sulla via del ritorno in pullman a Cracovia, trovo la forza per condividere qualcosa con gli studenti.

E la prima parola che arriva è: non si può immaginare! Non si può percepire fino in fondo, né pensare. Quello che è successo qui non sta dentro a nessuna parola umana pronunciabile. E i ragazzi lo hanno sentito sulla pelle: "Non riesci a capire fino in fondo quanto potevano stare male". "Sai cosa hanno fatto qui, ma non riesci ad entrare nella parte fino in fondo, è impossibile". E soprattutto "è impossibile pensare che delle persone abbiano fatto una cosa del genere". Ma uno dei più improbabili mi stupisce: "Bisogna venirci una volta nella vita, per capire cosa è successo ... per capire che l'uomo può fare anche queste cose ... ricordarlo forse ci protegge un po' dalla violenza che abbiamo dentro".

Ma la seconda parola che ci ha colpito tutti è ancora più densa: i dettagli della vita! Il demonio sì, si nasconde nei dettagli. E recuperare i dettagli di Auschwitz è una operazione di scavo tremenda dentro la vita delle persone che qui sono state maciullate, annullate. E pure dentro la nostra vita. "Mi hanno colpito gli oggetti personali, ogni oggetto racconta una storia, e però qui le storie sono state tutte interrotte, distrutte". Gli occhiali, gli spazzolini da denti, le valigie, le scarpe. Ma in particolare i capelli. E a dirlo sono soprattutto le ragazze. "Dio mio, quei capelli, un orrore che non si può dire, prof.". Perché dentro a quei capelli ci hanno letto la cura di sé, la dignità, il valore dell'essere umano, "rasato" volutamente a zero. "In quei capelli prof., c'è una violenza che mi ha fatto davvero male".

 

Poi abbiamo condiviso le emozioni. "Peso", triste, crudele, assurdo, allucinante. Soprattutto di fronte alle camere a gas e ai forni. "Mi è mancata l'aria prof... Vedere i graffi sul muro di chi stava morendo ... Allora ho immaginato le persone che volevano scappare ... No prof. Non lo voglio pensare"! E non conta se i graffi, in verità, non sono autentici. Comunque per un attimo si sono sentiti lì, pronti a soffocare. "Non ce la fai a capire dai video come davvero vivevano. Lo avevo studiato tante volte, ma mai lo avevo sentito così. Qui ti immedesimi un po'. Con una malinconia infinita, ma contenta di essere nata in questo periodo e non allora".

Ma quasi senza rendercene conto, la condivisione lascia il posto alla riflessione. Uno dei più "prevenuti" della classe, senza che nessuno glielo chieda, ci anticipa: "Dovremmo smetterla di pensarci superiori ad un altro solo perché pensa cose diverse da noi, o crede in un Dio diverso dal nostro. Delle volte penso che molti di noi, se vediamo una fila di marocchini ammazzati di botte ci mettiamo a ridere". E pure quella che la sera prima ha visto il suo "tipo" furbecchiare con un'altra, e sono quasi arrivate alle mani, mette lì la sua: "Non credo che una persona che fa queste cose si abitua a pensare che fa bene. In fondo lo sa che sta facendo del male".

 

Così, su questa osservazione, mi ritorna un pensiero avuto nella desolazione del campo. I tedeschi alla fine fanno saltare per aria i forni e le camere a gas. Lo fanno per nascondere l'inimmaginabile, che dopo pochi giorni le foto dei russi documenteranno. Ma perché sentono la necessità di farlo? A chi devono davvero nasconderlo? Al mondo o alla loro coscienza? Credo a tutte e due. L'atto di valutazione che li spinge a un impossibile "occultamento" del loro delirio, denuncia tardivamente che un residuo di coscienza permane in loro. Che nonostante la menzogna abbia preso potere nella loro mente, non è riuscita a ribaltare la luce di Dio che abita gli uomini, nonostante noi stessi. Anche nell'abisso del male, in fondo sappiamo di essere nel male. Perciò ci portiamo dentro la traccia del bene, sempre e comunque. Solo che ad un certo punto non crediamo di poterci più salvare. Perciò ci condanniamo da soli. E il suicidio di Hitler, se di suicidio si tratta, lo conferma.

Siamo arrivati con la pioggina e la nebbia, ce ne andiamo col sole che taglia i finestrini del pullman. Fin troppo banale la metafora, ma per chi crede alla resurrezione, anche in questo luogo ci sarà. Quando la guida, nella cella 18 del carcere, ci racconta di san Massimiliano Kolbe, le brillano gli occhi. E io sento che l'uomo, nonostante tutto non ha perso.

 

 

Gilberto Borghi

http://www.vinonuovo.it

 

 

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