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Cap. 5. Siamo la Chiesa degli Apostoli. Entrare in città

Nel contesto del nostro tema, questo entrare in città significa ritrovare la ragion d'essere della nostra appartenenza a una comunità cristiana. L'abbiamo detto più volte: compito della Chiesa è entrare nel mondo, la Chiesa è per il mondo. «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo», per noi uomini e per la nostra salvezza Gesù ha istituito la Chiesa.


Per esplicitare meglio il tema assegnato quest'anno a tutti i pellegrini che vengono a Lourdes Sacerdoti per il mondo e per la Chiesa, faccio riferimento a un passo degli Atti degli Apostoli: è una icona molto bella, un'immagine splendida, un quadretto che ci presenta la Chiesa gerarchicamente organizzata, come si suol dire, attorno a Pietro, con Maria, gli apostoli, il popolo, le donne.

Vi leggo il testo, poi traggo da questa icona tre verbi che desidero mettere in evidenza: «Entrati in città, salirono al piano superiore dove abitavano. C'erano Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea, Filippo e Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo di Alfeo e Simone lo Zelota e Giuda di Giacomo. Tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui».

Ho scelto questo passo perché si fa riferimento esplicito a Maria. E voglio spiegare tre cose: che cosa significa per noi entrare in città; salire al piano superiore; essere assidui e concordi nella preghiera con Maria e gli altri.

I. ENTRARE IN CITTÀ.

Nel contesto del nostro tema, questo entrare in città significa ritrovare la ragion d'essere della nostra appartenenza a una comunità cristiana. L'abbiamo detto più volte: compito della Chiesa è entrare nel mondo, la Chiesa è per il mondo. «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo», per noi uomini e per la nostra salvezza Gesù ha istituito la Chiesa.

Compito della Chiesa non è estraniarsi dal mondo ma entrare nel suo tessuto connettivo, assumendone la storia e la geografia. Così dice il Concilio nel primo capitolo della Gaudium et Spes: la Chiesa fa proprie «le gioie e le speranze», i dolori, le ansie, le angosce e le sofferenze, tutto. «Nulla vi è di genuinamente umano che sia estraneo al cuore dei credenti», soprattutto al cuore di noi presbiteri.

Nulla vi è di più genuinamente umano del pianto, del sorriso, della letizia, della gioia e, perché no?, della danza; se ci sarà tempo, vorrei parlarvi un giorno di Maria Donna della danza. Se è vero che il Signore «trasforma il nostro lamento in danza e ci toglie gli abiti di lutto per rivestirci degli abiti da festa», dobbiamo davvero mettere anche la danza al centro delle nostre attenzioni, soprattutto al centro dell'attenzione di chi soffre, per un motivo o per l'altro, di chi è su una carrozzella, di chi soffre disagi interiori, fisici, l'anzianità, la vecchiaia. La danza non è affatto estranea alla nostra situazione attuale, dato che tra noi molti sacerdoti sono malati.

Aprire le porte verso il mondo.

Entrare in città significa non solo non estraniarsi dal mondo ma entrare nel tessuto connettivo del mondo.

L'anno passato nella mia diocesi, per una concessione particolare che il Santo Padre fa in occasione di particolari celebrazioni centenarie, mi fu concesso di indire un Anno Santo speciale in una comunità parrocchiale. Per l'occasione aprimmo anche due grandi porte di bronzo scolpite da un artista di Molfetta. Una folla incredibile gremiva la piazza piena di luci. Quando il corteo guidato dal cerimoniere giunse davanti all'ingresso, ho battuto per tre volte, col martello, e le porte si sono spalancate, e la chiesa subito si riempì di gente.

Al momento dell'omelia, suggestionato dalla folla che gremiva la piazza e la chiesa, misi da parte le idee e gli appunti che avevo preparato, e parlai alla gente: “Carissimi fratelli, abbiamo inaugurato queste porte di bronzo e siamo entrati dalla piazza verso la chiesa. Vorrei tanto inaugurare un altro giubileo, magari fra venticinque anni, invertendo però le simbologie: invece di entrare dalla piazza verso la chiesa, spalancheremo le porte per andare verso la piazza: andremo ad occupare tutte le arterie del mondo, andremo sui pianerottoli, nei condomini, nelle strade, nei vicoli, e - c'era il porto li vicino - andremo al porto di Molfetta, andremo anche lì, perché questo è il nostro compito. Oggi non abbiamo bisogno di molte simbologie che ci orientino verso Gesù Cristo, perché lo sentiamo, specialmente in mezzo ai giovani, sentiamo che c'è questo orientamento verso di lui. Anche se non si vive con coerenza, si avverte che Cristo è il centro, è il cuore di tutta la terra, è il punto di convergenza di tutte le nostre tensioni, lo sentiamo. Non c'è bisogno di molte simbologie, non c'è bisogno di una porta di bronzo che si apra verso l'interno a simboleggiare il nostro convergere da tutte le parti del mondo, come affluenti, verso di lui che è il cuore della terra. C'è bisogno di una simbologia rovesciata, di simbologie che ci facciano capire che Gesù noi lo dissequestriamo, lo facciamo uscire dalla Chiesa, spalanchiamo le porte e andiamo verso il mondo. L'anno venturo - dissi così - l'anno venturo, o fra venticinque anni se celebreremo un nuovo giubileo, lo faremo con questi simboli rovesciati».

Tornato in episcopio, sono andato in cappella per chiedere scusa al Signore, caso mai avessi esagerato volendo essere originale a tutti i costi: ma non ho trovato motivi per chiedere perdono, anzi ho provato il gusto della recidiva, ricordando il grido di Giovanni Paolo II: «Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo».

Perché al Vangelo non manchi il mondo.

A me è parso che questo invito Giovanni Paolo II lo abbia rivolto ai fedelissimi di Gesù, ai suoi "ultras", a quelli che stanno sulle curve a fare il tifo per lui; non l'ha rivolto ai lontani, ai giovani che stanno ai margini, alle periferie, quasi a dire: «Aprite le porte a Cristo, fategli spazio, perché vi faccia contenti e dia senso alla vostra vita». Mi sembra che il papa, invece, voglia dire proprio ai fedelissimi: «Aprite le porte a Cristo, lasciatelo uscire un po', toglietelo dai ceppi in cui l'avete incatenato, all'interno magari delle vostre liturgie, all'interno del nostro intimismo, talvolta molto gratificante, col quale lo stringiamo in catene. Apriamo le porte a Cristo, dissequestriamolo, facciamolo uscire, facciamolo andare verso il mondo».

Qualche anno fa il tema della Giornata Missionaria era: “Perché al mondo non manchi il Vangelo”. Anche qui è bellissimo pensare ad un'inversione: «Perché al Vangelo non manchi il mondo». Che senso avrebbe un Vangelo senza mondo? una Chiesa senza mondo? Non solo perché al mondo non manchi il Vangelo, ma anche perché al Vangelo non manchi il mondo: è un nostro compito fondamentale agganciare il mondo alla Chiesa, il mondo al Vangelo, per portarlo nella stazione del Regno.

Abbiamo già detto che la Trinità è la sorgente prima e la meta ultima della Chiesa: Ecclesia de Trinitate, Ecclesia ad Trinitatem. Abbiamo ripetuto che siamo - dobbiamo essere - la propaggine della Trinità. Nel movimento dalla Trinità alla Chiesa c'è una stazione intermedia, una fermata obbligatoria: è l'eucaristia, è la gemma che spunta sull'albero della Trinità. Dalla Trinità non si arriva alla Chiesa se non si passa attraverso l'eucaristia. È l'eucaristia che fa la Chiesa, come la Chiesa fa l'eucaristia. Quante volte avete sentito quest'assioma. Dovremmo fare la riscoperta entusiasta dell'importanza dell'eucaristia nella nostra vita.

Anche nel viaggio di ritorno, dalla Chiesa alla Trinità, c'è una fermata obbligatoria, una stazione intermedia senza la quale non si entra nella Trinità: la fermata obbligatoria, la stazione intermedia, è il mondo. Come dire la locomotiva della Chiesa non può entrare nella stazione del Regno senza aver agganciato la carrozza del mondo, perché se una Chiesa dovesse presentarsi senza aver agganciato il mondo non potrebbe entrare all'interno della famiglia di Dio.

Anche se il paradosso delle immagini può avere falsato qualche lineamento teologico, mi sembra molto espressivo. Queste cose dobbiamo saperle dire anche ai nostri fedeli con più coraggio, perché dissequestrino Gesù Cristo, dissequestrino la Chiesa, qualche volta liberino anche noi dai ceppi rituali nei quali siamo bloccati.

Abbiamo cercato di chiarire cosa significa “Sacerdoti per il mondo insieme a tutta la Chiesa», attraverso la Parola, i sacramenti, la testimonianza, soprattutto la testimonianza di comunione. Il presbitero deve sentire l'ansia della Chiesa, deve esplicitare l'anelito della Chiesa verso il mondo, perché il secolo entri nel sabato eterno, il secolo diventi sabato eterno. Questo è il nostro compito.

Non siamo alternativi ad altri progetti.

Entrare nel mondo significa soprattutto mettersi a servizio del mondo, mettersi al servizio della gente. Dovremmo essere anche i ministri, i cirenei, della felicità della gente. Dovunque vediamo progetti validi a favorire la crescita globale dell'uomo e della città terrena, dovremmo mettercela tutta perché tali progetti si realizzino, perché non vadano in fumo, senza troppo sottilizzare sul nome del progettista o sulle sigle del loro distintivo.

Qualche volta esprimiamo si la nostra simpatia per il mondo, ma vogliamo prima vedere le etichette, le sigle. Abbiamo paura di afferrare con tutto il cuore i temi fondamentali per la vita del mondo, perché magari sono portati avanti da quel gruppo, sono sostenuti da quella sigla o da quell'altra etichetta. Quante paure! Dimentichiamo, a volte, di essere presbiteri per tutto il mondo, per tutta la gente, per l'ecumene, per l'universalità. Non siamo i sacerdoti di un gruppo, di una parte, di una porzione.

Ribadiamo, ancora una volta, che come Chiesa desideriamo intensificare la nostra azione di rispetto, di incoraggiamento, di sostegno, di preghiera, perché tutti gli uomini impegnati nelle istituzioni pubbliche conducano nel migliore dei modi la loro difficile missione.

Noi non siamo alternativi con quelli che esprimono un servizio all'interno della società. Non siamo più bravi ad aprire case per tossicodipendenti, non siamo più bravi a venire incontro agli anziani, a venire incontro agli orfani: guai se dovessimo metterci a fare il braccio di ferro con le istituzioni. Noi dobbiamo essere servi del mondo. Come Chiesa non cerchiamo spazi in cui esprimerci come padroni invece che come servi.

Qualche volta ci dicono che noi non amiamo la città terrena, che noi non amiamo lo Stato. Durante la guerra del Golfo, certi tromboni della cultura contemporanea, della cultura laica, hanno scritto che a noi manca il senso dello Stato. Non è vero. Anche noi siamo italiani, amiamo l'Italia: una, repubblicana, laica ma non laicista. E se qualcuno dubita del nostro amore per lo Stato, per la città terrena, ci offende non meno di chi dubita del nostro amore per la Chiesa, per Gesù Cristo.

Entrare nella città significa vivere con cordialità, offrire una mano a tutta la gente. In questo senso noi vorremmo servire meglio coloro che sono chiamati a servire il popolo: senza pretendere di essere alternativi al loro progetto, non presentiamo un progetto «altro», un progetto nostro, ma indicando costantemente l'«oltre» di qualsiasi progetto umano. Questo significa entrare nella città: indicare l’oltre di qualsiasi progetto umano.

Preghiera alla Vergine in cammino.

A proposito di questo entrare nella città, interpretando i vostri sentimenti, vorrei, se mi riesce, rivolgere una preghiera alla Vergine santa. Questo riferimento a Maria è d'obbligo, perché siamo in casa sua.

Vergine santa, che, guidata dallo Spirito, «ti mettesti in cammino per raggiungere in fretta una città di Giuda», dove abitava Elisabetta, e divenisti così la prima missionaria del Vangelo, fa' che, sospinti dallo stesso Spirito, abbiamo anche noi il coraggio di entrare nella città per portarle annunci di liberazione e di speranza, per condividere con essa la fatica quotidiana, nella ricerca del bene comune.

Donaci il coraggio di non allontanarci, di non imboscarci dai luoghi dove ferve la mischia, di offrire a tutti il nostro servizio disinteressato e guardare con simpatia questo mondo nel quale nulla vi è di genuinamente umano che non debba trovare eco nel nostro cuore.

Aiutaci a guardare con simpatia il mondo, a volergli bene.

Noi sacerdoti troviamo il culmine della nostra presenza presbiterale nel giovedì santo, quando vien posto nelle nostre mani l'olio dei catecumeni, l'olio degli infermi e il sacro crisma. Fa' che nelle nostre mani l'olio degli infermi significhi scelta preferenziale della città malata, che soffre a causa della debolezza propria o della malvagità altrui. Fa' che l'olio dei catecumeni, l'olio dei forti, l'olio dei lottatori, esprima solidarietà di impegno con chi lotta per il pane, per la casa, per il lavoro. Solidarietà da tradurre anche con coraggiose scelte di campo, offerta di impegno da non imbalsamare nel chiuso dei nostri sterili sentimenti. E fa' che il sacro crisma indichi a tutti gli umiliati e gli offesi della nostra città, ma anche agli indifferenti, ai distratti, ai peccatori, la loro incredibile dignità sacerdotale, profetica e regale. Come te, Vergine santa, sacerdote, profeta e re, facci entrare nella città. Amen.


Tonino Bello

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