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Una Rete di sconnessi in Corea del Sud

Può mancare il pane, ma il wi-fi è ovunque. E l'esplosione del digitale ha reso i giovani incapaci di vivere...


Una Rete di sconnessi in Corea del Sud

 

C’è chi ha nascosto lo strumento proibito nel doppiofondo della valigia per usarlo di nascosto lontano da occhi indiscreti e c’è anche chi si è svegliato nottetempo, buttandosi addosso al buio quello che capitava, sgattaiolando fuori dalla camera, scavalcando il recinto del campo per scappare e raggiungere a piedi la città più vicina, a oltre due chilometri di distanza. Sono tanti a subire crisi di panico nel Centro nazionale per la cura dei giovani dipendenti a Muju, nel cuore della Corea del Sud. I circa cinquemila ragazzi tra i 10 e i 18 anni ospitati nel campo aperto da un anno, non devono disintossicarsi da droga o alcol ma da internet e dagli smartphone.

 

La Corea del Sud è il paese più connesso al mondo e non c’è sperduta cittadina che non sia raggiunta dalla fibra ottica. Nella patria di Samsung c’è la più alta percentuale di penetrazione di smartphone tra la popolazione: il 70 per cento dei 50 milioni di abitanti, cioè oltre 35 milioni, ne ha uno ma il dato, che per il Wall Street Journal salirà nel 2017 all’85 per cento, già raggiunge quasi il 90 per cento se si considerano solo i giovani a partire dai 6 anni (erano il 21,4 nel 2011). Il cellulare è considerato così indispensabile che Samsung, insieme al gestore telefonico SK Telecom e d’accordo con il governo, metterà gratis a disposizione per i turisti stranieri 250 telefonini a settimana, da restituire alla fine del soggiorno.

Nella metà meridionale della penisola di Corea può mancare il pane, ma non la rete. Se il 15 per cento della popolazione circa vive sotto la soglia della povertà, il 97 per cento delle case dispone di una connessione veloce e a basso prezzo (in Italia il 64 per cento). Il paese ha anche la banda larga migliore del mondo, con una velocità media di 23,6 mega al secondo. Il wi-fi copre ogni singolo angolo del territorio ed è così avanzato che è usuale per i giovani guardare televisione e film in live streaming anche in metropolitana senza rallentamenti. La tecnologia ha cambiato i costumi. Il 66,7 per cento dei sudcoreani che hanno internet guarda i film online e il televisore sta cadendo in disuso. Anche la pubblicità si sta spostando di conseguenza e solo nel 2015 un miliardo e 461 milioni di euro sono stati spesi in pubblicità su siti e app.

 

Le connessioni ultraveloci favoriscono anche l’uso di videogiochi. Giocare su internet non è un passatempo in Corea del Sud ma uno sport nazionale a tutti gli effetti, praticato da un abitante su due. Milioni di persone spendono abitualmente ore su videogiochi come StarCraft, World of Warcraft o League of Legends. Il giro d’affari è enorme: le due principali aziende sudcoreane sviluppatrici di giochi del computer hanno avuto un utile netto nel 2012 di 330 milioni di dollari. La maggior parte dei giovani e meno giovani non gioca in casa ma al costo di un dollaro all’ora negli oltre 20 mila internet caffè o nei cosiddetti “Pc Bang”, dove le sale sono divise in centinaia di piccoli blocchi, o loculi, separati l’uno dall’altro da pareti, dotati di computer a massima velocità.

 

 

Il fuoriclasse

Giocare può essere anche un’attività remunerativa e a tempo pieno: ci sono dieci leghe di professionisti per i principali videogiochi e squadre regolarmente stipendiate (famosa la KT Rolster), dove gli “atleti” vivono insieme, si allenano per almeno otto ore al giorno e vanno in ritiro prima dei match. I tornei nazionali e internazionali, che si svolgono in sale enormi simili a stadi, con tanto di pubblico osannante, vengono trasmessi in diretta su due canali televisivi specializzati che offrono informazione sui videogiochi 24 ore su 24. I canali sono seguiti da 10 milioni di persone e i campioni sono visti come i calciatori o le rockstar e vengono inseguiti dalle ragazzine per gli autografi e i selfie. Il fuoriclasse leggendario di StarCraft, Yo Hwan-lim, soprannominato “Imperatore”, tra tornei e sponsor è arrivato a guadagnare 350 mila euro all’anno.

Una simile esplosione e diffusione della tecnologia, che non ha pari in nessun altro paese al mondo, ha degli effetti collaterali. Secondo l’ultima ricerca del ministero della Scienza e tecnologia il 30 per cento dei giovani è «pesantemente dipendente dagli smartphone e da internet», il 17,8 per cento in più rispetto al 2011. Stiamo parlando di almeno 2,4 milioni di persone, in crescita rispetto al 2010 (1,7 milioni) e al 2000 (500 mila). La maggior parte di loro è sulla ventina e trentina. Il 50 per cento degli intervistati ha ammesso che quando non può usare il cellulare diventa nervoso e che ormai chattare sui social network è un’abitudine che distoglie dallo studio e dal lavoro. La dipendenza digitale resta un concetto controverso e non è riconosciuta dall’American Psychiatric Association come disturbo, ma per gli psicologi sudcoreani è connessa ad ansia, aggressività, problemi cognitivi, scarsa memoria, inferiore sviluppo del cervello, fino a una vera e propria «demenza digitale».

In Corea del Sud se ne parla da almeno vent’anni ma è nel 2010 che la patologia ha conquistato le prime pagine di tutti i giornali. Quell’anno, infatti, si è svolto il processo a una coppia sposata che ha lasciato morire di stenti il proprio figlio mentre si dilettava con sessioni da 12 ore al giorno di Prius Online, un gioco fantasy 3D dove bisogna crescere una bambina virtuale. Il governo allora ha cercato di correre ai ripari: prima ha approvato la “legge Cenerentola”, che limita agli under 16 l’accesso ai giochi online da mezzanotte alle sei del mattino. Dopo il fallimento di questa misura, ha stanziato 400 euro per ogni giovane che desideri farsi curare in ospedale o nei campi di riabilitazione sparsi un po’ ovunque nel paese.

 

 

«Senza cellulare sono spacciato»

Nel campo di Muju, dove i giovani soffrono di crisi di astinenza, si cerca di far riscoprire il gusto della realtà e delle relazioni umane. I corsi durano tre o quattro settimane e si svolgono attività semplici come giochi di società, gite in montagna, corse all’aria aperta, sport, musica. Ma anche una partita a briscola è vista come rivoluzionaria. Yoon Yong-won, 18enne di Pocheon, a nord della capitale Seul, ha passato un’intera estate a giocare al computer 14 ore al giorno. Quando la scuola è ripresa ha diminuito il tempo dedicato al display del pc o del telefonino di due ore, ma ai genitori non è bastato. E a dicembre l’hanno iscritto nel centro per un ciclo di riabilitazione di 27 giorni. «Quando sono arrivato e mi hanno tolto il telefono di mano ho pensato: “Sono spacciato”», ha dichiarato al Washington Post. «Mi sentivo in carcere e sognavo di chattare». Non è certo l’unico a non essere più capace di condure una vita “analogica”. Yoon Suk-ho, 14 anni, ha lo stesso problema: «Mia mamma mi ha obbligato a venire qui. Quando mi hanno costretto a consegnare il telefonino e l’hanno chiuso nella cassetta di sicurezza mi sono detto: “Come posso vivere senza?”».

Il problema secondo Kim Nam-hee, membro di un’associazione nata per aiutare i giovani a disintossicarsi, è che «gli smartphone rischiano di farci diventare schiavi imbelli, senza cervello. Se si fa un cattivo uso del telefonino non si consente al cervello di potenziare quelle stesse abilità che hanno consentito l’invenzione degli smartphone. Non è ironico?». Per Byun Gi-won, dottore e ricercatore a capo del Balance Brain Center, «l’abuso dello smartphone e dei videogiochi danneggia il cervello, perché ne fa sviluppare la parte sinistra, lasciando quella destra sottosviluppata». I primi a preoccuparsi sono i genitori. Park Sung-hee è madre di due figli e non sa bene quali contromisure prendere: «Giocano anche di notte e non sono più capaci di comunicare o godere di altre cose nella vita».

 

 

Cinquanta ore non stop

L’incapacità di godere della vita è una delle conseguenze cruciali della patologia digitale. Il dottor Lee Tae Kung, che ha messo in piedi un programma speciale per curare la dipendenza, si è ispirato a un romanzo degli anni Settanta del celebre autore tedesco Michael Ende: Momo. «Quando giochiamo, il tempo nel gioco scorre più veloce che nella realtà e i giocatori non si accorgono di quello che passa nel mondo reale». Il suo programma si chiama Hora (“felicemente spenti [non connessi] per recuperare l’autonomia”), che è anche il nome del personaggio che nel libro di Ende amministra il tempo e aiuta Momo a sconfiggere i Signori grigi. Queste losche figure, con la scusa di insegnare agli uomini a risparmiare il tempo, li schiavizzano spingendoli a evitare ogni azione che porti senso e soddisfazione alla vita. I Signori grigi di oggi per il dottor Lee, neanche a dirlo, sono internet, gli smartphone e altri strumenti digitali. E come mastro Hora, quando la sua casa al mattino è assediata dai Signori grigi, alla domanda allarmata di Momo «E ora cosa facciamo?», risponde «Dobbiamo fare colazione», così Lee cerca di far riscoprire ai suoi pazienti le cose semplici e banali della vita.

Con Kim Sang-ho il progetto ha funzionato. A 24 anni sapeva di avere un problema serio: «Una volta ho giocato al computer per 27 ore di fila. Mi sono seduto in una Pc Bang e ho cominciato. Mi sono alzato solo due volte per andare al bagno». Questo atteggiamento è molto pericoloso: nel 2005 a Taegu un uomo di 28 anni è morto per aver giocato per 50 ore di fila, accasciandosi sulla tastiera del computer. La mancanza di sonno e cibo gli ha causato una insufficienza cardiaca. Kim dopo un mese senza internet passato a svegliarsi alle 6.30 e andare a letto alle 22.30, suonando strumenti musicali, passeggiando e chiacchierando, si sente rinato. «Ora posso pensare chiaramente, riesco a concentrarmi sulle cose e gioco meno. Passavo tanto tempo al computer perché non volevo avere niente dalla vita. Al campo ho scoperto che mi piacerebbe fare il medico». L’obiettivo è restituire l’uomo a se stesso perché a forza di guardare telefonini, oltre alle relazioni umane, anche i desideri si spengono o vengono inibiti.

 

 

Un problema educativo

Finché si è dentro il campo, la terapia sembra funzionare. «A casa giocavo solo al computer, ma qui parliamo anche tra di noi. Non è così male», ammette un 14enne. Per quanto le cliniche di disintossicazione da web possano essere utili, la verità è che la “recidiva” una volta tornati alla vita di tutti i giorni è altissima. Il problema, infatti, è soprattutto educativo e difficilmente può essere risolto dal governo. Spiega Lee Jung-hun, psichiatra e docente presso l’Università cattolica di Daegu: «Molte giovani madri oggi fanno giocare i figli con i telefonini per troppe ore al giorno pur di avere un po’ di pace in casa. Questo è davvero pericoloso. Più sei giovane, più è facile diventare dipendenti». Forse l’unico luogo dove la dipendenza può davvero essere combattuta in modo efficace è la famiglia secondo Eom Na-rae, della National Information Society Agency: «La dipendenza da internet è difficile da reprimere. Spesso i genitori non hanno tempo di prendersi cura dei figli e non si accorgono dell’eccessivo uso che fanno dei telefonini. Ma sono le famiglie le prime a dover fare più attenzione».

 

 

Leone Grotti

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