Nel monastero dove si riparano i vestiti di santi e martiri

A Mater Ecclesiae, sull’isola di San Giulio, dieci suore benedettine sono impegnate nella riparazione degli abiti di 19 missionari che hanno perso la vita per la fedeltà al Vangelo

Toccare queste vesti, ripulirle, sistemarle significa per noi dire “grazie” a questi fratelli coraggiosi perché miti, disarmati, somiglianti a Gesù, l’Agnello di Dio che ha salvato il mondo. È un’esperienza toccante, molto più che un’operazione di sartoria. Un aiuto a immedesimarci nell’esperienza di chi, amato da Cristo, è diventato capace di amare gli uomini». Suor Maria Lucia riassume con queste parole le sensazioni che vive in questi giorni, mentre si sta cimentando nella riparazione dei vestiti appartenuti a 19 missionari del Pime, il Pontificio Istituto Missioni Estere con sede a Milano, morti a causa del Vangelo in diverse epoche in Cina, Birmania, Bangladesh e Filippine e che la Chiesa ha riconosciuto come martiri. L’operazione di “restauro” si svolge dentro le mura austere e cariche di storia dell’abbazia benedettina Mater Ecclesiae nell’isola di San Giulio sul lago d’Orta (Novara), dove dieci monache, sotto la guida di suor Maria Lucia, lavorano in un laboratorio tessile, un’attività divenuta nel tempo un’eccellenza riconosciuta a livello nazionale. Declinano in questo modo l’ora et labora, la regola stabilita da Benedetto da Norcia quindici secoli fa e che scandisce le loro giornate.

 

Anche se agli occhi del mondo possono apparire come due dimensioni lontane e addirittura agli antipodi, contemplazione e missione vengono vissute in un rapporto molto stretto. Racconta Maria Lucia: «La preghiera di una monaca di clausura, che ogni notte e più volte al giorno varca la soglia della cappella e si inginocchia davanti al tabernacolo che conserva la memoria viva di Cristo, porta con sé il ricordo dei missionari, soprattutto quelli che vivono le situazioni più a rischio: non per nulla santa Teresina di Gesù Bambino, claustrale, è la patrona dei missionari. Lei stessa in una lettera a un missionario scriveva: “Chiedo per te la palma del martirio”, cioè il coraggio di testimoniare Cristo sino alla fine e di amare i fratelli a te affidati con amore indefettibile».

La richiesta di intervenire sugli abiti dei 19 missionari martiri è arrivata nei giorni scorsi da padre Massimo Casaro, responsabile dell’Ufficio beni culturali del Pime: «Questi indumenti – abiti talari, pianete, cotte, oggetti di uso liturgico o quotidiano – racchiudono un grande valore affettivo e storico, sono la memoria dei nostri confratelli che hanno pagato con la morte la loro fedeltà al Vangelo».

L’operazione richiede grande cura e professionalità, come spiega Maria Lucia: «Come prima cosa abbiamo inserito le vesti dei missionari nella tenda anossica, per procedere con il trattamento della disinfestazione che ha un percorso di tre settimane. Il nostro intervento consiste nel liberare da ogni attacco nocivo alla buona conservazione. Provvediamo a una delicata e accurata pulitura con micro e macroaspirazione, seguita da un tamponamento o vaporizzazione o anche immersione. Si prosegue poi fissando e consolidando le parti tessili che si sono rotte, staccate, lacerate, il tutto con la massima attenzione per non essere invasive, in quanto queste vesti possono essere considerate delle reliquie per contatto».

Nel laboratorio del monastero vengono restaurati manufatti ecclesiastici, paramenti, abiti sacri e profani, bandiere, tende e drappi di castelli storici. Gli interventi sono commissionati da cattedrali, parrocchie, confraternite, musei, enti locali, privati. Tra gli interventi più significativi, il restauro delle vesti che ricoprono le salme dei santi Ambrogio, Protaso e Gervaso nella basilica di Sant’Ambrogio a Milano. Di pochi mesi fa è il confezionamento del manto realizzato in occasione dell’Incoronazione della Madonna di Oropa, un evento che ricorre ogni secolo a partire dal 1620 e che a causa dell’epidemia da coronavirus è stato spostato al 29 agosto 2021. Su commissione del santuario di Oropa è stato realizzato un “mosaico” con pezzi di tessuto inviati da migliaia di fedeli che hanno reso omaggio a Maria con qualcosa che “racconta” episodi significativi della loro vita.Oltre al restauro di tessili, le monache curano un atelier per la scrittura di icone, un laboratorio di ricamo e confezione di paramenti sacri, un laboratorio di tessitura a mano e attività legate alla pubblicazione di testi della madre fondatrice Anna Maria Canopi.


di Giorgio Paolucci 

tratto da Avvenire.it

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