News 3

Il Regno dove regna l'amore Mercoledì

È un Regno in cui Cristo ci ha trasferiti liberandoci dal “potere delle tenebre (Colossesi 1, 12) e in cui è difficile entrare per coloro che posseggono ricchezze” (Luca 18, 24).


Il Regno dove regna l’amore Mercoledì

da L'autore

del 01 gennaio 2002

Il Regno dei cieli significa il Dio con noi. Non ci potrebbe essere una notizia più esaltante. Dio è con me vitalmente – Dio mi è alleato. La mia vita diventa vita divina, la mia storia, una storia sacra.

LODI: salmo 23 – salmo 122 – Cantico di Tobia (13)

VESPRO: salmo8 – salmo 126 – Cantico delle nozze (Atti 19, 1)

LETTURE: Ezechiele 36 – Osea 2 – Luca 13

Il Regno dove regna l’amore

Abbiamo parlato ieri di questo Regno dei Cieli, di questo regno celato, nascosto, a cui la fede mi ha fatto aderire, la speranza mi conduce e la carità mi svela come regno di “verità e di vita, regno di luce e d’amore, regno di giustizia e di pace”.

È un Regno preparato per noi “fino dalla fondazione del mondo” (Matteo 25, 34) e che si sviluppa “senza ostentazione” (Luca 17, 20).

È un Regno in cui Cristo ci ha trasferiti liberandoci dal “potere delle tenebre (Colossesi 1, 12) e in cui è difficile entrare per coloro che posseggono ricchezze” (Luca 18, 24).

È un regno dove “il più piccolo è più grande del Battista e dove i nostri nomi sono scritti in cielo” (Luca 10, 20).

È un regno che somiglia a un “granellino di senape all’inizio che poi si sviluppa come un grande arbusto dove gli uccelli possono ripararsi” (Luca 13, 19) e dove verranno molti da “oriente e occidente, da settentrione e da mezzogiorno per sedersi alla sua mensa” (Luca 13, 29).

Questo lo sappiamo dal Vangelo. Ma sappiamo anche che questo Regno più che una legislazione o un luogo è una Persona: Gesù.

È la sua caratteristica unica.

li punto di convergenza della mia fede, la forza della mia speranza, il motivo del mio amore è una Persona: il Cristo.

Le fila dell’ideale rivoluzione sono tenute da Lui, il centro di ogni convegno è Lui.

il consigliere è Lui

il conforto è Lui.

È un modo straordinario per facilitare le cose.

È il più semplice per sviluppare la dinamica dell’amore che è sempre un rapporto tra due persone.

Io – tu e in questo tu c’è Dio che ha messo la tenda vicino a me e si chiama Gesù.

“Il Signore è il mio pastore non manco di nulla;

su pascoli erbosi mi fa riposare ad acque tranquille mi conduce ristora l’anima mia” (Ps. 23).

Credere che Dio è il mio pastore, che mi conduce, che mi chiama per nome mi dà tanta sicurezza e tanta tenerezza.

La mia debolezza sta nel sentirmi solo nella grande città.

È soprattutto quando le cose non si capiscono, quando soffro, quando piango, quando l’esperienza del mio limite mi conduce contro il muro della mia incapacità, quando la mia povertà mi fa capire cosa significa essere uomo, è allora che devo fare il salto nella speranza e credere al Dio dell’Impossibile.

E invece?

Troppe volte mi ripiego su me stesso e dimentico ciò che gli ho detto nella preghiera:

“Signore, sei tu il mio pastore”.

E lo dimentico nel momento in cui ne ho più bisogno.

Non siamo soli nel cammino della vita; questo dovrebbe essere il pensiero costante della mia fede. Possiamo contare su Dio e concretamente.

È Lui che ci può aiutare.

Se il bimbo nel seno della madre, preoccupato di uscire, contasse sulle sue forze e sulla sua abilità non uscirebbe mai alla luce.

Ma c’è chi lo farà uscire.

È la dinamica stessa della natura, è il mistero di chi l’ha preceduto, è la generazione stessa in cui è immerso che lo aiuterà ad uscire dalle acque.

La nostra debolezza è che guardiamo a noi, sempre a noi, solo a noi.

Non teniamo conto che la mamma è vicina e Dio è la mamma in cui viviamo e siamo.

E che ci farà uscire alla luce.

Il Regno dei cieli significa Dio con noi.

I tempi messianici sono i tempi in cui è annunciata questa verità e resa possibile dal volere di Dio.

È il sunto dei Vangeli, la buona novella ai poveri.

E chi è il povero?

Sono io il povero, bimbo di Dio nel seno della generazione oscura che grida il suo limite e la sua incapacità.

Ora mi è annunciato e ne prendo coscienza. Ed è annunciato oggi.

La realtà esisteva già, ma non conta la realtà se non ero maturo ad accoglierla.

Non mi dice nulla Dio se io non scopro che Lui è vivo.

Non serve che Lui venga a me e che io non lo veda.

Il tempo messianico è legato a una maturità della fede. Infatti non è venuto subito il tempo messianico. Non è venuto all’inizio della storia di Adamo, non è venuto all’inizio della mia vita: è venuto quando l’uomo poteva capire, quando io potevo capire.

Il tempo messianico è il tempo dell’amore, cioè il momento in cui avverto l’altro di Dio.

I tempi precedenti hanno preparato la venuta, il tempo messianico è la venuta.

È l’oggi dell’amore.

È l’oggi della comunicazione.

È la vita a due.

È la storia sacra che comincia per me.

La mia storia sacra comincia dal momento in cui nella fede ho fatto esperienza che non sono più solo, che ormai camminerò con Lui.

E la paura è finita.

Siamo in due.

Lui è il Re, io suo suddito e insieme facciamo, sviluppiamo il Regno.

Ma siamo in due.

E Lui è più importante, devo convenirlo. Sembra una sciocchezza dire questo ma la realtà è che gli uomini si credono più importanti di Dio, si sentono al centro delle cose e degli avvenimenti.

Sono pochissimi quelli che mettono Dio al centro e che hanno l’occhio della fede fisso in Lui.

Per aiutarci ad arrivare lì la realtà ci offre come mezzo la povertà, la debolezza, il peccato, ma siamo talmente bagnati di orgoglio che i più credono solo quando sono ridotti a pezzettini.

Non per nulla l’umiltà è la regina delle virtù ed è solo attraverso essa che ci avviciniamo a Dio.

Un passo enorme di questo avvicinamento lo facciamo il giorno in cui esperimentiamo nella fede che la nostra storia non è fatta solo da noi. La facciamo con Lui.

E Lui è il primo e noi i secondi semmai.

La mia vocazione è nelle sue mani, prima di essere nelle mie.

Il mio futuro è in Lui.

Ci sono delle ragazze che giunte ad una certa età incominciano a reclinare nella tristezza perché non vedono più il loro domani.

In alcune diventa tragedia e la preoccupazione di non realizzarsi, di non sposarsi le paralizza.

E più soffrono, più si chiudono in se stesse. Più hanno bisogno di spazio, più si riducono ad un orizzonte grigio.

Se nella fede riuscissero a fissare il loro occhio in Dio e a sentirlo vicino, alleato, re, amico, fratello, padre, smetterebbero di battersi contro un destino misterioso e incomincerebbero a scorgere la verità di una vocazione più difficile ma più profonda, più sofferta ma più vera.

Ognuno ha la sua strada ed è la più bella se offerta da Dio. Il volerne un’altra è da stolto, ed è sofferenza inutile insistere sulle cose che non esistono o sui sentieri che non sono fatti per noi.

Accettare il Regno dei cieli in noi significa accettare la nostra vocazione che Dio ci prepara attraverso il reale in cui siamo immersi.

Ma Dio mi precede.

Ed è Dio perché precede tutti perfino la creazione.

Precede Adamo.

Precede Abramo.

Precede Davide.

Precede Mosè.

Ed è Lui che dà la vocazione ad ognuno. Chiama Adamo alla vita, fa uscire Abramo dalla sua terra, insegna il canto a Davide, dà a Mosè il suo potere di condottiero.

E per far loro capire che è Lui che agisce, che chiama, che vivifica, li conduce al limite della loro povertà.

Per Adamo sarà la debolezza dell’uomo, per Abramo sarà la sterilità di Sara, per Davide sarà l’umiliazione nel suo peccato orribile, per Mosè sarà l’invalicabilità del Mar Rosso e il continuo “mormorare” del suo popolo.

Dio conduce sempre l’uomo al suo limite – e l’estremo limite è la morte a cui nessuno può sfuggire – perché capisca e goda la Buona Novella.

E la Buona Novella è che Dio è Dio, che Dio è il Dio dell’Impossibile, è il Dio che può rendere fecondo un seno arido e morto come quello di Sara e aprire in due le acque del mare.

È un Dio vivente.

È un Dio che guida.

È un Dio che fa risorgere dai morti.

È un Dio Eterno.

È un Dio che mi vuole nel suo regno per sempre.

Il destino nostro è talmente grande, la vocazione dell’uomo talmente radicale che non resta spazio a situazione di compromesso o a posizioni mediocri.

“Amerai il Signore Iddio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente, con tutte le tue forze; con tutto te stesso” (Deut. 6, 5).

Dio ci richiede veramente tutto e Lui stesso dirà di essere un Dio geloso.

Ma la sua è una gelosia diversa dalla nostra e se ci chiede di amarlo è perché sa che in tale amore troviamo la nostra felicità.

È nostro interesse amarlo.

Difatti se non riusciamo nella vita ad innamorarci di Dio siamo perduti.

Senza amore siamo come incompleti, immaturi, annoiati, senza paradiso.

Potremmo, senza dubitare, stabilire l’equazione: amore di Dio uguale pace, gioia, gaudio, fecondità, esultanza, paradiso; non amore uguale guerra, tristezza, solitudine, sterilità, morte, inferno.

Ed è per questo che dicevo come la nostra vocazione sia talmente radicale da non lasciare spazio a posizioni mediocri.

“Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli” (Matteo 5,48).

Le esigenze del Regno sono le stesse esigenze dell’amore che per sua natura trova uguali o rende uguali.

L’amore di Dio ci costringe a diventare come Dio, simili a Dio, coi gusti di Dio.

Non c’è scampo.

Se Dio ama la luce anche noi dobbiamo amare la luce.

Se Dio perdona anche noi dobbiamo perdonare.

Se Dio muore per amore anche noi dobbiamo giungere a morire per amore.

Fare il Regno significa proprio questo: lavorare, agire per divenire simili a Dio sul modello del Cri sto.

E non a chiacchiere, a fatti.

Il Regno avanza tutte le volte che poniamo un fatto concreto come risposta all’Amore che è Dio. Quando sfamo l’affamato

quando visito il carcerato

quando vesto l’ignudo

quando perdono il nemico

quando condivido i miei beni

quando consolo gli afflitti

quando prego per i vivi e per i morti.

Ma le esigenze dell’amore vanno ancora più lontano, più lontano ancora dello stesso bene, delle stesse opere, della stessa vocazione.

Al di là della Promessa.

Abramo ne è l’esempio più radicale e il suo dramma, la sua via è nostro dramma e nostra vita.

Fate attenzione.

Appena il Patriarca ha il Figlio della Promessa, l’ideale atteso da sempre, il sogno più puro e più prezioso della sua vocazione si sente dire da Dio stesso:

“Dammi tuo figlio” (Genesi 22)

e gli chiede di sacrificarlo sul monte.

Che cosa può significare una simile domanda? Quale luce esce dalla tenebra più fitta di questa richiesta?

Ben lo sappiamo perché è dentro ciascuno di noi, là nel profondo dove l’amore stabilisce il suo scrigno prezioso. I doni di Dio sono così splendidi che ci minacciano di idolatria.

Isacco sta diventando l’idolo di Abramo.

La nostra vocazione ci insuperbisce.

Si offusca in noi la trasparenza dell’Assoluto di Dio.

“Dammi tuo figlio” chiederà Dio al Patriarca che vive in ciascuno di noi.

Questa domanda è posta da Dio su ogni suo dono.

Per non correre il pericolo che Isacco diventi padre di Abramo e lo blocchi sul cammino dell’amore o che il bene che noi facciamo ci veda prostra ti in adorazione davanti a noi, Dio ce lo richiede.

Dio è più grande.

Le esigenze del suo amore ci obbligano ad andare oltre.

Noi siamo ciò che abbiamo donato.

E sarà solo dopo aver chiaramente e dolorosamente offerto il Figlio della nostra opera che, Abramo e noi con lui, lo potremo riavere nella perfetta libertà.

Solo l’amore di Dio come Assoluto ha il potere di tener ci lontano dall’idolatria e conservar ci liberi.

Senza amore di Dio, presto o tardi ognuno di noi diventa schiavo della sua vocazione, figlio di suo figlio bloccando nella sterilità e nella strumentalizzazione del possesso il cammino mai compiuto dell’amore infinito.

Leggendo il Vangelo di Luca sull’infanzia di Gesù non avevo mai capito come Maria e Giuseppe avevano potuto essere così distratti da perdere Gesù durante il pellegrinaggio a Gerusalemme.

Tra me dicevo nella mia insipienza: io non l’avrei certo perduto.

A costo di legarlo con una cordicina al mio piede come si fa con le pecore, nel deserto, io mi sarei rassicurato che la storia non parlasse male di me raccontando a tutti che io, custode del figlio di Dio, avevo avuto la sbadataggine di smarrirlo in una città così pericolosa come la grande Gerusalemme.

Ebbene, ora capisco che l’averlo perduto da parte di Giuseppe e Maria è il titolo più luminoso per essi come segno della loro estrema libertà nei riguardi di Gesù e più ancora nei riguardi del Padre che sta nei cieli

Maria non era “mammista” ed era così libera da lasciare circolare con libertà suo figlio. Giuseppe non era schiavo di una creatura che lo sovrastava con la eminenza del Mistero.

L’essere riuscito Lui, Gesù, a sgusciare lontano dalla loro sorveglianza è il più alto titolo che illumina la dignità della fede di queste due creature.

Si vede davvero, anche se il Vangelo non lo racconta, che Giuseppe e Maria avevano anch’essi accettato il sacrificio di Abramo:

“Dammi tuo figlio”.

Ed è per questo che Gesù era libero, talmente libero da restare lontano da loro per tre giorniTalmente libero da restare più tardi tre giorni nel ventre della terra.

Hai capito, fratello, ciò che voglio dire stasera? Non temere quando Dio ti chiama ma non temere nemmeno quando Lui tace.

Non temere quando ti chiede di compiere un’opera ma non temere nemmeno quando te la richiede.

Non temere se ti dà lo sposo ma non temere nemmeno se non te lo dà.

Dio è più grande della sua chiamata.

Dio è più grande delle tue opere.

Dio è più grande del bene che facciamo.

Ciò che conta è camminare alla sua presenza ed essere certi nella fede che è Lui che ci conduce.

Carlo Carretto

  • testo
  • articolo
  • carlo carretto
  • educatori
  • animatori
  • giovani
  • adulti
  • cristianesimo

Versione app: 3.13.5.5 (0d94227)