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Il prete venuto da due fedi

Sua madre è cattolica, suo padre musulmano. Per il resto, don Nur era un adolescente come tanti: ribelle e difficile. Finché, un giorno, sentì una chiamata che gettò nello scompiglio la sua famiglia.


Il prete venuto da due fedi

 

          «Quando ripenso alla mia storia, mi rendo conto di che cosa significhi davvero l'espressione "tutto è grazia"». Inizia così il suo racconto don Nur El Din Nassar, nato e cresciuto a Domodossola, ordinato sacerdote lo scorso giugno a Novara. Un'ordinazione che ha sollevato una certa curiosità, per quel nome arabo del 32enne e per un dettaglio famigliare: il papà di don Nur, infatti, è un egiziano, musulmano praticante. E, in tempi di diffidenza e incomprensioni tra le fedi, una vicenda come questa fa notizia.

Don Nur, come è iniziata la sua storia?

          «I miei genitori si sono sposati nel 1978. È stato un colpo di fulmine che ancora non mi so spiegare. Mio papà era arrivato quell'anno dall'Egitto. Veniva da una famiglia benestante, ma era uno spirito libero: il suo Paese, patriarcale e ostaggio della corruzione, gli stava stretto. Così partì: arrivò a Venezia ma presto si trasferì a Milano, dove iniziò a lavorare come lavapiatti. Nel giorno di riposo, però, andava alla stazione, sceglieva sul momento una meta a saliva in carrozza! Un giorno era in stazione Centrale in attesa del treno per Genova. Mia mamma stava tornando da un incontro del movimento dei Focolari nella Bergamasca. Erano seduti vicini in sala d'aspetto. Non ho idea di che cosa si siano detti: lui nemmeno sapeva bene l'italiano! Sta di fatto che si scambiarono i contatti, e oggi sono sposati da 34 anni! Fin da subito, mio padre si dimostrò molto rispettoso della fede di mia madre: lei volle il matrimonio cristiano, poi insieme decisero che i figli non avrebbero ricevuto i sacramenti: da grandi avrebbero scelto da soli della loro vita spirituale. Io nacqui a Domodossola nel 1980, primo di tre fratelli, e i miei mi chiamarono Nur El Din, che in arabo significa "luce della fede"». 

Che cosa ricorda della sua infanzia?

          «Fin da piccolo ho respirato la vita di due persone che vivevano quotidianamente la loro fede. Ricordo mio padre che pregava sul tappetino, o che digiunava durante il Ramadan. In quel mese, di sera spesso ci incontravamo con gli amici per la rottura del digiuno, per cenare insieme e fare festa. Ricordo le varie ricorrenze, come la festa del Sacrificio: il papà era fedelissimo, io partecipavo a questi momenti ma lui non mi ha mai imposto nulla. Anche la mamma mi lasciava libero, sebbene mi abbia sempre invitato ad andare all'oratorio. A Natale facevamo il presepe, non c'è mai stato nessun problema né per mio papà né per i suoi amici. Quello che ho capito dal rapporto tra i miei genitori è che per un progetto di coppia è importante avere la fede al centro, e un'identità religiosa forte. I miei avevano due fedi diverse, ma li ho sempre visti assidui. Questo è stato il mio nutrimento. Mio papà era solito raccontarmi le favole, ma non si trattava di Cappuccetto rosso o Biancaneve, bensì delle storie bibliche: quella di Abramo, o di Salomone... certo un po' adattate per un bimbo! Ricordo che a me piaceva tantissimo la storia di Giuseppe, figlio di Giacobbe».

Come viveva la religione?

          «Alle elementari andavo al catechismo solo perché tutti i bambini ci andavano. Poi frequentavo una parrocchia gestita dai frati: era in un quartiere chiamato "Abissinia" perché era abitato da immigrati, che lavoravano in Svizzera. I bambini rimanevano per strada, allora i frati cominciarono a prendersi cura di loro e a dare una mano alle famiglie. In quel contesto penso che sia nata una certa amicizia e gratitudine da parte di mio padre verso questi religiosi, che esercitavano una carità molto concreta.

          All'età delle scuole medie, invece, ho cominciato a frequentare una parrocchia vicina, attiva nella pastorale giovanile. Io mi rendevo conto di sapere molte più cose sulla fede rispetto ai miei coetanei, ma non significavano nulla per me, la mia vita non ne era minimamente sfiorata».

Come ha vissuto l'adolescenza?

          «Intorno ai 14-15 anni le cose sono peggiorate. La mia vita era una contraddizione continua: passavo dall'oratorio alle serate con gli amici a base di spinelli e alcolici, dall'alpinismo alle notti in discoteca... E sempre sentivo un'impressionante sete di bellezza e di senso. Avevo incominciato ad appassionarmi anche un po' di politica, mi interessavano i temi della giustizia sociale, ma ovunque cercassi alla fine mi trovavo vuoto. Passavo di emozione in emozione senza mai essere soddisfatto, anche nelle relazioni affettive. Trovavo una fidanzata, ma poi mi accorgevo che io ero come prima, così come, dopo un campo estivo entusiasmante, tornavo a casa e non cambiava niente. A scuola me la cavavo, per lo meno a livello di voti, ma i litigi con gli insegnanti erano all'ordine del giorno. Ero arrabbiatissimo, porto ancora un tatuaggio con la "a" di anarchia fatto in quel periodo. Eppure, rileggendo ora quegli anni, penso con gratitudine alle figure di educatori che mi sono stati vicini: i miei genitori, dei bravissimi insegnanti, un sacerdote eccezionale».

Quando è avvenuta la svolta?

          «A 17 anni. Ero davvero disperato. Un giorno, un'amica mi invitò a un campo scuola. Mi disse: "Vieni, ti faccio conoscere un prete molto bravo". Era don Valentino Salvoldi, un missionario con un caratteraccio ma che davvero ama i giovani. Ho iniziato a seguirlo perché era affascinante e brillante. Il titolo del campo era "La bellezza salva il mondo": è stato il primo colpo di fulmine. Qualcosa in me ha cominciato a smuoversi. Qui non mi chiedevano di sapere delle cose su Gesù, ma mi hanno aiutato a incontrare la persona di Gesù. Il messaggio era: "Tu puoi, Dio ha fiducia in te". Pian piano ho cominciato a fidarmi, così ho parlato a don Valentino: "Questa cosa mi dà pace - gli ho detto - ma come faccio a continuare a viverla nella quotidianità?". E lui mi ha dato la ricetta: preghiera, parola di Dio e partecipazione alla vita sacramentale. Io non avevo ricevuto i sacramenti, ma don Valentino non ha accettato scuse: "Tu alla Messa domenica ci vai! E in settimana, cascasse il mondo, ritagli il tuo spazio di silenzio con te stesso e con Dio". Non so cos'è scattato, ho cominciato a farlo. All'inizio, davanti al Santissimo mi annoiavo, però stavo lì. Il Signore mi ha trattenuto, e dopo un po' la fedeltà è diventata esigenza. La mia vita cominciava ad avere un senso: non era più dispersa, avevo uno spazio in cui fare sintesi delle esperienze e relazioni».

Com'è cambiata la sua vita quotidiana?

          «Avevo cominciato a lavorare come giardiniere, poi come rocciatore, ma al venerdì sera staccavo, passavo a casa per una doccia e poi via, a incontri di preghiera un po' dappertutto. Un giorno, don Valentino mi ha detto: "È ora che inizi a fare un cammino, vai nella tua comunità, parla al parroco. Devi fare una scelta".

          Allora mi sono messo in gioco, sono andato dal parroco e ho cominciato un piccolo cammino di catecumenato. Il 30 marzo 2002, la notte di Pasqua, ho ricevuto i sacramenti. Collaboravo con la parrocchia, tra i normali alti e bassi, ma sentivo sempre una gioia profonda, una serenità: c'era finalmente qualcosa di stabile. Un giorno - era il 28 dicembre 2004 - ero a un campo scuola in montagna. Stavo davvero bene e, dentro di me, ho sentito una domanda: "E se la tua vita fosse questa? Dedicare la tua esistenza a Gesù e a raccontare agli altri tutte le cose belle che ha fatto per te?". Mi sono preso qualche mese di discernimento, durante il quale ho anche vissuto alcuni momenti forti, come la Gmg nel 2005 e un'esperienza missionaria in Albania. Poi, un giorno, sono tornato a casa e ho detto: "Mamma, il mese prossimo entro in seminario"».

Come l'hanno presa a casa?

          «Ci ho messo un paio d'ore per convincere mia madre che non la stavo prendendo in giro. Nessuno, né gli amici né il prete dell'oratorio, credevano che facessi sul serio. Ma nell'ottobre del 2005 sono entrato in seminario. Per mio padre è stata molto dura. È stato come digerire un macigno, per lui musulmano autentico come ne ho conosciuti pochi, e io l'ammiro tantissimo perché l'ha fatto. Dopo un anno difficile - in cui quando passavo a casa lui si chiudeva in camera - piano piano si è aperto, e alla fine per la nostra famiglia è stato un grande arricchimento: ricordo delle cene trasformate in veri dibattiti! Questa cosa ci ha aiutati a crescere, e anche mio padre è cresciuto nella sua fede, come io ero cresciuto grazie alla fede dei miei».

Cosa le ha insegnato la religione di suo padre?

          «Il Dio del Corano è il "visceralmente misericordioso", questo è molto bello. E ammiro profondamente il grande rispetto dei musulmani per la preghiera e per tutto ciò che è sacro. Ciò che ho trovato solo nel cristianesimo è la vicinanza con Dio, il Vangelo non è un libro di regole ma è la tua stessa vita.

          Ma il mio rapporto con la comunità musulmana è sempre stato ottimo, e credo fermamente nell'importanza del dialogo. Un dialogo che però deve partire da una coscienza profonda della propria identità, un punto su cui noi cristiani abbiamo molto da imparare!».

 

 

Chiara Zappa

 

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