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Diritto d'asilo, diritto a sognare

Per tanti profughi, la vita sembra ricominciare davvero. Con il loro impegno e l'aiuto delle organizzazioni sociali come “Non solo asilo 2”.


Diritto d’asilo, diritto a sognare

 

«Mi hanno fatto un contratto per tre anni da apprendista, non so se mi spiego: tre anni, di questi tempi… E alla fine sarò un pizzaiolo: voglio dire, un posto poi lo troverò, ogni tanto guardo su Internet e un pizzaiolo lo cercano sempre. Ma chissà, in futuro potrei anche aprire una pizzeria in Africa, o comunque investire laggiù quello che ho imparato in Italia, con un po’ di creatività. L’Africa ha bisogno della sua gente. E poi bisogna anche un po’ sognare, no?».

Aboubakar, 24 anni a luglio, ovvero l’ottimismo di chi ne ha viste tante ma ha imparato ad attraversare la vita in leggerezza. Nel 2011, l’anno dell’“emergenza Nordafrica”, Aboubakar Traore è stato salvato dalla Marina militare su un barcone carico di 500 profughi che girava a vuoto nel Canale di Sicilia. «È andata bene, nel senso che non è morto nessuno – racconta a Dimensioni – , però a bordo dicevano che era il caso di pregare ognuno il suo Dio». Ancora ragazzino Aboubakar ha lasciato Daloa, in Costa d’Avorio, per il Mali, poi ha lavorato in nero in Libia, là è stato arrestato ma alla fine, nel caos della guerra civile, è riuscito a imbarcarsi.

 

 

Il sole sorge sempre

Il sistema d’accoglienza italiano, un “sistema” un po’ così, ha messo in mano ad Aboubakar un permesso di soggiorno “per motivi umanitari”, lo ha sistemato al campo di Settimo Torinese e alla fine dell’emergenza lo ha salutato con una buonuscita di 500 euro, arrivederci è stato bello.

Che fare, a questo punto, dove cercare un tetto? «Avevo una mezza idea di andare anch’io nei Paesi del Nord, ma lavoravo già e mi hanno convinto: “Non puoi lasciare tutto e ripartire da zero!”», anche perché una famigliola torinese lo ha accolto in casa e continua a ospitarlo ancora oggi.

Però c’è dell’altro. Con il suo “sogno” personale di autonomia, quello di diventare pizzaiolo, Aboubakar è entrato nel progetto “Non solo asilo 2”, realizzato fra Torino e Biella da un’intelligente joint venture tra cooperative sociali, l’Ufficio Pastorale migranti torinese e la Compagnia di San Paolo.

Punto della situazione per Aboubakar: corso da pizzaiolo, fatto. Borsa lavoro, fatta. Corso Haccp, fatto (ma che è? «È per l’igiene alimentare, è importante»). Scuola guida per la patente B, lavori in corso. Triennio di apprendistato part time, in corso da qualche mese. Ed è in corso pure un tirocinio di sei mesi, sempre part time, in una gastronomia artigianale sotto la Mole, “Cucina-To”: «Gastronomia di qualità, specialità regionali – precisa Aboubakar – . Ad esempio, hai presente la ribollita?».

«Davvero non posso lamentarmi – conclude – . Ho amici che non trovano lavoro, che faticano a imparare l’italiano, e invece in pizzeria sei obbligato a imparare. Ma mi viene anche da dire: non mollate, non arrendetevi mai. Io sono arrivato qui da voi senza nessuno, però qualcosa da fare l’ho trovato, e gente buona. Come dire, il sole sorge sempre…».

 

 

Viaggio d’affari a Nantes

Darcelle Besse, rifugiata, è arrivata in Italia nel 2010. Ha lasciato la Repubblica del Congo (il “Congo Brazzaville”, nell’instabile macro-regione dell’Africa centrale e dei Grandi Laghi) e qui da noi si è iscritta a economia. Ma gli studi sono rimasti un po’ in stand by, «perché fra tasse e bollette dovevo pensare al lavoro: non puoi stare senza far niente!». In patria Darcelle aveva fatto la parrucchiera e l’estetista e anche a Torino si è data da fare con amiche e conoscenti, a domicilio. Poi, inserita anche lei nel progetto “Non solo asilo 2”, Darcelle ha deciso di mettersi in regola.

«Dovrei fare un corso da estetista che dura tre anni: certo, è un bel po’ di tempo… Così intanto ho pensato di aprire un’attività di vendita di prodotti di bellezza per la pelle scura. Qui in Italia li compriamo da commercianti cinesi, però non sono di qualità. Così ho preso contatti con una ditta di Nantes, in Francia, e nelle prossime settimane farò un viaggio fin lassù. Ho bisogno di prodotti in regola con le norme dell’Ue, non devono far male alla pelle. Poi dovrò aprire un punto vendita qui in città, e spero di trovare mercato per i miei cosmetici. Certo sarà importante metterli bene in mostra, e non impilati, magari, vicino a roba di altro tipo come vedi nei negozi che ci sono qui».

 

Medio Oriente take away

Se passate da Torino segnatevi questo indirizzo, via Belfiore 11, zona San Salvario, quartiere di movida e molto altro, perché proprio in queste settimane ci apre “Lo Sceicco” di Omar & soci: una gastronomia da asporto e da consumazione in loco. «Un posto da giovani – spiega Omar Khaled al Sheikh Qasem, 26 anni e una laurea in scienze politiche nel cassetto – , tutto in regola con i permessi, con vaschette da take away ecologiche, ma soprattutto dove mangiare buoni piatti del Medio Oriente che finora in città non si trovano».

Qualche anticipazione, sempreché il vostro menù non sia ancora… riservato? «No, tranquillo, non lo è – sorride Omar – . Ad esempio la shawarma, ecco, pollo con spezie arabe, specialità siriana e libanese, o il briani, riso con noci, mandorle e carne macinata come lo fanno in Palestina e in Giordania. E se vuoi un dolce, c’è il kunaf, con un impasto e formaggio leggero tipo mozzarella, anche questo palestinese e giordano».

Le terre dei suoi piatti Omar le conosce tutte. Oggi vive sotto la Mole con i genitori e i fratelli (uno dei quali è suo socio nel progetto gastronomia, anch’esso sostenuto e affiancato da “Non solo asilo 2”). Ma, palestinesi d’origine, Omar e la famiglia hanno vissuto per anni in esilio, da rifugiati, fra Giordania, Libano e Iraq. A Baghdad nel 2003 li sorprese l’invasione anglo-americana. «Furono 40 giorni tremendi – ricorda Omar, che adesso parla con un filo di voce – . Scappammo in Siria, ci respinsero nella terra di nessuno, nel deserto, e vivemmo nell’inferno del campo di tende di Al Tanf».

Poi, nel 2010, la svolta: Al Tanf viene chiuso e la famiglia Qasem, in un gruppo di 180 rifugiati, viene accolta direttamente in Italia in uno degli sporadici programmi di “reinsediamento” organizzati dal nostro Paese con le Nazioni Unite. Ancora Omar: «Siamo palestinesi, ma è qui che abbiamo avuto per la prima volta dei veri documenti. L’Italia ci ha dato un posto per vivere. E adesso è venuto anche per noi il momento di restituirvi qualcosa con il nostro lavoro». 

 

 

Giovanni Godio

http://www.dimensioni.org

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