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Capitolo 51

Lo studio della teologia - Giovanni è fatto sagrestano della cappella - Preziose confidenze di Comollo con Giovani - Gli esercizii spirituali e il teologo Giovanni Borel - Comollo cade infermo - Sogno prima spaventoso e poi consolante - Sua santa morte - Sua prima apparizione.


Capitolo 51

da Memorie Biografiche

del 13 ottobre 2006

Un nuovo insegnante saliva la cattedra di teologia in Chieri al principio dell'anno scolastico 1838 - 39, il piissimo sacerdote Giovanni Battista Appendini di Villastellone, più tardi per meriti preclari fatto Monsignore, il quale per ben tre anni ebbe a suo discepolo il nostro Giovanni. La intimità, che fin d'allora legollo con questo suo caro allievo, durò per tutta la sua lunga vita.

Frattanto Iddio misericordioso riuniva finalmente nella stessa scuola i chierici Giacomelli, Bosco e Comollo, dall'amicizia de' quali richiedeva però un grande sacrifizio, rendendo maturo pel paradiso l'angelico Comollo. Intanto a Giacomelli era dato di poter meglio apprezzare il profitto del chierico Bosco negli studi. Così scrisse di lui: “In iscuola era un modello. Aveva una memoria portentosa, ma grandissima era pure la sua applicazione allo studio. Non di rado, studiando le lezioni, confrontava il libro di testo con varii altri autori di teologia. Non imparava tuttavia la lezione ad literam, come usavano fare gli altri. Interrogato sapeva; alcune volte tuttavia cambiava un po' certe ragioni, mostrava opinioni alquanto diverse da quelle del trattato. Mi ricordo che una volta un professore lo sgridò: - Studii il trattato alla lettera come gli altri! Era questa una delle cose, alle quali il chierico Bosco non si adattò che con difficoltà, e parlandone molti anni dopo, diceva: - Nella scuola di teologia bisogna ottenere che si studii molto; accertarsi che i trattati si sappiano bene e non superficialmente; per la maggior parte degli allievi è proprio meglio che si mandi a me orla quanto vi è nel libro di testo, ma non si deve pretendere allorchè si sa che un chierico studia, capisce ed interrogato risponde costantemente bene”.

In questo secondo anno di teologia, il nostro Giovanni ebbe la fortuna di esser fatto sacristano della cappella del seminario. Era questa una carica di poca entità, se si vuole, ma un prezioso segno di benevolenza dei superiori, cui erano annessi altri franchi sessanta. Cosicchè egli godeva già metà pensione, mentre il caritatevole D. Cafasso provvedeva al rimanente. Il sacrestano deve, aver cura della nettezza della chiesa, della sacrestia, dell'altare, e tenere in ordine lampade, candele e gli altri arredi ed oggetti necessarii al divin culto. Questa carica che gli venne aggiudicata, perchè primeggiava sugli altri nella scienza e nella virtù, come più volte affermarono a D. Cagliero D. Giuseppe Fiorito, suo prefetto di camerata, e D. Giacomelli, gli fu pure occasione di nuovo esercizio di virtù. Narrava infatti D. Giacomo Bosco: “I seminaristi di filosofia e dei primi due corsi di teologia erano spinti verso di lui da uno slancio incredibile, e quelli de' corsi superiori lo riguardavano con maggior o minor riverenza, secondo le inclinazioni ed i naturali. Chi si distingue per sapere e virtù facilmente è: oggetto di qualche invidiuzza, non avvertita talora da chi ne è amareggiato, ma che trapela nei modi e nelle parole sì da avvedersene chi ne è l'oggetto. Ma la carità e l'umiltà di Giovanni sapeva dissimulare tali miserie. E questa umiltà non si alterava anche quando certi giovani chierici irrequieti non cessavano di motteggiarlo, mortificarlo e talora disprezzarlo, nel vederlo vivere appartato e quasi solo. L'ufficio di sacrestano, che gli era stato assegnato, gli meritò da costoro il soprannome di: Bosco d’ l'oli per la lampia, dall'andare ch’egli faceva ogni giorno a chiedere l'olio all'economo, per la lampada e che arder doveva innanzi all'altare. Ma egli, sempre sereno, e tranquillo, lasciava dire”. Non era però insensibile; e D. Giacomelli ci riferiva che un giorno, non so per quale disparere, Giovanni ebbe a sentirsi dire da un compagno con irrisione del suo ufficio: - Tu minchione delle torcie! - Giovanni divenne rosso fin sui capelli, ma non proferì parola e si allontanò. L'offesa però fu giudicata così grave dai chierici presenti, che uno di essi non potè tenersi dal rimproverare aspramente l'insultatore.

Intanto Comollo, nonostante i presentimenti del fine prossimo della sua vita mortale, aveva ripigliato seriamente i suoi studi ed all'esame semestrale conseguiva ancora il premio di sessanta lire. Sebbene egli dimostrasse la medesima giovialità ed allegria nel ragionare e nel ricrearsi; tuttavia Giovanni scorgeva un non so che di misterioso nella sua condotta. Lo vedeva, oltre l'usato, attento nella preghiera e in tutti gli altri esercizi di pietà e specialmente nella maggior frequenza alla santa Comunione. Udivalo talora esclamare: - Oh! potessi, quando sarò per partire da questo mondo, sentirmi dal Signore un consolante Euge, serve bone et fidelis, vieni, o servo buono e fedele. - E la sua meditazione ordinaria era sull'argomento dell'inferno, per concepire maggior orrore del peccato.

Ma lasciamo la penna a D. Bosco: “Con grande trasporto di gioia discorreva del paradiso; e fra le belle cose, che mi soleva dire, una fu questa: - Quando mi trovo solo e disoccupato, o quando non posso prendere sonno lungo la notte, allora mi metto a fare le più amene passeggiate. Suppongo trovarmi sopra un'alta montagna, dalla cui cima mi sia dato scoprire tutte le bellezze della natura. Contemplo, il mare, la terra, i paesi, le città, con quanto di più magnifico esiste in essi; levo quindi lo sguardo pel sereno cielo, miro il firmamento, che tutto di stelle tempestato forma il più maraviglioso spettacolo. A questo vi aggiungo ancora l'idea di una soave musica, che a voce ed a suono faccia echeggiare di lieti evviva valli e monti, e deliziando, la mente con questa mia immaginazione, mi volgo in altra parte, alzo gli occhi, ed eccomi innanzi la città di Dio. La miro all'esterno, poscia me le avvicino e penetro dentro; qui pensa tu alle cose, che senza numero io fo passare a rassegna. - Proseguendo nella sua passeggiata raccontavami cose le più curiose ed edificanti, che nella sua mente faceva passare rassegna nelle varie sezioni del paradiso.

” Fu pure in quest'anno che gli cavai il segreto di poter pregare senza distrazione. - Vuoi sapere, dicevami, come io mi metta a pregare? Ella è un'immagine tutta materiale che ti farà ridere. Chiudo gli occhi, e col pensiero mi porto entro una grande sala, il cui soffitto è sostenuto da innumerevoli colonne, adornata nella maniera più squisita, e in fondo alla quale si alza un maestoso trono, sovra di cui suppongo stare assiso Iddio nella sua infinita maestà; dopo di lui tutti i cori dei beati comprensori. Questa immagine materiale mi serve maravigliosamente per sollevare il mio pensiero all'infinita Maestà Divina, dinanzi a cui mi prostro e con tutto il rispetto a me possibile fo la mia preghiera”

Nel corso della quaresima (1839), ebbero luogo per i seminaristi di Chieri i santi spirituali esercizi. Giovanni li fece coi sentimenti della più viva divozione. “Fu in quest'anno, così narra egli nelle sue memorie, che ebbi la buona ventura di conoscere uno dei più zelanti ministri del santuario, venuto a dettar gli esercizi spirituali in seminario. Egli apparve in sacrestia cori aria ilare, con parole celianti, ma sempre condite con pensieri morali. Quando ne osservai la preparazione ed il ringraziamento della Messa, il contegno, il fervore nella celebrazione di essa, mi accorsi subito essere quegli un degno ministro di Dio. Egli era il Teol. Giovanni Barel di Torino. Quando poi cominciò la sua predicazione e se ne ammirò la popolarità, la vivacità, la chiarezza e il fuoco di carità che appariva da tutte le parole, ognuno andava ripetendo: Egli è un santo! Difatti tutti facevano a gara per andarsi a confessare da lui, trattate con lui della vocazione ed avere qualche particolare ricordo. Io pure ho voluto conferire col medesimo delle cose dell'anima. In fine, avendogli chiesto qualche mezzo certo per conservare lo spirito di vocazione lungo l'anno e specialmente in tempo delle vacanze, egli mi lasciò con queste memorande parole: - Colla ritiratezza e colla frequente Comunione si perfeziona e si conserva la vocazione e si forma un vero ecclesiastico. Gli esercizi spirituali del teologo Borel fecero epoca in seminario, e parecchi anni appresso si andavano ancora ripetendo le sante massime, che aveva in pubblico predicate o privatamente consigliate”.Il mattino del 25 marzo, giorno della SS. Annunziata, avviandosi Giovanni alla cappella s'incontrò nei corridoi con Comollo, che lo stava aspettando per dirgli essere per lui spedita. Giovanni ne fu molto sorpreso, stantechè il giorno avanti avevano passeggiato molto tempo insieme e lo aveva lasciato in perfetta salute. Comollo soggiunse con voce commossa: Mi sento male e quello che mi atterrisce si è dovermi presentare al gran giudizio di Dio. Giovanni lo esortò a non volersi così affannare, essere queste certamente cose serie assai, ma per lui remote, e aver egli ancora molto tempo a prepararsi. Ciò detto, entrarono in chiesa. Comollo ascoltò ancora la santa Messa, dopo la quale venne sorpreso da uno sfinimento di forze, per cui si dovette trasportare in camera e metterlo a letto. In quel momento, attesta D. Giacomelli, Giovanni annunziò ai compagni che Comollo sarebbe morto di quell'infermità.

“Terminate che furono le funzioni di chiesa scrive D. Bosco nella biografia dell'amico, mi recai a visitar Comollo nel proprio dormitorio. Appena mi vide tra gli astanti, fece segno che me gli appressassi e così prese a parlare: - Mi dicesti che era cosa remota e che eravi ancor tempo a prepararmi prima di andarmene; ma non è così sono certo che debbo presentarmi presto al cospetto di Dio; poco tempo mi resta a dispormi; vuoi che tel dica chiaramente? Abbiamo da lasciarci. - Io lo esortava tuttavia a non inquietarsi e a non affannarsi con tali idee. - Non m'inquieto, interrompendomi disse, nè mi affanno; solo penso che debbo andare al gran giudizio e giudizio inappellabile e questo agita il mio interno. - Quelle parole mi afflissero assai; perciò ogni momento desiderava sapere delle sue nuove, e ogni volta che io lo visitava, mi ripeteva sempre la stessa espressione: - Si avvicina il tempo che debbo presentarmi al divin giudizio; dobbiamo lasciarci. - Talmente che nel decorso di sua malattia non credo d'esagerare dicendo che me l'ha ripetuta più di quindici volte

” Frattanto egli febbricitante si stette il lunedì coricato. Aveva predetto che il suo male sarebbe inteso al rovescio dai medici, e così avvenne. Il martedì e mercoledì passolli fuori di letto, per altro sempre triste e melanconico, assorto nel pensiero dei giudizi divini. Alla sera del mercoledì si pose di nuovo a letto come infermo per non levarsi più. Il sabato, a sera, vigilia di Pasqua, andatolo a visitare: Poichè, mi disse, dobbiamo lasciarci e tra poco io debbo presentarmi al giudizio, avrei caro che tu vegliassi meco questa notte. - Il direttore spirituale D. Giuseppe Mottura, scorgendo l'infermo camminare di male in peggio, mi concedette assai volentieri, che passassi presso di lui la notte, che era quella del 30 marzo, precedente al solenne giorno di Pasqua. State attento, mi disse il direttore, e se vi accorgete di grave pericolo, chiamatemi tosto. Notate eziandio ogni particolarità della malattia, e sappiatene ragguagliare il medico domani. Alle otto la febbre facevasi più violenta; alle otto e un quarto l'assalì un accesso di febbre convulsiva sì gagliardo, che gli tolse l'uso della ragione. Sulle prime faceva un lamento prolungato, come se fosse stato atterrito da spaventevole oggetto o da tetro fantasma. Da lì a mezz'ora tornato alquanto in se e guardando fisso gli astanti, gridò ad alta voce: Ahi giudizio! - Quindi cominciò a dibattersi con forze tali, che cinque o sei che eravamo astanti appena lo potevamo trattenere in letto. Tali dibattimenti durarono per ben tre ore, dopo i quali ritornò in piena cognizione di se stesso. Stette lunga pezza pensieroso, come occupato in seria riflessione; quindi deposta quell'aria di mestizia e di terrore, che da più giorni dimostrava pei giudizi divini, comparve tutto placido e tranquillo. Parlava, rideva, rispondeva a tutte le interrogazioni, che gli venivano fatte, a segno che l'avremmo quasi giudicato in regolare condizione di salute. Gli fu chiesto da che provenisse un tale cangiamento, essendo poco prima cosi triste ed ora tanto gioviale ed affabile. A quella dimanda mostrossi alquanto imbarazzato a rispondere; di poi, rivolto qua e là lo sguardo se da nissuno fosse udito, prese a parlarmi sotto voce: - Finora paventai di morire pel timore del giudizio divino; questo tutto mi atterriva; ma ora son tranquillo, nulla più temo per le seguenti cose, che in amichevole confidenza ti racconto. Mentre era estremamente agitato pel timore dei giudizi divini, parvemi in un istante essere trasportato in una profonda ed ampia valle, in cui l'agitazione dell'aria e le bufere di un vento furioso toglievano forza, e vigore a chiunque colà capitava. Nel centro di quella valle era un grande abisso a guisa di larga e profonda fornace, onde uscivano fiamme avvampanti. Di quando in quando vedeva anime, delle quali alcune riconobbi, cadere là entro, e a quel tonfo globi immensi di fuoco e di fumo si sollevavano verso il cielo….. A tale vista spaventato mi posi a gridare per timore di dover precipitare in quella spaventosa voragine. Perciò mi voltai all'indietro per fuggire, ed ecco una innumerevole turba di mostri di forma orribile e diversa, che tentavano urtarmi in quell'abisso... Allora gridai più forte vie più atterrito, senza sapere che mi facessi, e mi segnai col segno della santa Croce. A quell'atto religioso tutti quei mostri volevano chinare il capo, ma non potendo si contorcevano, scostandosi alquanto da me. Tuttavia non poteva ancora fuggire e allontanarmi da quel malaugurato luogo; allorchè vidi una moltitudine di uomini armati, che a somiglianza di forti guerrieri venivano in mio soccorso. Essi assalirono vigorosamente quei mostri, alcuni dei quali rimasero sbranati, altri giacquero stesi a terra, altri si diedero a precipitosa fuga. Liberato da quel pericolo, presi a camminare per quella spaziosa valle, finchè giunsi ai piè di un'alta montagna, su cui solo si poteva salire per una scala. Ma questa aveva gli scalini tutti occupati da grossi serpenti, pronti a divorare chiunque vi ascendesse. Eppure non v'era altro passaggio che quello, ed io non osava avanzarmi temendo essere da quei serpenti divorato.. Quivi abbattuto dalla stanchezza e dagli affanni, privo di forze, già veniva meno quando una Donna, ch'io giudico essere la comune nostra Madre, vestita in gran pompa, mi prese per mano e fecemi rizzare in piedi dicendo: - Vieni meco. Hai lavorato in mio onore e mi hai tante volte invocata; pertanto è giusto che ora ne abbi la dovuta mercede. Le Comunioni fatte in mio onore ti meritano lo scampo dal pericolo, in cui ti ha posto il nemico delle anime. - Intanto Ella mi fe' cenno di seguirla per quella scala. Come essa pose piede sugli scaglioni, tutti quei serpenti voltavano altrove la mortifera loro testa, nè sì volgevano verso di noi, se non quando eravamo alquanto da loro lontani. Giunti in cima a quella scala, mi trovai in deliziosissimo giardino, dove io vidi cose, che non mi sono giammai immaginato che esistessero. Quando fui in sicuro, la benefica Signora mi aggiunse queste parole: - Ora sei in salvo. La mia scala è quella che deve condurti al sommo bene. Animo, figlio mio, il tempo è breve. Quei fiori, che formano, sì bello ornamento in questo giardino, sono raccolti dagli angioli, con cui ti vanno intrecciando una corona di gloria a fine di collocarti tra i miei figli nel regno de' cieli. - Ciò detto disparve. Queste cose, conchiuse il Comollo, appagarono talmente il mio cuore e mi resero così tranquillo, che ben lungi dal temere la morte, io desidero che venga presto, affine di potermi unire cogli angioli del cielo per cantare le lodi, del mio Signore. Sin qui, l’infermo.

” Checchè se ne voglia dire del sovraesposto racconto, il fatto fu che quanto grande era prima il suo timore di comparire innanzi a Dio, altrettanto di poi manifestavasi il suo desiderio che giungesse quell'istante. Non più tristezza o malinconia in volto, ma tutto ridente e gioviale, voleva sempre cantare salmi, inni o laudi spirituali.

” Sebbene lo stato della sua malattia apparentemente sembrasse assai migliorato, tuttavia sul fare dell'alba, ho stimato di avvertirlo essere cosa buona che in quel giorno ricevesse i SS. Sacramenti, occorrendo appunto la solennità di Pasqua. - Volentieri, ripigliò; non ho alcuna cosa che mi inquieti la coscienza; nulladimeno, atteso lo stato in cui mi trovo, ho piacere di parlare un momento col mio confessore prima di ricevere la santa Comunione.

” Spettacolo poi veramente edificante e maraviglioso fu la sua Comunione. Terminata la confessione, fatta la preparazione per ricevere il SS. Viatico, già il signor direttore, che ne era il ministro, seguito dai seminaristi, entrava nell'infermeria; quando al suo primo comparire l'infermo tutto commosso, cangia colore, muta d'aspetto, e pieno di santo trasporto esclama: - Oh bella vista... Giocondo vedere...! Mira come risplende quel sole! Quante belle stelle gli fanno corona! Quanti prostrati a terra l'adorano e non osano alzare la chinata fronte! Deh! lascia che io vada ad inginocchiarmi con loro e adori anch'io quel non mai veduto sole. - Mentre tali cose diceva, voleva rizzarsi, e con forti slanci tentava portarsi verso il SS. Sacramento. Io mi sforzava a fine di trattenerlo in letto; mi cadevano lagrime di tenerezza e di stupore; e non sapeva che dire, nè che rispondergli. Ed egli vie più si dibatteva, onde portarsi verso il SS. Viatico; nè si acquetò, finchè non l'ebbe, ricevuto. Dopo la Comunione stette alcun tempo immobile, tutto concentrato nei più affettuosi sentimenti verso Gesù; quindi si lasciò andare in novelli trasporti di gioia, pronunciando per un buon tratto di tempo fervorose giaculatorie. Infine, abbassata la voce, chiamommi a sè e mi pregò a non parlargli più d'altro che di cose spirituali, dicendo essere troppo preziosi, quegli ultimi momenti che gli restavano ancor di vita, e doverla tutta impiegare a il suo Dio; perciò non darebbe più alcuna risposta, qualora fosse interrogato intorno ad altre cose.

” Intanto l'infermo, apparendo assai prostrato di forze e palesando tendenza al sonno, si lasciò alquanto riposare. I seminaristi erano andati alle sacre funzioni del duomo

Dopo breve riposo, si svegliò e trovandosi solo con me prese a così parlarmi: - Eccoci, o caro amico, eccoci al momento, in cui noi dobbiamo per alcun tempo lasciarci. Noi pensavamo di confortarci nelle vicende della vita, aiutarci, consigliarci in tutto quello che ci avrebbe potuto giovare alla eterna nostra salvezza.. Non era scritto così nei santi e sempre adorabili voleri del Signore. Tu mi hai sempre aiutato nelle cose spirituali, nelle cose scientifiche ed anche temporali, ed ora ti ringrazio. Dio te ne rimeriti. Ma prima di lasciarci, ascolta alcuni ricordi di un tuo amico. L'amicizia non importa solo di far quanto l'amico richiede mentre vive, ma di eseguire altresì quello che a vicenda si è promesso da effettuarsi dopo la morte. Perciò il patto, che abbiamo fatto colle più obbliganti promesse, di pregare a vicenda, a fine di poterci salvare, non solo voglio che si estenda sino a morte dell'uno o dell'altro, ma di ambedue: onde finchè tu condurrai i tuoi giorni quaggiù, prometti e giura di pregar per me. - Benchè in udir tali parole mi sentissi forzato a piangere, pure frenai le lacrime e promisi nel modo richiesto quanto voleva. Quindi, datimi alcuni, avvisi, concludeva - Una cosa ho ancora da dimandarti, di cui ti prego cordialmente. Quando andrai al passeggio, e passando presso il luogo di mia tomba, udirai i compagni a dire: Qui sta sepolto il nostro collega Comollo, allora tu suggerisci in prudente maniera a ciascheduno da parte mia, che mi recitino un Pater ed un Requiem. In tal guisa io sarò dalle pene del purgatorio liberato. Molte cose ti direi ancora, ma il male prende forza e m'opprime; perciò raccomandami alle preghiere degli amici, prega il Signore per me, Iddio ti accompagni e ti benedica e ci rivedremo quando egli vorrà.

” Sulla sera dei giorno di Pasqua apparve così prostrato, che appena poteva articolare e pronunciare qualche parolai quando fu sorpreso da nuovo e più violento accesso di febbre, accompagnata da dolorose convulsioni, sicchè a stento si poteva trattenere. Comunque fuori di sè o agitato dalla violenza del male, dettogli appena: - Comollo, per chi bisogna soffrire? egli subito rinvenendo, tutto gioviale e ridente - Per Gesù Crocifisso - rispondeva.

” In simile stato, senza mai proferire un lamento, per la atrocità dei dolori, passò la notte e quasi intiero il giorno susseguente. Di quando in quando si metteva a cantare con voce ordinaria e così sostenuta, che l'avreste giudicato in perfetto stato di salute. Il suo canto era il Miserere, le Litanie della Madonna, l'Ave maris Stella e laudi spirituali.: Ma siccome il cantare di troppo lo prostrava, si cercò di suggerirgli qualche preghiera; così egli cessava di cantare per recitare quello che gli veniva suggerito.

” Alle sette di sera del 1° aprile, andando le cose ognora peggio, il direttore spirituale stimò bene amministrargli l’Olio Santo; ed egli, che poco prima sembrava in agonia, riavutosi pienamente rispose a tutte le preci e responsorii, che in quella amministrazione occorrono. Lo stesso avvenne alle undici e mezzo, quando il signor rettore, Can. Sebastiano Mottura, al vedere che un freddo sudore cominciava a coprirgli il pallido volto, gli impartì la papale benedizione.

” Amministrati così tutti i conforti di nostra santa cattolica religione, non pareva più un infermo, ma uno che stesso in letto per riposo: era pienamente consapevole di se stesso, con animo pacato e tranquillo; tutto allegro, ad ogni momento innalzava fervorose giaculatorie a Gesù Crocifisso, a Maria Santissima, ai Santi: onde il signor rettore, ebbe a dire: - Egli non abbisogna che altri gli raccomandi l'anima, essendo sufficiente per se medesimo. A mezza notte, con voce assai robusta intuonò l'Ave maris Stella, e continuò quest'inno sino all'ultimo versetto, senza desistere, nonostante che i compagni lo pregassero a non istancarsi. Era tanto assorto in se stesso e traspariva dal suo volto tale un'aria di paradiso da sembrare un angiolo.

” Richiesto da un compagno: - Che cosa ti consola di più in questo momento? - Aver fatto qualche cosa per amore di Maria e l'aver frequentato la santa Comunione - rispose.

” Ad un'ora e mezzo dopo la mezzanotte 2 aprile, benchè conservasse sempre la solita serenità nel volto, apparve talmente estenuato di forze, che sembrava mancargli il respiro. Rinvenuto poscia un tantino, raccolto quanto aveva di vigore, con voce tronca, cogli occhi elevati al cielo, proruppe in tali atti di amore e di confidenza verso Maria, che tutti gli astanti erano commossi sino alle lagrime. Vedendo venirgli meno il polso, m'accorsi appressarsi il momento, che egli doveva abbandonare il mondo ed i suoi compagni: perciò presi a suggerirgli quel tanto, che venivami a proposito in simili circostanze. Ed egli tutto attento a ciò che gli si diceva, col volto e colle labbra ridenti, conservando l’inalterabile sua tranquillità, fissi gli occhi nel Crocifisso, che stretto teneva fra le mani giunte innanzi al petto, si sforzava di ripetere ogni parola che gli veniva suggerita. Circa dieci minuti prima del suo spirare mi chiamò per nome e, se vuoi, mi disse, qualche cosa per l'eternità, io.... addio, me ne parto. Gesù e Maria, metto nelle vostre mani l'anima ma. – Queste furono le ultime sue parole. Quindi per la durezza delle labbra e la spessezza della lingua, non potendo più colla voce pronunziare le giaculatorie suggerite, le componeva e le articolava colle labbra.

” Eranv. altresì due diaconi, D. Sassi e D. Fiorito, che gli leggevano il proficiscere, il quale terminato, nell'atto che si pronunciavano i santi nomi di Gesù e di Maria, sempre sereno e ridente in volto, movendo egli un dolce sorriso a guisa di chi resta sorpreso alla vista di un meraviglioso e giocondo oggetto, senza fare alcun movimento, l'anima sua bella si separò dal corpo, volando, come piamente si spera, a riposare nella pace del Signore. Il suo felice transito avvenne alle due dopo mezzanotte, prima che sorgesse l'aurora del 2 aprile 1839, in età di anni 22, meno cinque giorni”.

” In quella notte, narrava D. Giacomo Bosco, il chierico Vercellino di Bulgaro, che dormiva in una camerata diversa da quella del chierico Bosco, a un tratto essendo svegliato, si mette a gridare: - C è Comollo, c'è Comollo. - Tutti si destano, si rivolgono a lui, lo interrogano. Bosco Giacomo viceprefetto, lo invita a far silenzio; ma Vercellino andava ripetendo: - Comollo è morto! - I compagni gli dicevano essere ciò impossibile, perchè alla sera Comollo sembrava di motto migliorato. Eppure l'ho visto io. Comollo entrò nella camerata e disse: Sono morto adesso! E poi disparve. - Mentre l'uno affermava e gli altri volevano persuaderlo di aver sognato, ecco i diaconi Fiorito e Sassi, che in quella notte erano stati incaricati di assistere l'infermo, entrare in camerata. Ebbene, tutti li interrogarono, Comollo come sta? - È morto, risposero. Ed a che ora? - Saranno dodici minuti - Si pensi lo stupore, dal quale furono tutti compresi a queste parole. Dunque non era stato un’ illusione!”.

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