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Capitolo 31

L'età favolosa dell'oratorio - Le cocche - Insulti alla gendarmeria - Le battaglie a sassate - Misure preventive - D. Bosco in mezzo a turbe di ragazzi inferociti - Un giovane ucciso - L'offesa di Dio impedita a qualunque costo - L'evidente protezione del Signore - Energia, amorevolezza e imponenza misteriosa - Il catechismo tranquillo dopo una lotta brutale - Alcuni capi delle cocche ricoverati nell'oratorio - La guerra dell'indipendenza nel maggio.


Capitolo 31

da Memorie Biografiche

del 08 novembre 2006

 La storia dell'oratorio, diceva un giorno D. Bosco, potrebbe con giustezza essere divisa in tre periodi: età favolosa, età eroica, età storica. La prima età scorse nei primi dieci anni, ed ebbe principio quando io era ancora solo e non aveva si può dire abitazione fissa;

continuò in Valdocco allorchè incominciai ad accogliere in casa alcuni giovani, ed ebbe termine verso il 1855. Il racconto delle cose di allora potrà sembrare a taluno un intreccio di favole (e perciò la dico età favolosa), tanto gli avvenimenti sono straordinari; eppure chi li narrasse, non direbbe altro che la schietta verità. Fu un decennio sempre di lotte. -

Se quanto abbiamo già esposto è prova delle sue asserzioni, non lo sarà meno il proseguimento di queste memorie. Egli dunque allontanando i suoi giovani da una pericolosa dissipatezza, riusciva a mantenere fiorenti i due Oratorii di Valdocco e di Portanuova; ma la sua carità non era ancor soddisfatta. Per smania di guerra si erano formate fra il basso popolo e in ogni borgo della città le Associazioni della Gioventù, chiamate in dialetto cocche; e vi era la Cocca di Vanchiglia, quella di Portanuova, di Borgo Dora e via dicendo. Queste erano suddivise in frazioni più o meno numerose, e ora comparivano quale piccola squadra ed ora come un intero battaglione. Tenevano i loro assembramenti ed avevano i loro capi. Ognuna di queste cocche era in guerra dichiarata contro le altre; e continue erano le risse e le battaglie a sassate o per spirito di malvagia brutalità, o per offese che avesse ricevute dagli avversari un loro compagno, o anche per una sfida colla quale un partito voleva accrescere i vanti delle sue prodezze. Erano lotte spaventose di cui ora nessuno può farsi un'idea, alle quali con una moltitudine di giovanetti prendevano parte i giovanastri più adulti. Non c'era poi forza umana che valesse a tenerli in freno. Nè i carabinieri, nè le guardie di pubblica sicurezza potevano più nulla contro di loro e non osavano porsi in mezzo per separare i combattenti. Al primo loro comparire, se erano pochi, ecco un fischio convenzionale, e tutti i proiettili in un istante erano slanciati contro i custodi dell'ordine; se altri gendarmi sopraggiungevano più numerosi, ecco un secondo fischio, e quelle turbe feroci si disperdevano e si nascondevano; se le guardie si ritiravano, ad un terzo fischio i giovani ricomparivano e ricominciava la sassaiola.

D. Bosco, fin dal bel principio di queste scene selvagge, cercò di impedirle e di fare un po' di bene a que' sciagurati. Incominciò a stringere agli Oratorii, con legami di speciali larghezze, certi giovani più alteri e proclivi a menar le mani, che li frequentavano. Incontrando per la città e alla spicciolata alcuni cattivi soggetti già colpiti di condanna dai tribunali, e sue antiche conoscenze, li intratteneva cercando di rinnovarne l'amicizia. Andando alle prigioni ove di quando in quando era rinchiuso per qualche giorno un capo banda acciuffato dai gendarmi, di notte, solo e fuori del suo borgo, adoperava tutte le arti della più fina carità per acquietarli, soccorrerli e distaccarli da quelle maledette associazioni. Con questi modi non fa meraviglia vedere che tra quelle orde incontrasse dei benevoli. Tuttavia non era facile la sua impresa e dovette tollerare gravi insulti. Accadde che, passando in una spianata remota della città, scorse un crocchio animato che ventilava una spedizione contro le cocche di altro borgo. Senz'altro si avvicinò e salutandoli chiese loro: - Come state? Che cosa si fa di bello?

 - Che cosa vuole lei da noi? Continui la sua strada! - Gli rispose bruscamente uno di quelli.

 - E perchè mi rispondi con villania?  - Credeva di aver da fare con amici.

 - Io amico dei preti? - e sghignazzava.

 - Non sai chi è questo prete? – Gli diceva in quel momento sottovoce un compagno: - È D. Bosco!

 - E che m'importa? - Esclamò quel gradasso, eruttando un insulto dei più grossolani.

 - Olà! - replicò ad alta voce l'altro compagno. - Guai a te se manchi di rispetto a D. Bosco. Se dici ancora una parola, ti sfondo lo stomaco! - E alzando il pugno accingevasi a tradurre la minaccia in fatti. Tacque l'insolente, tanto più che vedeva una parte dei compagni, i quali già erano qualche volta andati all'oratorio, tener le parti del suo contradditore. D. Bosco allora li interrogò sulla causa che aveva eccitato in loro sì vivo risentimento, calmò gli animi dimostrando come l'offesa che dicevano di aver ricevuta fosse cosa da nulla; e ricordò come il Divin Salvatore perseguitato e straziato, potendo vendicarsi con una sola parola, pure non l'aveva detta. Quella turba persuasa, metteva in mezzo D. Bosco, lo accompagnava per un lungo tratto, finchè non era da lui congedata dopo aver tutti promesso di cessare da quegli odi.

Altra volta fu sorpreso in mezzo ad un lungo viale mentre ad un'estremità avanzava urlando una torma di quei feroci, e dalla parte opposta con alte grida altra turba veniva incontro alla prima. Già erano a portata di slanciare i sassi, ma D. Bosco non deviava. A quella vista le due schiere si arrestarono per un istante e gli intimarono: - D. Bosco, si ritiri! Stia indietro, stia indietro

 - E perchè ho da ritirarmi? No! Voglio andare per la mia strada!

 - Ebbene replicarono, i giovani non vuol ritirarsi? Peggio per lei! - E di qua e di là incominciò a volare una grandine di sassi, alcuni dei quali gli rasentavano e il capo e le spalle. Finalmente più di uno fra gli adulti, commossi dal suo pericolo, gridarono ai compagni

 - Finitela e basta! - I più accaniti però continuarono a trarre sassi; ed allora furono minacce, pugni, calci, schiaffi; e nell'eccitamento di quella improvvisa repressione e resistenza si estrassero i coltelli che sempre portavano seco. D. Bosco fu obbligato ad interporsi, perchè non si sbudellassero per sua cagione.

Sovente i pressi dell'Oratorio divenivano il campo di queste lotte, quasi mai incruente. Un giorno vi era accanita battaglia tra i giovani del Pallone e quelli di Porta Susa. Erano quasi tutti armati con bastoni, coltelli ed alcuni eziandio con pistole. Le pietre della pubblica via servivano per dar principio allo scontro. Invano i carabinieri, accorsi al primo nunzio, avevano cercato colle buone maniere e anche con severe intimazioni di far retrocedere le avanguardie di quei demoni grandi e piccoli. D. Bosco vedendo dalle finestre della sua casuccia che la vita di molti versava in pericolo, ed essendo già conosciuto da vari dei combattenti, uscì dal cortile e corse in mezzo alla tempesta delle pietre che già fischiavano da tutte parti. Poco dopo, quelli delle prime file si erano avvicinati, e si udirono alcuni colpi di pistola. D. Bosco si slanciò allora per separare due disgraziati che si avventavano uno contro l'altro col coltello in mano; ma giunse mentre uno gridava: - Prendi, tu ne hai abbastanza! - e l'altro cadeva ai suoi piedi spruzzandolo del sangue che usciva da una larga ferita nel ventre. L'omicida scomparve, e il ferito sulle braccia di due compagni fu trasportato all'ospedale, mentre rabbiosamente mormorava contro il suo feritore: - Me la pagherai: appena guarito ti farò la pelle. - D. Bosco gli tenne dietro esortandolo a perdonare, e quando gli parve che fosse cessato quel parossismo di vendetta, potè confessarlo alla bella meglio; e all'indomani l'infelice moriva. Non finivano mai queste sfide senza che restassero sul terreno vari giovani con gravi ferite e talora mortali.

D. Bosco si era assunta questa missione per impedire l'offesa di Dio e la perdita delle anime. Quando ebbe con sè preti e chierici raccontando ad essi le vicende dei primi anni dell'Oratorio, una volta diceva: “ Un giorno un gran numero di giovani esterni si presero il barbaro piacere di venire a battaglia qui vicino al nostro Oratorio. Scagliavano sassi tali da rimanersene morto chiunque ne venisse ben colpito. Io accorsi subito e con segni e con grida cercava di trattenere quei forsennati; ma nulla valeva. Allora dissi fra me Ma questi giovani corrono grave pericolo; qui c'è l'offesa di Dio; che io debba lasciar proseguire impunemente questa lotta micidiale? No! La voglio impedire a qualunque costo. A mali estremi, estremi rimedi. - Che cosa ho pensato? Ciò che prima d'allora non aveva mai fatto. Vedendo questa volta inutili le mie parole, mi sono gettato in mezzo a quel turbinare di proiettili e scagliatomi addosso ad una parte belligerante, a scapaccioni e a pugni ne atterrai un gran numero e gli altri misi in fuga; corsi poscia su quelli della parte opposta….. e feci lo stesso. In tal modo ottenni che cessasse quel disordine,

causa di tante funeste conseguenze. Io rimasi padrone di quei prati e per quel giorno nessuno osò ritornarvi, e quando volli ritirarmi, fui salutato da qualche urlo lontano. Dopo che rientrai in casa, pensava: Ma che cosa ho fatto? Io poteva essere colpito da uno di quei sassi, ed essere stramazzato a terra!.... Ma nè in questo, nè in simili altri casi mai, mi accadeva alcun male, eccetto una volta che ricevetti un colpo di zoccolo sulla faccia e ne portai il segno per alcuni mesi. E proprio com'io dico: quando uno confida nella bontà di

sua causa non teme più nulla. - E dopo una breve pausa, riprendeva: - Io sono così fatto: quando vedo l'offesa di Dio, se avessi contro ben anche un esercito, io, per impedirla, non mi ritiro e non cedo ”.

E Dio premiava il suo zelo, lo teneva incolume sotto la sua santa custodia e gli dava autorità sopra quegli scapestrati. Allorchè alla Domenica invadevano la regione di Valdocco, andava subito in mezzo a loro, proibendo prima ai giovani interni ed a quelli dell'Oratorio festivo di venirgli dietro. I giovani con trepidazione stavano osservandolo, dietro alle siepi ed agli alberi o sporgendo sul ciglio dei muricci. Lo vedevano impavido in mezzo a quel tumulto senza che gliene venisse mai alcun male grave e neppure contusioni, benchè i sassi lo colpissero talora nelle spalle o nelle gambe. Ma per lo più al suo comparire si spargeva la voce tra quei mascalzoni: - C'è D. Bosco, c'è D. Bosco! - E ciò bastava perchè la maggior parte si dileguasse. Gli altri si avvicinavano a D. Bosco, il quale con raccomandazioni affettuose, con facezie argute, e talora con rimproveri, cercava di persuaderli del gran male che facevano. Mentre parlava, le lame dei coltelli già aperti erano ripiegate nel manico e messe in saccoccia con precauzione, perchè D. Bosco non le vedesse; chi stringeva il sasso, apriva la mano facendolo sdrucciolare lungo la gamba perchè non facesse rumore cadendo. E D. Bosco riusciva a ricondurli a sensi più miti se non altro per alcuni giorni.

Le guardie spettatrici lontane di quei fatti affermavano, che il solo D. Bosco aveva animo di gettarsi in mezzo a quei terribili tafferugli, e che era il solo capace di ammansare quelle indomabili masnade.

D. Giacomelli per ben tre volte vide D. Bosco avanzarsi risoluto in mezzo a due schiere, una delle quali dal circolo Valdocco bersagliava l'altra ben più numerosa che difendevasi presso lo spazio ove ora in Via Cigna si vede la trattoria di Viù. Ma ciò che maggiormente lo fece stupire si fu che rivoltosi D. Bosco agli uni e agli altri con aria d'imperio intimò: - Giù quelle pietre! - I giovani, sospesa la lotta, col sasso stretto in mano, lo guardavano indecisi, ma alla sua reiterata intimazione deposero i sassi per terra e si sbandarono.

Molte volte però, fatto cessare nella Domenica quel tristo giuoco, li raccoglieva intorno a sè per istruirli. Siccome nemmanco coi più amabili inviti, poteva in nessun modo indurli ad entrare in chiesa, dicendo essi scherzando che soffrivano l'odor della cera, così egli sedeva per terra in mezzo ai prati.

Allora tutta quella marmaglia seduta o sdraiata sull'erba gli faceva corona, silenziosa e attenta. Ed egli colle sue buone maniere per circa un'ora insegnava il catechismo, e guadagnava sempre qualche anima a Dio.

Siccome durarono molto tempo i fatti deplorevoli sopradescritti, così D. Bosco negli anni seguenti finiva quasi sempre le sue pacificazioni conducendo alcuni dei perturbatori della pubblica quiete a prendere stanza nell'Oratorio. Molti di quelli erano affatto poveri ed abbandonati dai parenti. Suo scopo precipuo era il tentativo di trarre a sè i capi delle cocche, e vide più volte che, accolto in sua casa uno di quei capi, la cocca si scioglieva. Era certamente necessaria molta pazienza e destrezza per tenere nell'ospizio senza pericolo simile razza di giovanetti, ma si potè fare una consolante constatazione. Costoro benchè si fermassero poco tempo nell'oratorio e volessero ben presto uscirne, tuttavia neppure uno vi fu che tornasse ad immischiarsi in quegli assembramenti micidiali.

Così D. Bosco otteneva in parte il suo scopo, ma non poteva in sul principio colla sua azione benefica sradicare quel male. L'eccitazione degli animi per la guerra cresceva e i più adulti e maneschi delle bande scapigliate erano assoldati dai mestatori per le dimostrazioni di vario genere che quasi ogni giorno mettevano a rumore la città. Secondo gli avvenimenti, era un alternarsi delle grida di gioia, di minaccia, di rabbia e di trionfo.

Il 30 aprile Vincenzo Gioberti giovandosi dell'amnistia concessa ai proscritti politici, lasciava Parigi, ritornava in patria e smontava all’Hotel Feder. Saputosi il suo arrivo in Torino la stessa sera gli si fece una splendida ovazione innanzi all'albergo e la città fu illuminata come nelle grandi feste. L'Abate però non era venuto solamente per ricevere omaggi. Siccome le sette repubblicane minacciavano di togliere alla monarchia Sabauda la direzione e i vantaggi dei movimento nazionale, i liberali monarchici ed il ministero speravano che egli in tale frangente avrebbe dato aiuto al loro partito. Gioberti accettava l'incarico. E infatti si era inteso a Parigi con Mazzini ed si era convenuto che questi pel momento lascerebbe fare e non guasterebbe il procedimento legale degli avvenimenti. Nello stesso tempo aveva ricevuta la missione segreta di persuadere in tutta l'alta Italia l'unione degli Stati Italiani col Piemonte sotto lo scettro di casa Savoia, e l'occupazione degli Stati Pontifici, lasciando a Pio IX la solo Roma, sua vita naturale durante. Gioberti il 7 maggio si presentava a Carlo Alberto in Somma Campagna, e il 24 giungeva a Roma dopo aver percorso la Lombardia, la Liguria, la Toscana, accolto nelle città con tale frenesia di applausi e sfoggio d'onori che superano l'immaginazione. Salito in Campidoglio come un trionfatore, dichiarato cittadino Romano, acclamato professore alla Sapienza, visitava il Papa per ingannarlo sulle intenzioni dei liberali, lo confortava alla confederazione Italiana e gli proponeva di coronare Carlo Alberto colla corona ferrea in Milano. E Pio IX, che pur conosceva chi fosse Gioberti, gli aveva risposto che, ove questo giovasse a consolidare la pace e a rendere felice l'Italia, egli il farebbe. Gioberti si era abboccato ovunque con tutti i capi partito e la sua opera non parve caduta a vuoto. La parte repubblicana per qualche tempo stette quieta, e buon numero di province deliberarono l'unione col Piemonte. Piacenza il 10 maggio, Parma il 25, Reggio il 26, Modena il 29, Milano l'8 giugno e il 4 luglio Venezia accettarono a sovrano Carlo Alberto. Torino aveva ragione di tripudiare essendo riconosciuta per capitale di tanta e così nobile parte d'Italia.

Intanto continuava la guerra. Il generale austriaco Nugent con 22.000 uomini il 16 aprile entrava nel Friuli dal lato dell'Isonzo, e dopo facile vittoria presso Palmanuova, il 23 occupava Udine e poi Conegliano, e il 5 maggio Belluno e quindi Feltre. Il 6 Carlo Alberto assaliva gli Austriaci a Santa Lucia sperando una sommossa in Verona, ma dopo un lungo combattimento i Piemontesi dovettero ritirarsi. Il 9 i soldati di Nugent respingono un assalto accanito, e i legionari pontifici che sostenevano questi scontri, sobillati da emissari repubblicani, incominciano a rifiutare obbedienza ai loro capi ed a sbandarsi. A Napoli il 15, per opera dei ministri settari che lavoravano per la repubblica, insorgono le plebi appoggiate dalla guardia nazionale e alzano le barricate. Ma le truppe regolari dopo un feroce combattimento per le vie e per le case spengono la sedizione. Siccome questa si riaccendeva nelle province e nella Sicilia ribellata, un partito volendo la repubblica e un altro offrendo la corona reale al Duca di Genova, Re Ferdinando, che aveva bisogno di tutti i suoi battaglioni, ordina che retrocedano quelli che erano partiti per la Lombardia. E fu obbedito con gran danno della causa nazionale. A Vienna i disordini continuati giungono al punto che l'Imperatore temendo per la sua vita il 17 corre a rifugiarsi ad Innsbruk. Il 20, il 22 e il 24 gli Austriaci tentano di entrare in Vicenza, ma il valore degli italiani rende vani i loro sforzi e poco dopo per due volte li rintuzzano anche a Bardolino.

Il 29 maggio gli imperiali con più di cinquanta cannoni sloggiavano da Curtatone presso Mantova 4.000 volontari la maggior parte toscani, i quali però resistettero con tale valore ed ostinazione, quale non si era ancor veduto in quella guerra. Il 30 Radetzki, per soccorrere Peschiera assediata, assaliva i 20.000 Piemontesi che erano a Goito con quaranta cannoni e ributtato, si ritirava a Mantova. Allora Peschiera apriva le porte a Carlo Alberto. Per così fausto avvenimento in Torino e in tutte le città del Piemonte si pose mano a solenni funzioni in rendimento di grazie al Signore.

 

 

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