Sezione principale

Vorrei un’amicizia che duri all’infinito - Domande esigenti e come affrontarle

I giovani hanno dentro di loro una sete di infinito che esprimono attraverso il desiderio di costruire amicizie durature e nei dubbi che si pongono sulla loro vita.


Vorrei un’amicizia che duri all’infinito

Domande esigenti e come affrontarle

 

di Gianna (pseudonimo)

 

I giovani hanno dentro di loro una sete di infinito che esprimono attraverso il desiderio di costruire amicizie durature e nei dubbi che si pongono sulla loro vita. All’avvio di un cammino educativo per adolescenti è necessario ascoltare queste richieste, mettendo in discussione innanzitutto il proprio ruolo di educatore, accogliendo le domande con amore e rilanciandole attraverso la riflessione e la messa alla prova con esperienze concrete. In alcuni casi sarà necessario risvegliare le domande interiori dei ragazzi, mettendo un in crisi l’ordinario della loro vita quotidiana.

 

Da circa un mese ha iniziato una nuova esperienza di animazione in oratorio con un giovane amico salesiano e un gruppo di ragazzi e ragazze di terza, quarta e quinta superiore. In tutto al momento siamo una quindicina. L’altra settimana abbiamo chiesto loro perché vengono a questo appuntamento dato che nessuno li obbliga e certo non va così di moda venire in oratorio negli ultimi tempi. E la loro risposta mi ha stupita. Infatti alcuni ci hanno detto che vengono in oratorio perché sperano di trovare delle amicizie “diverse”. “Che cosa intendete per “diverse”? In che senso?” – abbiamo chiesto loro. “Nel senso di amicizie di durata infinita!” ci hanno risposto. 
Chi frequenta i giovani sa che è così: quando accetti di passarci del tempo insieme e di lasciarti mettere in crisi dalle loro domande, le sorprese sono dietro l’angolo. Infatti mai avrei pensato che ci avrebbero rivolto una richiesta così esigente, che ci avrebbero chiesto in qualche modo di aiutarli a costruire dei rapporti che durino all’infinito, cioè in eterno. 
Allora ho iniziato a pensare all’infinito e me lo sono figurata come un enorme filo d’argento che si srotola davanti a me senza che io riesca ad intravvederne la fine. Noi umani però non siamo infiniti perché il nostro corpo è mortale, cioè destinato a morire. Eppure, incredibilmente, abbiamo dentro di noi una sete, un anelito qualcuno lo chiama, una pulsione – altri – che va oltre, che si arrischia ad immaginarci oltre i nostri limiti.

 

Mi sono così ricordata di un altro giovane che desiderava vivere un’esperienza di eternità:
«Maestro buono, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?» (Mc 10, 17)
Ecco una domanda che assomiglia alla richiesta dei ragazzi del nostro gruppo. La stessa sete di infinito, lo stesso slancio. E come si può rispondere ad una domanda simile? Come si fa infatti a vivere un’amicizia infinita dentro un’esperienza di vita che è inevitabilmente finita? Io da sola certo non avrei saputo rispondere ad una domanda del genere. È per questo motivo che mi sono rivolta a tre maestri, nella speranza che anche loro, trovati di fronte a questioni simili, mi avrebbero saputo fornire qualche indizio: Gesù di Nazareth, Enzo Bianchi, Rainer Maria Rilke. 
 

Primo indizio: mettere in discussione il proprio ruolo di animatore 
Il primo, Gesù di Nazareth, alla domanda di quel giovane risponde così: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio […]» (Mc 10, 18). 
L’atteggiamento iniziale di questo maestro – ma ognuno ci metta il nome che preferisce: prof, animatore, educatore, insegnante – è quello di mettere in discussione innanzitutto il suo stesso titolo di “maestro buono” per come lo usa il giovane che ha di fronte a lui. Inconsueto ed interessante che un uomo adulto, dall’alto della sua posizione, non voglia essere dato per scontato. Forse non vuole che quel giovane scelga di seguire le sue indicazioni per abitudine o perché altri gli hanno parlato bene di lui.
Mi sembra che come animatori spesso diamo per scontato la bontà di molte cose: l’oratorio, il volontariato, l’andare a messa… il nostro stesso servizio di animazione! Ma siamo davvero convinti che stiamo proponendo delle esperienze “buone” per la vita dei ragazzi che ci sono stati affidati? E siamo sicuri che loro avvertono del buono in ciò che stiamo offrendo loro?  

 

Secondo indizio: amare le domande dell’altro
Proseguendo con il racconto, scopro che quel maestro, guardato il giovane, «l’amò» (Mt 19, 21). Non c’è scritto che amò la sua intelligenza o il suo aspetto fisico o il suo carattere. Lo amò, punto. Cioè lo amò in tutta la sua persona e mi sembra lecito pensare che lo amò in tutto e per tutto, comprese le sue domande e i suoi dubbi. Per questo motivo non ha tarpato le ali a quella domanda, ma, anzi, l’ha alimentata sollevando una riflessione più profonda. Enzo Bianchi sostiene che sia necessario amare le nostre domande, soprattutto quando siamo giovani:
«Tuttavia il giovane deve amare innanzitutto le domande, senza pretendere subito, spinto dall’angoscia, delle risposte: deve cioè saper vivere, custodire e rinnovare la domanda che porta nel cuore fino a quando sarà venuta l’ora in cui questa intravede la risposta che attende» (Enzo Bianchi, 2015: 11). 
Allora penso che quelle richieste e quei dubbi che i ragazzi che ho incontrato si portano dentro non sono da buttare, ma sono anzi da accogliere e da seguire. Quindi, soprattutto alla partenza di un percorso educativo per adolescenti è necessario mettersi in ascolto delle loro domande perché solo se esse saranno messe al centro dell’esperienza formativa, ognuno si sentirà motivato a partecipare e ad attivarsi come protagonista dell’esperienza di gruppo.

 

Terzo indizio: mettere alla prova le domande
Se ritorniamo alla prima frase di Gesù – «Perché mi chiami buono?» - mi sembra di poter dire che quest’uomo, che in tanti chiamavano maestro, risponda alla domanda a lui posta, non con una risposta, ma sollevando una nuova domanda, un nuovo dubbio.  Vero è che questo nuovo dubbio si aggancia alla domanda del giovane e alla sua esperienza. Ma in realtà la indaga più a fondo, quasi come se volesse scardinare il senso profondo di quella richiesta. In effetti da quel «perché» affiorano diverse altre questioni: che cosa intendi per buono? Che cosa vedi in me di buono? Pensi davvero che io sia buono? In cosa sarei buono per te? Perché vai in cerca di qualcosa di buono? In definitiva: che cosa davvero stai cercando? 
Se è vero che queste domande che ci portiamo dentro sono da amare e da rendere protagoniste delle nostre riflessioni, è vero anche che in certi momenti rischiano di rovinarci se non siamo in grado di educarle, cioè se non siamo capaci o non abbiamo gli strumenti giusti per «metterle alla prova»:
E il Suo dubbio può trasformarsi in una buona qualità, se Lei lo educa. Deve diventare sapienza, deve diventare capacità critica. Gli chieda, ogni volta che esso cerca di rovinarLe qualcosa, per quale mai ragione quella realtà dovrebbe essere spregevole, esiga delle motivazioni, lo metta alla prova, e lo troverà forse disorientato e impacciato, o forse, addirittura, Le si rivolterà contro. E allora non ceda, pretenda degli argomenti, e si comporti ogni volta cosi, con attenzione e in modo coerente, e verrà il giorno in cui, da sabotatore qual e, si trasformerà in uno dei migliori tra coloro che lavorano per Lei; il più accorto, forse, tra quelli che stanno costruendo la Sua vita. (Rilke, 2015: 95) 
Quindi ascoltare le nostre domande invece che silenziarle, accogliere i dubbi che ci portiamo dentro senza temerli. Ma allo stesso tempo impegnarci seriamente per sondare i motivi per i quali ci questioniamo e tormentiamo tanto rilanciando le domande con ulteriori domande e confrontandole con la realtà dei fatti. Un cammino in oratorio può essere l’occasione per aiutarci a tenere vive le domande che ci portiamo dentro e per provare a trovarci un senso, meglio se condiviso con qualcun altro, in modo da poterci sostenere nella ricerca della senso della propria vita. Una ricerca che risponde al desiderio che ciascuno ha di essere felice. 
 

E per chi le domande non se le pone o fatica a tirarle fuori?
Fino ad ora ho dato per scontato che i ragazzi del gruppo che seguo si siano posti tutti delle domande sulla loro vita e siano in ricerca della felicità. Certo, perché li vedo e constato che non sono morti ma vivi e vegeti e si muovono nel mondo con un minimo di riflessività, né tanto meno mi sembrano indifferenti verso se stessi e gli altri. Ma potrebbe non essere così. Potrei aver fatto una valutazione sommaria e superficiale. Allora a quel punto c’è da inventarsi creativamente il modo per risvegliare queste domande, la sete di infinito che tutti noi ci portiamo dentro, attraverso una provocazione, una testimonianza, una riflessione, un’attivazione concreta. Bisogna che ci ricordiamo che potrebbe far male prendere in mano le proprie inquietudini e per questo è necessaria tutta la delicatezza e il rispetto di cui si è capaci. 

 

TESTI CONSULTATI
Enzo Bianchi, Prefazione in Lettere a un giovane, trad. it. L. Gobbi, Edizioni Qiqajon, Magnano (Bi), 2015.
Rainer Maria Rilke, Lettera 9 in Lettere a un giovane, trad. it. L. Gobbi, Edizioni Qiqajon, Magnano (Bi), 2015.
Vangelo di Marco, cap. 10 http://www.laparola.net 

 

 

Versione app: 3.13.5.5 (94dd45b)