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Voglio gridare che c'è chi sta peggio

Lasciamoci provocare da Simone, che ha vissuto un'esperienza di Servizio civile come “Casco Bianco”, con la Comunità Papa Giovanni XXIII, nel 2005 ed è partito nell'estate 2009 per la Bolivia, per due anni di servizio con l'Operazione Mato Grosso. Uscire dalle proprie frontiere e sporcarsi le mani....


Voglio gridare che c'è chi sta peggio

«Albania e Bolivia: sono state partenze con stili diversi, ma con contenuti comuni. Nella prima, in Albania per 9 mesi, ho prestato servizio in una Casa Famiglia che accoglieva persone con disabilità e ragazze madri. Seguivo anche un progetto per famiglie “sotto vendetta di sangue”, con persone che si aspettavano di essere assassinate. Nella seconda, con l’Operazione Mato Grosso, ho vissuto con una quarantina di ragazzi tra i più poveri dei villaggi limitrofi, ai quali si offriva la possibilità di frequentare gratuitamente una scuola tecnica e umanistica per imparare un lavoro di falegnameria e di sartoria. Si trattava di seguire questi ragazzi accompagnandoli anche in un percorso educativo. C’erano inoltre le attività dell’oratorio per i bambini e della carità spicciola soprattutto nei confronti degli anziani più in difficoltà, oltre ad altri lavori nelle comunità e nelle contrade, come portare l’acqua potabile vicino alle case.
Portando nel cuore quanto ho vissuto, mi chiedo come sia possibile che ancor oggi, nel 2012, ci siano persone che debbano percorrere kilometri per andare a prendere un po’ d’acqua, che ci siano tanti bambini che muoiono di banali malattie e chi soffre e muore di fame, che esistano persone con cui la vita è stata così ingiusta, che hanno perso tutto e vivono per le strade, al gelo, rovistando tra i rifiuti nella speranza di sopravvivere.
Mi chiedo come sia possibile che noi sentiamo così lontane queste persone e che il sapere della loro esistenza ci lasci così indifferenti, freddi e impassibili. È l’espressione massima di egoismo di questa società che abbiamo costruito con le nostre stesse mani, che vive all’insegna della superficialità e del ripiegamento su se stessa. Lo vedo e lo sento, oggi più che mai! Siamo tutti concentrati sulla crisi economica e nessuno grida alla crisi dei valori, ad una decadenza delle coscienze. La crisi economica ci tocca da vicino, è il nostro massimo problema, tanto da portarci a perdere speranza nel futuro, facendo emergere frustrazioni e insoddisfazioni. Finiamo per guardare solo a noi stessi. Come si fa? Voglio gridare che c’è chi sta peggio, che c’è chi sta male e sta morendo di stenti; ora; adesso, ma non lo capiamo; non sappiamo sentire al di là del nostro stomaco, incapaci di vedere quanto siamo fortunati. E così questo egoismo ci rende infelici.
Ho sentito dire che, “per riprendersi da questo ristagno economico, forse, ci sarebbe bisogno di una guerra…”. Rabbrividisco e soffro! D’altronde siamo nella società del consumo, dell’avere e non dell’essere, dove ci si preoccupa di costruire una bella casa e non altrettanto una bella famiglia, dove si giudica uno dai capelli trasandati, dove ci si deve vestire bene perché è l’apparenza che conta, dove le tecnologie e le comodità sono la nostra dipendenza, dove qualsiasi cosa costi fatica viene dribblata, scartata. Così siamo un fallimento anche nelle relazioni, perché anche quelle costano fatica e ci sentiamo soli. Soli, ma con tanti amici su facebook, ma lì è tutto più facile, è virtuale!  
Credo che dobbiamo convertirci per ritornare a sorridere, convertirci al “meglio dell’uomo”, scrollandoci di dosso quel nostro “io”, incamminandoci verso il prossimo, che potrà essere un povero del terzo mondo, il compagno di scuola o il collega di lavoro, che potrà essere un amico o uno sconosciuto che suona alla porta.
Convertirci perché la pace non sia una situazione di “assenza di guerra”, ma uno “stato” dell’animo umano tra i più alti e nobili. Se voglio la pace, infatti, devo essere “uomo di pace”, con la purezza nel cuore, eliminando odio, rancore, gelosie.
Convertirsi è desiderare la vita con tutte le sue bellezze, dandole profondità, è desiderare una società diversa, dove non si parli di interessi, ma di equità, dove la giustizia non sia dettata dai tribunali, ma sia il pane della coscienza di ognuno. 
Desiderare di essere promotori di giustizia e di pace è, innanzitutto, attuare ciò in cui crediamo, non per un solo giorno, in una circostanza, come può essere una marcia, ma “sempre”, attuandolo con la vita».

Simone Pasin

http://www.retesicomoro.it

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