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L'amore «teologale» del prossimo - V parte

Per San Paolo, come per il Nuovo Testamento in generale, l'amore del prossimo è anzitutto ed essenzialmente un riflesso dell'amore che Dio stesso porta a noi, del quale Cristo è l'espressione perfetta. Ci si spiegano pertanto quelle formule così caratteristiche che ritornano di continuo sotto la sua dettatura.


L'amore «teologale» del prossimo - V parte

da L'autore

del 01 gennaio 2002

Nell'analisi della descrizione dell'amore del prossimo fatta da Paolo nell' «inno alla carità» (1Cor. 13) ci siamo attenuti principalmente all' aspetto esteriore. Vale la pena ora di approfondirne la natura, e precisamente di esaminare ciò che distingue questo da ogni amore «naturale», facendone una «virtù teologale». È chiaro infatti che l'amore descritto nei vv. 4-7 non può esser diverso da quello del quale parla in tutto l'inno e che mette accanto alla fede e alla speranza, o meglio al di sopra di esse (v. 13) (1).

Per San Paolo, come per il Nuovo Testamento in generale, l'amore del prossimo è anzitutto ed essenzialmente un riflesso dell'amore che Dio stesso porta a noi, del quale Cristo è l'espressione perfetta. Ci si spiegano pertanto quelle formule così caratteristiche che ritornano di continuo sotto la sua dettatura.

Mostratevi buoni e compassionevoli gli uni verso gli altri, perdonando vi reciprocamente, come Dio ha perdonato a voi. Siate dunque imitatori di Dio, quali figlioli amatissimi. Vivete nell'amore, dietro l'esempio di Cristo, il quale vi ha amato e si è donato per voi (Ef. 4,32 fino a 5,2).

Portate la mia gioia al colmo con la concordia dei vostri sentimenti: abbiate lo stesso amore, un'anima sola, un solo sentimento, non fate concessioni alla vanagloria...; non cercate il vostro tornaconto, ma ognuno pensi piuttosto a quello degli altri: siate di fatto animati dagli stessi sentimenti di Cristo Gesù, il quale, essendo di condizione divina... si annichilò... si umiliò, obbedendo fino alla morte e alla morte su una croce (Fil. 2,2-8). È nostro dovere non cercare quel che piace a noi. Ognuno piaccia al suo prossimo... Infatti Cristo ha cercato quel che piaceva a lui (Rom. 15,1-3).

Uomini, amate le vostre mogli come Cristo ha amato la chiesa e si è donato per essa, per santificarla (Ef. 5, 25-26).

Era, questa, la lezione chiarissima del discorso del monte: «Siate perfetti come il vostro Padre celeste è perfetto» (Mt. 5,48), lezione che Luca non teme di precisare, scrivendo: «Siate misericordiosi, come il vostro Padre celeste è misericordioso» (Lc. 6,36). Era, anche, la lezione di San Giovanni: «Come io ho amato voi, così anche voi amatevi gli uni gli altri» (Giov.13,34).

Se il nostro amar del prossimo è un riflesso dell'amore che Dio e Cristo portano a noi, nessuna meraviglia che ne riproduca tutte le caratteristiche e che all'uno e all'altro siano attribuite le medesime qualità; l'abbiam già visto per la longanimità, la bontà, la benignità, il disinteresse. Ma lo stesso si può dire, per esempio, della misericordia, della compassione, della fedeltà, ecc. (2).

Ora, imitare Dio o Cristo non è come imitare un santo. Di questo non possiamo riprodurre se non gli atteggiamenti o i sentimenti; ma egli rimane sempre esterno a noi. Dio invece, come dice Sant'Agostino, «è interno a noi più di noi stessi». Ogni cristiano è entrato col battesimo a partecipare della vita stessa di Cristo risuscitato (Rom. 6,4); con Cristo è divenuto un solo essere (v. 5), tanto che Paolo non teme di dire: «Vivo, ma non più io; bensì è Cristo che vive in me» (Gal. 2,20). Proprio perché vive della vita stessa di Cristo il cristiano può rivolgersi al Padre col medesimo appellativo di cui si serviva il Figlio unico, l'appellativo di abbà (Padre), preso nel senso speciale che esso aveva presso gli Ebrei (Gal. 4,6; Rom. 8,15) (3). «Battezzati in Cristo, noi formiamo un tutt'uno con lui» (Gal. 3,27-28): non una cosa sola, ma un solo essere vivente; infatti l'Apostolo usa il maschile, non il neutro: «come una sola persona mistica» (4). È ben per questo che Dio Padre ci ama, nello Spirito, dello stesso amore con il quale ama il proprio Figlio (5). Con questo stesso amore, che è la vita di Cristo, noi a nostra volta amiamo, nello Spirito, non solo il Padre, ma tutti quelli che ama lui: tutti gli uomini, i nostri «fratelli».

È chiaro che nulla si può pensare che ci unisca a Dio in maniera più intima e più immediata, secondo la definizione che San Tommaso dà della virtù «teologale», proprio quando spiega il passo di 1Cor. 13, 13: «Queste tre virtù ci uniscono a Dio immediatamente; le altre ci uniscono a Dio solo mediante queste tre». Più ancora, l'amore così intenso non solo ci unisce immediatamente a Dio, ma - potremmo dire - ci unisce a ciò che in Dio è Dio nel massimo grado, poiché, secondo la rivelazione cristiana, «Dio è amore» (6).

Assai istruttivo è, a questo proposito, un passo di San Gregorio Nazianzeno. Gregorio, fine letterato com'era, sapeva bene che l'ideale religioso del greco era di assimilarsi a Dio, di ottenere la «divinizzazione» fuggendo ogni contatto con il mondo sensibile della materia e dandosi al puro esercizio dell'intelligenza. A questo ideale, pur tanto elevato, Gregorio oppone l'ideale cristiano utilizzando a bello studio lo stesso vocabolario e, ricordando che l'uomo è stato creato a immagine di Dio, esclama: «Pensa, o uomo divino, di chi sei creatura... Imita pertanto la 'filantropia' di Dio. Nulla nell'uomo è più divino che il far del bene. Tu dunque hai la possibilità di diventare Dio senza grande sforzo: non lasciar passare questa occasione di 'divinizzazione'» (7).

Ma l'amore del prossimo è «teologale» anche in quanto per San Paolo amare il prossimo è lo stesso che amare Cristo, poiché tutti gli uomini uniti a Cristo - e tutti son chiamati ad esserlo - formano con Cristo risuscitato «un unico vivente», secondo l'espressione così energica di Gal. 3,48 ricordata sopra; poiché, in altre parole e per dirla con un'immagine cara all' Apostolo non meno che ai suoi contemporanei, sono tutti «membra di Cristo» e formano il suo «corpo» (8). Questa dottrina è al centro della teologia di San Paolo e non è che l'eco dell'insegnamento del Maestro e della sua parola «l'avete fatto a me» (Mt. 25,40); essa consacra quella sovreminente dignità della persona umana che ogni morale cristiana si sforzerà sempre di promuovere e che si esprime nel principio che l'uomo è «figlio di Dio» perché è un «altro Cristo».

È risaputo quale posto essa occupasse nella predicazione dei Padri e con quale profondità i cristiani la vissero, un tempo più che ai nostri giorni. Ne fu fede l'aneddoto che Gilberte Périer narra nella vita del fratello Blaise Pascal. Questi, malato, desiderava ardentemente di comunicarsi; ma, vedendo l'opposizione dei medici alla sua aspirazione, non osò più parlarne; semplicemente disse: «Dal momento che non mi si vuole accordare questa grazia, vorrei almeno sostituirvi qualche opera buona e, non potendo comunicarmi col capo vorrei almeno comunicarmi nelle sue membra; per questo ho pensato di aver qua dentro un povero malato, al quale si renderanno gli stessi servigi che si rendono a me». Sempre rifacendosi allo stesso insegnamento il Padre Muckermann, per esempio, giustificava così la sua resistenza a Hitler: «Ogni volta che constatiamo un'ingiustizia verso chicchessia, fosse pure il più povero e il più umile degli uomini, è come se vedessimo vibrare un pugno al volto di Cristo».

È ancora questa dottrina che spiega come il cristiano possa amare Dio non solo con un amore di semplice ammirazione, ma con amore effettivo, quello di un amico che vuole il bene del suo amico e si sforza di procurarglielo: non si contenta di ricevere, ma passa al dono. Tra Dio e l'uomo sembra che un tale scambio di beni - nel quale consiste la vera amicizia - sia decisamente escluso. Da Dio, cosi pare, l'uomo non può che ricevere e perciò sembra dover esser privo della beatitudine, che secondo il detto di Cristo riferito da Paolo, consiste «più nel donare che nel ricevere» (Atti 20,35). Ma ecco che il mistero dell'incarnazione opererà questo prodigio inaudito, poiché Dio, l'infinito, senza perder nulla della sua trascendenza, si fa uomo, finito, e pertanto capace di «ricevere» qualcosa dalle sue creature. Per quanto stupefacente e blasfema possa apparire la cosa, Dio ha voluto «aver bisogno dell'uomo». Noi lo vediamo fin dall'Antico Testamento entrare in qualche modo nella storia del suo popolo e vediamo i profeti, a partire da Osea, compiacersi nel descrivere l'amor di Dio per Israele sotto la immagine dell' amore appassionato di un uomo per la sua sposa, un uomo che non sa fare a meno di amarla nonostante le sue infedeltà.

La Bibbia non teme nemmeno di parlare della «gelosia di Dio», segno indubitabile dell'amore, ma di un amore deluso, che soffre di esserlo.

Ma con la rivelazione del mistero dell'incarnazione comprendiamo fino a quel punto Dio ha voluto associarsi alla nostra condizione umana e farsi uno di noi. Nel corso della sua vita mortale, infatti, Cristo non si è limitato a «passare facendo del bene» (Atti 10,38), ma, da uomo autentico, ha avuto bisogno di altri; ha dato, ma ha pure ricevuto e quando, seduto sull'orlo del pozzo di Giacobbe, chiedeva un po' d'acqua per calmar la sete, non intendeva certo parlare per celia con la donna di Samaria (Giov. 4,7).

Ora l'incarnazione continua. Cristo ha voluto restar presente tra gli uomini, nell'Eucarestia e nelle membra del suo Corpo: due presenze delle quali San Paolo nota espressamente la connessione: un solo pane eucaristico, un solo corpo di Cristo (1Cor. 10, 16-17). Anche questa dottrina è ripresa instancabilmente dai Padri, per esempio dal papa San Leone Magno, uno dei grandi «dottori dell'incarnazione», che non esita a stabilire un parallelo tra queste due presenze. Cosi egli ricorda ai cristiani che «comunicandosi si nutrono del corpo e del sangue di Cristo», ma anche che «distribuendo ai poveri vestiti e cibarie nutrono e vestono Cristo nei poveri»; e, con un ardire al quale non siamo abituati conclude: «Vero Dio e vero uomo, dunque, Cristo è unico, ricco nelle sue ricchezze, povero nelle nostre miserie, in atto di ricevere le nostre offerte (nella persona dei poveri) e di distribuire i suoi doni (nell'Eucarestia), di partecipare alla nostra condizione mortale e di dare la vita ai morti». In un altro passo egli celebra la meravigliosa condiscendenza di Cristo, che ha saputo «conciliare il mistero della sua umiltà con quello della sua gloria, casi che a Colui che noi adoriamo come nostro re e maestro nella maestà del Padre, dessimo pure da mangiare nella persona dei suoi poveri» (9).

Così stando le cose, nessuno si meraviglierà che San Paolo concepisca la vita cristiana, interamente imperniata sulla carità, come il culto per eccellenza che noi dobbiamo rendere a Dio, culto chiamato «spirituale» in opposizione ai sacrifici della legge antica (Rom. 12,1). La sua morale, che si riassume nell'amore del prossimo, non per questo è meno essenzialmente ordinata a Dio: è una morale eminentemente religiosa. Se l'Apostolo ricorda solo il «secondo» comandamento: «Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Gal. 5,13; Rom. 13,9) - come fa del resto Cristo in Mt. 7,12 (cfr. 25,31-46) e in Giov. 13,35 - ciò non significa certamente che egli dimentichi il «primo»: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore». La ragione sta in questo: che per lui il «secondo» include il «primo» e ne è come l'autentica espressione concreta. L'opposizione, oggetto di tante controversie, tra una morale «teocentrica» e una morale «antropocentrica» è superata; in lui non ha più senso. Ogni azione ordinata al vero «bene dell'uomo», che consiste nel compiere il suo destino, cioè nel «ritornare a Dio», non può non essere ordinata al «bene di Dio», poiché proprio per questo fine Dio l'ha creato e Cristo l'ha riscattato col suo sangue. «Se la visione di Dio è la vita dell'uomo, la gloria di Dio consiste nel dar la vita all'uomo» (S. Ireneo).

Tutto questo aveva mirabilmente compreso Santa Teresa del Bambin Gesù. Nell'atto di offerta all'amore misericordioso composto due anni avanti la morte, atto che portava sempre con sé, dapprima aveva scritto spontaneamente: «Voglio lavorare solo per amar vostro, all'unico fine di farvi piacere, di consolare il vostro Sacro Cuore salvando vi delle anime che vi amino eternamente». Spaventata, forse, della sua audacia o consigliata da qualcuno, si sa che, nel copiare l'atto di offerta per la sorella, introdusse un leggero cambiamento scrivendo: «... all'unico fine... di consolare il vostro Sacro Cuore e di salvar delle anime...». Ritengo che nel suo pensiero la «salvezza delle anime» rappresenta il mezzo non solo privilegiato, ma unico di «consolare» veramente il Cuore di Gesù; ma la nuova redazione, quella che fu stampata e diffusa, permetteva una dissociazione, che probabilmente molti lettori han fatto con non minore spontaneità.

[1]. Si veda pure L. LOCHET, Charité fraternelle et vie trinitaire: «Nouvelle Revue Théologique» 38 (1956) 113-134. [2]. Ecco alcuni dei richiami più caratteristici: -longanimità: 1Cor. 13,4; Gal.5,22; e Rom. 2,4; 9,12. - bontà e benignità: 1Cor. 13,4; Gal. 5,22; Col. 3,12; Ef.4,32 e Rom. 2,4; 11,22; Ef. 2,7; Tit. 3,4. - disinteresse: 1Cor. 10,24.33;  13,5; Fil. 2,3.21 e Rom. 5,6-8; 15,1-3; cfr. Mt. 5,48; Lc. 6,35. - misericordia: Rom. 12,8 e Tito 3,5; cfr. Ef.4,32; Le. 6.36. - compassione: Col. 3,12 e Rom. 12,1. - fedeltà: Gal. 5,22 e 1Cor. 1,9; Rom. 3,3. [3]. Vedi sopra p. 34. [4]. S. TOMMASO, Summa Theologica III, q.48, a.2. [5]. Rom. 5,5; 8,16; cfr. Giov. 17,26. [6]. 1Giov. 4,8; si veda tutto il contesto dei vv.7-9. [7]. Discorso I7, n.9 (P.G.35,976). [8]. 1Cor. 6,I5; 10,17; 12,I2.27; Rom. I2,5; Col. 1,18, ecc.; Ef. 1,23, ecc. [9]. S. LEONE MAGNO, Sermoni 91 e 9 (PL 54.452-453.163). Il Padre Peyriguère, apostolo di El Khab nel Marocco, ha vissuto questo mistero con un'intensità particolare: «La contemplazione è l'esperienza della presenza. Qui, nel prendermi cura dei fanciulli, io Lo vedo, Lo tocco, ho l'impressione quasi fisica di toccare il corpo di Cristo. È una grazia straordinaria... I fanciulli ai quali metto una camicia sono il corpo di Cristo, che io adorno. A forza di viverla (questa presenza), ne viene un rinnovamento della mia messa...». Caduto gravemente malato, egli rinviò la partenza per poter attendere ancora a una distribuzione di abiti. Alla suora che gli domanda perché mai non sia disceso più presto a Casablanca per farsi curare, risponde con tutta semplicità: «Ma, sorella, non avrei avuto la gioia di veder Cristo vestito a nuovo» (G. GORRÉE, Le Père Peyriguère, pp. 54 e 70).

Stanislao Lyonnet

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