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Giovani e felicità

Oggi è tornato il momento di testimoniare senza complessi di superiorità o inferiorità, senza intolleranza e senza vergogna la gioia di essere cristiani. La gioia di sapersi e di sentirsi figli del Padre: non orfani né vagabondi, non schiavi né mercenari, ma figli-figli, amati, pre-scelti e candidati alla vita eterna.


Giovani e felicità

 

           «Scrivo a voi, giovani, troppo spesso dipinti come disincantati, cinici, delusi, pragmatici, ma che, ogni volta che vi incontro vi trovo sempre più puliti, più sani, più liberi e più veri di quanto i media e un certo cliché degli adulti vorrebbero far credere». Inizia con queste parole la Lettera Pastorale del Vescovo di Rimini, Francesco Lambiasi, che reca il titolo Giovani, dove sta la felicità?

 

           Si tratta di una lettera scritta avendo in mente soprattutto i giovani, ma la cui lettura è pure consigliata a chiunque a diverso titolo si trovi a lavorare con i giovani. È un testo molto denso e profondo, che trova la sua sorgente nella ricca umanità e spiritualità del suo autore, a lungo docente di teologia a Roma, rettore di seminario ad Anagni, assistente generale dell'Azione Cattolica Italiana e ora, da alcuni anni, Vescovo della cittadina romagnola.

           Una lettera “pastorale”, dunque, che però è diretta ai giovani, perché una Chiesa che guarda al proprio impegno nella storia in questo tempo non può non avere a cuore la dimensione educativa del suo pensare e del suo agire. Ed è una lettera che mantiene sempre un tono diretto, urgente, il tono di chi ha da comunicare una notizia che non può tardare ancora di raggiungere il suo destinatario.

           E la notizia è proprio questa: la felicità non è un'illusione né un miraggio, e neppure una vana aspirazione immessa nel cuore dell'uomo ma destinata al fallimento, per cui sarebbe più assennato “sapersi accontentare”. La felicità è un cammino, è una compagnia, è una vocazione, è un appello. 

 

Vangelo e felicità

           Il testo, dopo una breve introduzione, si divide in 9 capitoletti: Ma che sta succedendo?, Può un cristiano essere felice?, Vangelo: vedi alla voce Felicità, L'ansia del futuro, È ora di svegliarsi, Dov'è Dio quando noi soffriamo?, La felicità della Pasqua, La gioia di essere cristiani, La felicità c'è. Il punto di partenza è la registrazione che nella cultura contemporanea si assiste ad un calo del desiderio, all'imporsi cioè di una sorta di apatia generalizzata sul senso dell'esistenza, dovuti fondamentalmente ad una sorte di overdose di “beni”, che minacciano di far scomparire dalla nostra vita la questione centrale del “bene”. Soprattutto dalla vita dei giovani.

           Che cosa resta della felicità in tutto ciò? Il discorso pubblico, quello pubblicitario per intenderci, continua imperterrito e indisturbato a mettere al primo punto della ricetta della felicità “il successo”, ma sono tantissime le controindicazioni e gli effetti negativi di questo suggerimento, e ci si può soltanto meravigliare del fatto che il ceto adulto non abbia ancora deciso di risvegliarsi dal suo stato di dismissione permanente dell'impegno educativo e non abbia preso sul serio come effettivamente “la società dei consumi” alla fine non faccia altro che consumare per intero la società, a partire dai più giovani e dai meno vaccinati a tutto questo discorso.

           Il Vescovo Francesco non ci sta a questo gioco. E per questo decide di comunicare ciò che dà sapore e sapere alla sua esistenza, ciò che la illumina e la fa risplendere di gioia, di felicità. La sua fede cristiana.

           «Il cristianesimo - egli scandisce bene - annuncia la felicità». Nulla di meno. E non al margine dei suoi discorsi e delle sue prediche. No al cuore della sua stessa verità, al cuore del credo. Riesce così molto bene all'autore di questa lettera pastorale di ripercorrere i punti salienti del “credo dei cristiani” - quello che recitiamo la domenica per intenderci - come “otto capitoli della perfetta letizia”.

           Ed ecco che la felicità è proprio questo venir a sapere dell'amante e benedicente compagnia divina del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, che ci pone in una comunità di fratelli e di sorelle, tutti chiamati a realizzare della loro vita e della vita del mondo una realtà bella, santa, pulita. Chi crede in ciò non teme dunque il peccato né la morte: sa che esiste il perdono e che la traiettoria della sua azione punta oltre la lapide che aspetta ciascuno al cimitero! 

 

I nemici della felicità cristiana

           Non pensi il lettore che al Vescovo Francesco manchino una buona dose di realismo e di sano senso delle cose. Per questo dedica parecchie pagine della sua lettera ad enumerare i principali nemici - esprimiamoci così - della felicità credente. Ed il primo fra tutti è l'ansia del futuro, l'affanno, la preoccupazione, la paura, la tentazione di assicurarsi con i beni il bene della vita e del suo pieno sviluppo umano. Tentazioni vere, reali. Atteggiamenti però che creano sempre un senso di vuoto, un rinchiudersi e un rintanarsi su se stessi che portano alla fine ad una lotta contro la vita per paura del futuro e della morte.

           Il credente è invece colui che sa impegnare la propria esistenza su quel parametro di misura che Gesù ha tracciato con la sua vita e le sue parole: chi perde vince, chi dona guadagna, chi si dona risorge e vive.

           Ma non ci sono solo queste inquietudini esterne che minacciano la felicità di chi crede, ci sono pure forme di male interiore oggi più difficili da sentire e individuare. Sono ciò che la tradizione spirituale della Chiesa ha individuato come "vizi capitali": superbia, invidia, ira, avidità, gola, lussuria, accidia. Le meditazioni che il Vescovo offre per ciascuno di questi vizi meritano un'attenta riflessione. 

 

Sofferenza e male

           Non poteva a questo punto mancare un confronto serio e pensoso con l'obiezione forse più acuta possibile contro l'annuncio cristiano di una possibilità vera della felicità. L'obiezione della sofferenza propria e altrui, l'obiezione della sofferenza innocente, l'obiezione della distruzione che spesso viene dalla natura che ci circonda. Con un tocco delicato, il vescovo-teologo ricorda che all'esperienza cristiana - all'esperienza di Gesù stesso - non è estranea la realtà del dolore, della sofferenza e delle lacrime. Il Dio in cui crediamo non è un Dio incapace di sofferenza: è un Dio che sa soffrire, è un Dio che anche quando non ci salva dal dolore, ci salva nel dolore, è un Dio la cui creazione non è già tutta bella e compiuta. È un Dio che annuncia, nella morte e resurrezione di Gesù, la notizia di un compimento futuro della storia, ove ogni lacrima sarà asciugata e ciò che ora appare visibile solo come in una penombra apparirà nella sua verità.

           Per tutto questo la notizia che più d'ogni altra corrobora la felicità di chi crede è l'annuncio della Pasqua: la morte si è arresa a Dio! «A Pasqua cambia tutto: il peccato è perdonato, il dolore non è più disperato, la morte non è il tunnel che sbocca nello strapiombo del nulla, ma lo svincolo che immette nella vita per sempre. A Pasqua nasce la certezza che la vita non è fatta per la morte, ma la morte per la vita. Che non si vive per soffrire, ma si soffre per vivere». 

 

La gioia di essere cristiani

           E per finire il Vescovo Francesco ci regala una pagina davvero memorabile, una pubblica lode della fede cristiana. Egli desidera, infatti, mettere bene in luce ciò che definisce come umile, grata fierezza dell'essere cristiani. Ascoltiamolo: «Oggi è tornato il momento di testimoniare senza complessi di superiorità o inferiorità, senza intolleranza e senza vergogna la gioia di essere cristiani. La gioia di sapersi e di sentirsi figli del Padre: non orfani né vagabondi, non schiavi né mercenari, ma figli-figli, amati, pre-scelti e candidati alla vita eterna. La consolante verità che siamo fratelli di Cristo, suoi seguaci e testimoni, innestati in lui come tralci in cui fluisce la vita della vita divina».

           Penso sia proprio questo il gesto che i giovani oggi attendono da noi adulti credenti: la possibilità di sperimentare che l'incontro con Cristo non sia solo un fatto di tradizione o semplicemente di testa, ma una verità di cui sono testimoni i nostri occhi, le nostre mani, le nostre gambe, la nostra intera vita. C'è troppa tristezza in giro (il calo del desiderio, di cui si è già detto) e forse c'è troppa tristezza anche nelle nostre comunità ecclesiali: spesso ripetitive negli schemi e nei ritmi, autoreferenziali nei linguaggi e nelle scelte di fondo, monotone e prive di colore nelle celebrazioni e negli incontri.

           Servono cristiani adulti, educatori, toccati da Dio - come si esprime Benedetto XVI - e per questo capaci di scalfire l'indifferenza o l'estraneità degli altri rispetto all'annuncio del Vangelo.

 

 

Armando Matteo

 

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