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Giacomo Poretti, il mistero della vita in 32 km

Mentre mi gustavo il libro sentivo la sua voce leggerlo per me, fin dall'inizio, con l'apertura sulla lettera al figlio. C'è la condivisione della vita nel lavoro, per farci scoprire un inedito Giacomo-operaio in fabbrica così come un Giacomo-infermiere in ospedale. Perché non si nasce attori famosi.


Giacomo Poretti, il mistero della vita in 32 km

da Quaderni Cannibali

 

“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Scriveva così Cesare Pavese nel ‘50 ne La luna e i falò. E un paese l’ha avuto anche Giacomo Poretti, in arte solo Giacomo, che senza Aldo e senza Giovanni (come precisa nella fascetta del libro) ha da poco portato in libreria il suo “Alto come un vaso di gerani” per Mondadori.

Si tratta di Villa Cortese, un paesino che come racconta Giacomo “aveva un parrucchiere per donne, un macellaio, una merceria, un tabaccaio, un parrucchiere da uomo, la Luigia che vendeva il pane, il latte e il salame, il bar per quelli che andavano in chiesa, il bar per quelli che non andavano in chiesa, il bar dove c’era la Gazzetta dello Sport, un parroco molto severo, un negozio di abiti da sposa, un prete di nome don Giancarlo, una bocciofila e un oratorio più bello del posto più bello del mondo”.

Sarà stato perché avevo recentemente incontrato Giacomo in un incontro pubblico, ma mentre mi gustavo il libro sentivo la sua voce leggerlo per me, fin dall’inizio, con l’apertura sulla lettera a suo figlio in cui immagina il momento in cui il bambino inizierà a porgli le domande importanti della vita: “… e allora mi preparo, mi alleno: passo in rassegna ciò che mi è capitato, nella speranza di poterti dire che sei finito dentro a un gioco meraviglioso, complicato sì, misterioso anche, ma sensato e nient’affatto malevolo. Questo è ciò che spero, o meglio, ciò che vorrei che fosse. Se sia veramente così, lo scoprirà il tuo cuore”.

È questo il registro del libro, c’è qualcosa di clownesco in esso, nel senso più nobile: fa sorridere e fa pensare. Fa anche ricordare, perché in fondo più che un’autobiografia è la condivisione di ricordi e di esperienze, di luoghi significativi e dei volti che hanno reso quei luoghi, appunto, significativi. Perché una casa è solo un mucchio di mattoni, uguale a qualsiasi altra, ma è l’essere abitata e abitata con qualcuno che la trasforma in casa.

E poi c’è la condivisione della vita nel lavoro, per farci scoprire un inedito Giacomo-operaio in fabbrica così come un Giacomo-infermiere in ospedale. Perché non si nasce attori famosi.

Sarebbe un errore considerare questo libro una pura rievocazione nostalgica dei bei tempi andati, sebbene a volte se ne possa avere la tentazione. Per riprendere Pavese, Giacomo da Villa Cortese poi se ne è effettivamente andato: “Tutto il mio esodo si è svolto nel raggio di 32 chilometri, tra Villa Cortese, Canegrate, Legnano e Milano: lungo quel tratto dell’autostrada Milano-Laghi è accaduto tutto quello che doveva succedere, e tutte le domande, quelle che riuscivo a pormi, sono state formulate”.

È così: una cosa è scappare, altro è cercare, porsi una meta. A lui sono bastati trentadue chilometri. Ho incontrato gente che è andata dall’altra parte del globo per dimenticare un luogo o un volto e scoprire poi che la distanza da mettere è innanzitutto quella mentale, non geografica. Occorre infatti porre delle mete personali per non scadere nella Provincia e aprirsi all’Universo, e ciò può accadere anche in un paesino, non necessariamente in una grande metropoli. A Milano però Giacomo è venuto davvero, un posto dove “si vive in verticale, e se hai voglia di vedere un amico devi prendere l’appuntamento. Non si può passare sotto casa e suonare il citofono: a Milano il galateo non lo prevede”. Eppure in questa città dove per cenare con un amico sei costretto a mandargli una mail, si possono fare incontri straordinari.

“Anch’io, tra qualche attacco di ipocondria e hamburger indigesti, cercavo confusamente qualcosa a Milano. Una sera sono finito in un locale dove la birra costava poco e nel prezzo era compreso anche uno spettacolo di cabaret. Si è presentato un tipo che in un bolognese/emiliano molto improbabile diceva cose non memorabili… Dopo un po’ è entrato in scena un altro tipo più basso… sembrava un intruso, uno capitato sul palcoscenico per errore…. Dopo venti minuti di esilaranti contorsioni e acrobazie, il piccolo, issandosi sulle spalle del monologhista, guardò prima la testa calva, poi guardò il pubblico, prese una bandierina da sandwich e la depositò proprio in mezzo alla pelata. Aprì la bocca e disse: Ho scalato il Màciu Pìciu! In quel momento ho desiderato lavorare con loro: avevo trovato la prima parte del tesoro di Milano. E poi, amatissimo figlio mio, finalmente è apparsa quella che sarebbe diventata tua madre”.

Alto come un vaso di gerani, è veramente il massimo livello cui può arrivare il nostro sguardo, l’altezza giusta. È quella dello sguardo del bambino, per nulla infantile, curioso e desideroso di prendere tutto, aperto al contributo di ogni altro per il proprio star bene. A qualcuno succede di conservarlo, o meglio di recuperarlo senza regressione. Deve essere successo così anche a Giacomo Poretti. Per lui, come per ciascuno di noi, non si tratta di un dato somatico, è un orientamento del pensiero.

Luigi Ballerini

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