La fede di un uomo sportivo, che ha sempre combattuto in campo e nella malattia.
«In quel posto (Medjugorjie) mi è successa una cosa che non mi era mai accaduta, non avevo mai provato. Quando sono arrivato là mi sono sentito di colpo come un bambino. Mi sono seduto su una panchina e sarei potuto stare così all’infinito, stavo benissimo. È stato il momento più bello della mia vita, ero beato! In quella circostanza ho pianto tre o quattro volte ma non so dire perché. Su quella panchina è come se mi fossi ripulito, come se avessi tolto una pietra dal cuore. Da lì ho iniziato a pregare. Solo che commettevo uno sbaglio, pregavo solo quando avevo bisogno, un po’ come tutti. Sono andato un po’ in conflitto, a volte Dio mi aiutava a volte no. Poi ho capito che bisogna pregare sempre, da prima della malattia prego due volte al giorno. Ma non bisogna dire ‘voglio, voglio…’, ma ‘grazie, grazie…’».
Sono parole di Sinisa Mihajlovic, morto prematuramente il 16 dicembre a soli 53 anni. Sono parole che ci lasciano uno scorcio sull’interiorità spirituale di un uomo che nella sua vita ha lottato con grinta in campo e fuori dal campo, in modo particolare contro la leucemia che lo ha colpito a marzo 2019.
Di lui vogliamo ricordare, oltre ai numerosi calci di punizione trasformati in gol, che hanno fatto infiammare i tifosi delle diverse squadre in cui ha giocato (Stella Rossa, Roma, Sampdoria, Lazio e Inter), la sua profonda fede che lo ha sempre caratterizzato. Una fede vissuta in maniera molto discreta e riservata la figlia Viktorija raccontò in una intervista rilasciata a Famiglia Cristiana: “Lui è ortodosso, non è un praticante assiduo però è profondamente credente – aveva raccontato – prega soprattutto la sera prima di andare a dormire e al polso ha sempre il braccialetto di Medjugorje”.
Sinisa Mihajlović è sempre stato sorretto dalla fede, e così tutta la sua famiglia che ora sta affrontando l’immenso dolore della sua morte. Sempre la figlia Viktorija nell’intervista rilasciata a Famiglia Cristiana dopo aver saputo della malattia che lo aveva colpito, aveva ricordato che lo shock più grande era stato “incontrarlo dopo il primo ciclo, durissimo, di chemioterapia. L’avevo lasciato che stava bene, a parte il dolore alla gamba che lo faceva zoppicare, e l’ho ritrovato con dieci chili in meno, senza capelli, pallido”. Eppure, anche in quel frangente, “mio padre era rimasto un combattente”.
Chiunque ami il calcio, oltre a ricordare le traiettorie imparabili delle sue punizioni, ricorda soprattutto il carattere indomito di un uomo che in campo dava tutto per la squadra e per i compagni: un giocatore duro ma leale, grande professionista amato e apprezzato per il suo temperamento da tifosi e avversari. Oltre ad essere un grande campione nel calcio, Sinisa è stato padre di sei figli e un uomo dalla personalità schietta, forte e carismatica. Un leader in campo e fuori, senza paura di prendersi responsabilità o posizioni scomode.
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