Il Cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, ha proclamato beato il salesiano Titus Zeman...
del 02 ottobre 2017
Il Cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, ha proclamato beato il salesiano Titus Zeman...
“In tutta coscienza, non mi sento colpevole. Quanto mi viene contestato come colpa, l’ho fatto per amore della Chiesa e per amore della comunità Salesiana, che ringrazio, per quello che oggi sono. Ho sentito la responsabilità di dover portare “a Ovest” dei sacerdoti a cui qui era stato reso impossibile svolgere il servizio sacerdotale. In particolare mi sono sentito chiamato ad aiutare i teologi Salesiani e i giovani confratelli ad andare a completare gli studi a Torino, visto che qui dopo la liquidazione degli ordini religiosi non avrebbero potuto diventare sacerdoti come ardentemente desideravano. Ho la coscienza pulita. Sono tranquillo”.
Con queste parole Don Titus Zeman si difende dall’accusa di alto tradimento e spionaggio, davanti al Tribunale Statale di Bratislava, nel febbraio del 1952. Verrà condannato a venticinque anni di reclusione.
Ieri il Cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, lo ha proclamato beato. La cerimonia si è tenuta nella spianata antistante la Chiesa della Sacra Famiglia di Petr≈æalka, quartiere popolare di Bratislava, davanti a circa venticinquemila persone.
“Martire per le vocazioni” è la definzione ufficiale riportata anche sul sito tituszeman.sk, ma credo sia importante vedere in Titus Zeman anche un difensore della libertà non solo religiosa.
La vicenda di questo sacerdote salesiano si intreccia con quella di tanti altri dissidenti e perseguitati dal regime comunista cecoslovacco. Un nome su tanti: Suor Zdenka Schelingová, beatificata nel 2003 da San Giovanni Paolo II: riuscì a liberare uno dei sacerdoti condannati con don Zeman, e fu poi arrestata durante un ulteriore tentativo di liberazione nello stesso ospedale, in cui Suor Zdenka operava da tempo.
Fa un certo effetto oggi parlare di “martire” riferendosi a un uomo morto nel 1969, nel cuore dell’Europa. In tanti abbiamo dimenticato quanto drammaticamente diversa fosse la situazione fino alla fine degli anni ’80. Molti altri possono averne solo una vaga idea, leggendo qualcosa sui libri di storia. Il regime cecoslovacco fu probabilmente il più duro nel reprimere ogni sorta di opposizione o pensiero non conforme alle regole dettate dal comunismo sovietico. Il regime carcerario durissimo si avvaleva anche di numerosi campi di concentramento che non avevano nulla da invidiare ai Gulag sovietici o ai campi nazisti, con l’agghiacciante similitudine dello slogan sui cancelli di uno dei campi di Jáchymov: “Prací ke svobode” ovvero “il lavoro per la libertà”.
I comunisti cecoslovacchi vedevano nella Chiesa Cattolica un nemico formidabile da annientare nel più breve tempo possibile. Già nel 1946 (ben prima del colpo di stato comunista, avvenuto nel 1948) Don Zeman si trovò a fronteggiare un primo attacco, nel Ginnasio Arcivescovile di Trnava in cui insegnava. Il nuovo direttore, comunista, aveva ordinato la rimozione di tutti i crocifissi dai locali della scuola. Titus, insieme a dei colleghi, rimise i crocifissi al loro posto, venendo così espulso dalla scuola. Dirà poi alla madre: “Sono un servo di Cristo. Se non posso averlo presente sul lavoro, non posso avere niente a che fare con una scuola del genere”.
Nel 1950, la notte tra il 13 e il 14 aprile, il regime comunista lancia un’offensiva senza precedenti, la cosiddetta “Azione K”(dove “K” sta per “Kláštory” che significa “Conventi”). Vengono liquidati tutti i Conventi e gli Ordini, con i religiosi che vengono poi deportati in alcuni conventi trasformati in prigioni. Don Zeman in quel frangente si trovava di servizio nella parrocchia di una piccola città non lontano da Bratislava. Proprio a questo punto inizia a maturare l’idea di aiutare i suoi confratelli salesiani ad emigrare illegalmente in Italia per poter completare gli studi teologici e diventare quindi sacerdoti. Il primo tentativo avviene il 31 agosto, sempre del 1950, quando Titus Zeman riesce a portare sei confratelli al di là del fiume Morava, in Austria. Da lì, in due settimane, il gruppo avrebbe poi raggiunto Torino. Don Titus Zeman torna subito in Slovacchia, dove inizia a preparare il viaggio per un secondo gruppo. La partenza ha luogo il 24 ottobre e le condizioni appaiono subito proibitive, la Morava è in piena e il freddo pungente. Don Titus sviene, ma si riprende; la traversata riesce e il 4 Novembre il gruppo raggiunge Torino.
Sarà il terzo viaggio a rivelarsi fatale per il destino di Titus Zeman: il tempo pessimo, la Morava di nuovo in piena, un gruppo questa volta particolarmente numeroso (con diversi sacerdoti anziani per cui l’attraversamento si rivelerà impossibile) che finisce con il frammentarsi sono i fattori che determinano il fallimento della spedizione: sedici dei ventidue partecipanti vengono arrestati da un gruppo di poliziotti e soldati.
Gli interrogatori, con la complicità della temutissima ŠtB (Štátna bezpecnost, la polizia segreta cecoslovacca), si riveleranno estremamente crudeli, con violenze fisiche e psicologiche. Don Zeman firma una confessione in cui dichiara di essere una spia, nella speranza che questo risparmi ulteriori torture ai suoi confratelli. Non sarà così, e Titus proverà fino all’ultimo un forte senso di colpa per questo.
Durante il processo Don Zeman rinnegherà la propria confessione precedente, arrivando infine a pronunciare, come arringa a propria difesa, le parole riportate all’inizio di questo articolo. Dopo la condanna viene classificato come “MUKL”, mu≈æ urcen k likvidaci, ovvero “uomo destinato alla liquidazione” nella prigione di Ilava. Pochi giorni dopo gli viene concesso di incontrare le sorelle, Johana e Alojzia. A quest’ultima chiede se avesse ricevuto i vestiti che le aveva spedito dalla prigione, e se vi avesse trovato qualcosa. Non avendo trovato nulla, la sorella appena tornata a casa ispeziona gli abiti con maggiore cura, trovando uno strano rosario con 58 grani. Solo dopo la liberazione Titus Zeman potè spiegare ad Alojzia che i grani erano fatti di pane, e che ne aggiungeva uno ad ogni interrogatorio o tortura subiti prima della condanna in tribunale...
Passando di prigione in prigione, Titus Zeman non passa inosservato nè davanti agli altri detenuti, che aiutava spesso per fare in modo che potessero raggiungere l’obiettivo di produzione stabilito dagli organi di direzione, salvandoli quindi dalle temutissime celle di correzione o isolamento, e dalle relative torture; nè tantomeno davanti ai propri carcerieri (“seguace fanatico delle politiche del Vaticano [...], diffusore di ideologie contrarie alla rieducazione dei compagni, non mostra il minimo senso di colpa” si legge in una delle schede su Don Zeman, dalla prigione di Mirova).
Nel 1955 Titus viene trasferito in quello che sicuramente è il campo di prigionia che ne ha causato ultimamente la morte. Jáchymov: una località termale, al confine con la Germania. Un posto ricco di storia in cui accanto alle miniere d’argento venne scoperto il Radio da Marie Curie. Con l’avvento del nucleare, era solo questione di tempo prima che i comunisti decidessero di imporre ai MUKLi come Titus Zeman di estrarre l’uranio senza protezione alcuna, affinchè fosse poi mandato in Unione Sovietica. Per i detenuti impegnati in questo lavoro non si trattava di vivere o morire, ma solo di capire in quanto tempo avrebbero ceduto alle conseguenze delle radiazioni letali.
Nel caso di Titus Zeman, il calvario fu lungo. Le condizioni di salute peggiorarono lentamente, e il sacerdote fu trasferito altre due volte, prima di venire liberato nel 1964.
Prima della liberazione fu costretto a firmare un documento in cui accettava di tacere sul trattamento ricevuto nella sua lunga via crucis. Non smise mai di dedicarsi al sacerdozio cristiano in tutte le sue forme, con una particolare attenzione al confessionale, cui dedicava tantissimo tempo . Come disse Titus stesso: “sono io che devo aspettare i peccatori, non loro me”.
Tra Dicembre 1968 e Gennaio 1969 il cuore di Don Zeman, lentamente, cede. Muore la sera dell’8 Gennaio. Al suo funerale, tre giorni dopo, l’Ispettore Salesiano Andrej Dermek dirà: “Oggi, qui, riposa un combattente che ha lottato; un sacerdote che ha celebrato una Messa, che è la sua vita intera [...]. Nessuno di voi, nessuno di noi, poteva immaginare cosa la vita avesse in serbo per lui. Una cosa era certa: in questo Rosario vivente non ci sarebbero stati solo misteri gaudiosi. Ci sarebbero stati anche quelli dolorosi...Almeno tanti, quanti quelli gaudiosi. Ma tutti, tutti finiscono con la Resurrezione! E possiamo affermare che tutto quello che c’è stato tra la sua prima Messa e il suo funerale, tutto è stato pieno di vita sacerdotale e salesiana, nonostante di questi ventinove anni di sacerdozio, diciotto li abbia vissuti lotano dalla propria vocazione, e di questi, tredici in prigione. Ma sempre e ovunque si è trattato comunque di vita da sacerdote!”.
“Il sangue dei martiri è il seme dei cristiani”, diceva Tertulliano. Ed è sul sangue di Titus Zeman, di Zdenka Schelingová, sulla sofferenza di tanti religiosi e laici perseguitati in oltre quarant’anni di regime, che la Chiesa cecoslovacca ha potuto fondare la propria credibilità non solo nei confronti dei fedeli, ma di tutta la società. Come disse Silvester Krcméry, esponente della Chiesa del Silenzio processato nel 1954, nella propria arringa difensiva: “Siamo cristiani [...]. Dobbiamo testimoniare la verità. Per questo devo parlare, e non posso tacere. Voi avete in mano il potere, ma noi abbiamo la verità. Quel potere che voi avete, noi non lo invidiamo e non lo desideriamo. A noi basta la verità, perchè è più grande e più forte del potere. Ma chi ha in mano il potere pensa che può schiacciarla, la verità. O crocifiggerla. Ma finora, la verità è sempre risorta, e sempre risorgerà“.
Veritas Vincit: la verità vince, come recitava il motto sullo stemma presidenziale di Vacláv Havel, unico presidente della Cecoslovacchia unita post-comunista.
Raffaele Magaldi
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