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3.11 L'amore, forma della vita cristiana

Il lettore diventa impaziente. Com'è possibile parlare così a lungo del cristiano, senza menzionare il comandamento principale dell'amore di Dio e del prossimo?


3.11 L’amore, forma della vita cristiana

da L'autore

del 01 gennaio 2002

Il lettore diventa impaziente. Com’è possibile parlare così a lungo del cristiano, senza menzionare il comandamento principale dell’amore di Dio e del prossimo? Ne abbiamo parlato continuamente ed intensamente; ma in modo da assicurare anzitutto il carattere particolare che distingue questo amore dall’amore generale per gli uomini, conosciuto da sempre, dell’umanesimo. Si noti la strana costruzione della frase di Giovanni: «In questo sta l’amore: non noi amammo Dio, ma egli amò noi e inviò il Figlio suo a espiare per i nostri peccati» (1Gv. 4,10). L’interruzione e la ripresa sono cristianamente la cosa principale e da essa derivano tutte le conseguenze per il nostro stesso amore.

La direzione di questo amore va da noi a Dio ed al prossimo; l’uno e l’altro intimamente congiunti in Gesù Cristo, Dio e uomo, Dio presso noi tutti e uomo per noi tutti. «Chi non ama il suo fratello che vede, non può amare quel Dio che non vede» (1Gv.  4,20). «Chi dice: lo conosco, ma non osserva i suoi comandamenti, è mentitore» (1Gv. 2,4). «Chi non ama, dimora nella morte; chi odia il suo fratello è omicida» (1Gv. 3,14-15). «Chi non ama, non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1Gv. 4,8). Il modo di questo nostro amore è determinato dal fatto che noi stessi lo abbiamo ricevuto da Dio e corrispondentemente lo dobbiamo trasmettere ai fratelli. «Ecco ora da che cosa abbiamo conosciuto l’amore: dal fatto che egli offrì per noi la sua vita. Anche noi quindi dobbiamo per i fratelli offrire le nostre vite» (1Gv. 3,16). «Carissimi se casi Iddio amò noi, noi pure dobbiamo amarci scambievolmente» (1Gv. 4,11). Questo movimento dell’amore, che viene da Dio a noi e va da noi ai fratelli, ha il suo centro nel nostro riconoscente amore a Cristo, che ci impone l’amore come suo comandamento: in tal modo esso è originariamente il suo e conseguentemente il nostro: «Se mi amate, osservate i miei comandamenti... Chi non mi ama, non osserva le mie parole... Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amato. Nessuno ha maggior amore di questo: che dia la sua vita per i suoi amici. Voi siete miei amici se fate ciò che vi comando» (Gv. 14,15-24; 15,12-14).

La caratteristica di questo amore sta evidentemente nell’andare fino alla morte, secondo l’esempio di Cristo. La legge universale della simpatia che c’è nel cosmo consiste in un prudente e giusto equilibrio tra autoconservazione ed autodedizione; questa a sua volta è al servizio della conservazione della specie; casi biologicamente, quando i genitori si consumano per i figli; sociologicamente, quando i combattenti muoiono per la patria. Ma sarebbe pazzia se ognuno volesse dare la propria vita per ognuno. L’amore cristiano introduce questo elemento di infinità, perché l’autodedizione di Dio entra nell’amore. Dio si è donato totalmente nella morte per ciascun uomo, che è stato redento sulla croce dai suoi peccati e da un immenso distacco da Dio; quindi dietro ogni uomo sta questa realtà. Ognuno è, in sé, un diletto dell’eterno Dio, nonostante tutto ciò che egli può sembrare a me. Con la fede, dietro ognuno, io vedo l’amore del Figlio dell’uomo, e forse tanto più, quanto più questi ha dovuto soffrire per esso. I più poveri sono i suoi fratelli più prossimi; ed i più poveri non sono soltanto coloro che soffrono miseria esterna, bensì anche gli spiritualmente poveri, che non hanno finestre aperte per l’amore, siedono nella notte del loro egoismo, della loro superbia e della loro avarizia.

Per il cristiano è eresia ritenere che il Figlio di Dio non sia morto per tutti i peccatori. Non c’è uno che sulla croce gli sia stato più lontano dell’altro; ognuno gli era vicinissimo, fino allo scambio, fino all’identità; ognuno era il suo prossimo. Questo elemento infinito, immenso entrò nell’amore sulla croce.

«Dare la propria vita per i fratelli» non significa che si possa morire fisicamente per ognuno. Ciò lo può fare soltanto il Signore. Ma significa che dobbiamo essere pronti per principio, in caso di necessità, a non rifiutare nulla a nessuno. «Se qualcuno ti requisisce per un miglio fanne due con lui» (Mt. 5,41), o tre o quanti sono necessari. E Paolo: «Ora, è già per voi in ogni modo un segno di inferiorità che abbiate delle liti gli uni contro gli altri. Perché non soffrite piuttosto le ingiustizie? Perché non vi lasciate piuttosto defraudare?» (1Cor. 6,7). E infine, quando si tratta della salvezza eterna, quando potrebbe essere in gioco la mia o la sua salvezza: «Mi augurerei d’essere io stesso maledetto, separato di Cristo, per i miei fratelli» (Rom. 9,3).

È fonte di meraviglia e di vergogna il fatto che Cristo sviluppi la dottrina del prossimo con l’esempio di un ‘eretico’: il samaritano, il quale, noncurante delle barriere di ostilità esistenti tra giudei e samaritani, fa quel che il sacerdote ed il levita non hanno fatto. Può darsi che l’abbia fatto per un sentimento di compassione o per pura umanità, ma il Signore innalza questi sentimenti nella luce del suo stesso amore. Gli ascrive il suo atto come amore cristiano. E con ciò egli stesso, Figlio di Dio, si pone nelle file di coloro che amano semplicemente, in modo anonimo. Chi può sapere con esattezza dove, nell’ampio mondo, ha luogo una simile dedizione della propria vita? Dove uno dà al prossimo la preferenza sulla propria importanza? Rimane nascosto nel mistero di Dio.

Ma per il cristiano questo prossimo, che sempre incontra, diventa lo specchio in cui vede risplendere Cristo. L’altro sembra senza volto, un pezzo di massa, una cellula, come me, nello stesso insieme informe. Ma all’improvviso, quando l’incontro diviene vero, esso diventa realmente l’altro, dietro il quale sta la libertà, la dignità, l’unicità del completamente diverso; da Cristo egli riceve un volto, acquista un peso massimo ed una importanza infiniti e costringe anche me ad uscire dall’anonimità: devo stargli di fronte, riconoscere i miei lineamenti, essere responsabile per me stesso e per lui. Il mondo indeciso dei sogni diviene realtà, forse resistenza: in ogni caso ci si urta contro la realtà, si acquista forma. Dietro il mio fratello sta l’impegno di Dio fino alla morte; egli infatti ha realmente per Dio un valore eterno; lo sguardo si perde nell’infinito. E in compenso, emergono anche, a guisa di abbozzo e tuttavia reali, tutte le sfaccettature della rivelazione; esse non sono più ‘proposizioni’ fredde, ma colori necessari a completare il quadro. Se Cristo non fosse Dio, il suo sacrificio non sarebbe eccellente ed il suo frutto non sarebbe qui presente. Se non fosse uomo, non potrebbe aver luogo la misteriosa rappresentanza, in ordine alla quale io lo considero fratello. Se Dio non fosse trino, Cristo non avrebbe potuto compiere la sua opera per amore dell’eterno Padre, Dio non sarebbe affatto in se stesso l’amore, oppure, per amare, avrebbe bisogno della creatura, ed allora non sarebbe più Dio. E se non ci fosse la grazia dell’obbedienza, questo incontro non potrebbe avvenire veramente nella realtà di Cristo, ed io non potrei nutrire una speranza eterna per questo fratello. E se Cristo non fosse nel sacramento, non saremmo incorporati in lui in questo modo indicibile per cui ci tocchiamo l’un l’altro come membri di un solo corpo e nella ‘memoria’ di lui. E se non ci fosse la confessione dei peccati, rimarremmo in ultimo murati in noi stessi e non potremmo, con un atto umanamente perspicace, diventare da figli perduti figli ritrovati. Ed allora c’è anche di nuovo la distanza tra noi, che non dobbiamo giudicare, e l’alto giudice divino sopra di noi, il cui giudizio nessuno di noi deve anticipare; ciò nonostante questa distanza è misteriosamente colmata da una figura che non può mai mancare: dalla donna che a questo bambino fu e rimane madre e non perde la sua autorità amorosa, intercedente; dalla donna che femminilmente ci nasconde tutti nel suo seno, per la quale noi rimaniamo sempre suoi figli, che essa ha generato nei dolori, e continua a generare finché non finiscano le doglie della Chiesa e la donna si rallegri e «dimentichi l’ambascia per la gioia che è venuto al mondo un uomo» (Gv. 16,21).

Nel corpo della dottrina cristiana della fede non c’è membro che nell’incontro con il prossimo non si muova anch’esso. Tutti questi membri dormono, inanimati e teorici, nelle copertine di un catechismo, tutti si dilatano e si allungano quando, nell’incontro, la teoria diviene prassi. Cristiano pratico è quello per il quale questa risurrezione alla verità passa nella realtà della vita. Così si può dire che il vero cristiano praticante è colui che ama Gesù e «osserva i suoi comandamenti». Praticare significa tradurre in pratica questi comandamenti, e sappiamo che tutti i comandamenti di Cristo hanno la loro sintesi in quello dell’amore. In base a quest’unico comandamento saremo giudicati un giorno: in base all’esercizio dell’amore pratico-attivo, realizzatore, o in base alla sua omissione. Da quest’unico comandamento si misura pure se abbiamo, o no, una conoscenza di Dio: «Chi non ama, non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1Gv. 4,8). Non esiste affatto una fede teorica, un essere cristiano teorico. Il cristianesimo è una forma che non può esistere fuori della materia, così come la forma di una statua è reale soltanto nella materia. La materia è ciò in cui si manifesta e risplende l’amore, ciò per cui esso si dona, cioè il prossimo, che tuttavia può essere così vicino solo perché Dio in Cristo è presente in lui, e può essere così amato solo perché in lui l’amore eterno di Dio per me e per lui abbraccia, quale primo ed ultimo, tutto, anche il nostro incontro.

A tutta prima sembra che questa definizione della pratica cristiana sia stata fatta senza tener conto del concetto corrente di pratica; si tratta ora di dimostrare che esso vi è incluso.

Hans Urs Von Balthasar

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