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2. Il figlio più giovane parte.


2. Il figlio più giovane parte.

da L'autore

del 01 gennaio 2002

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2. Il figlio più giovane parte.

Il più giovane disse al padre: «Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta». E il padre divise tra loro le sostanze. Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano.

Un rifiuto radicale

Il titolo completo del dipinto di Rembrandt è, come è stato detto, Il ritorno del figlio prodigo. Nel "ritorno" è implicita una partenza. Ritornare è tornar-a-casa dopo aver-lasciato-casa, un ritorno" dopo essersene allontanati. Il padre che accoglie il figlio a casa è felice perché questo figlio «era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». La gioia immensanel dare il benvenuto al figlio perduto nasconde il dolore immenso sofferto prima. Il ritrovamento presuppone la perdita; prima del ritorno c'è la partenza. Osservando il tenero e gioioso ritorno, devo avere il coraggio di approfondire gli eventi dolorosi che lo hanno preceduto. Solamente quando si ha l'ardire di esplorare in profondità ciò che significa andarsene da casa, si può pervenire a una vera comprensione del ritorno. Il colore delicato tra il giallo e il marrone della tunica del figlio appare bello se è visto nella sontuosa armonia con il rosso del mantello del padre: la verità è che il figlio è vestito di stracci, i quali tradiscono la grande miseria che è dentro di lui. Nel contesto di un abbraccio compassionevole, il fallimento dell'uomo può apparire bello, ma non ha altra bellezza se non quella che viene dalla misericordia che lo circonda.

Per capire a fondo il mistero della compassione devo guardare onestamente la realtà che la evoca. Il fatto è che, assai prima di rientrare in se stesso e tornare a casa, il figlio è partito. Ha detto al padre: «Dammi la parte del patrimonio che mi spetta», poi ha messo insieme tutto ciò che ha ricevuto ed è partito. L'evangelista Luca racconta tutto con tanta semplicità e in modo così concreto che è difficile rendersi pienamente conto che ciò che qui sta avvenendo è un evento inaudito: ingiurioso, offensivo e in netta contraddizione con la tradizione più onorata del tempo. Kenneth Bailey, nella sua acuta spiegazione del racconto di Luca, mostra che il modo con cui il figlio se ne va equivale a desiderare la morte del padre. Bailey scrive:

Per oltre quindici anni ho chiesto a persone di qualsiasi estrazione sociale, dal Marocco all'India e dalla Turchia al Sudan, quali implicazioni presuppone una richiesta di eredità da parte di un figlio quando il padre è ancora vivo. La risposta è stata infallibilmente sempre la stessa... La conversazione ricalca il seguente canovaccio: Qualcuno ha mai fatto una richiesta del genere nel tuo villaggio? Mai!

E possibile che qualcuno possa avanzare una richiesta del genere? No, mai!

Se qualcuno la facesse, che succederebbe? Il padre lo picchierebbe, naturalmente! Perché?

La richiesta significa che egli vuole che suo padre muoia.

Bailey spiega che il figlio chiede non solo la divisione dell'eredità, ma anche il diritto di disporre della propria parte. «Dopo aver alienato i suoi beni al figlio, il padre ha ancora il diritto di vivere dei proventi… finché è in vita. Qui il figlio minore ottiene, e si presume che così abbia richiesto, la cessione a cui chiaramente non ha diritto fino alla morte del padre. Sotto entrambe le richieste c'è la seguente implicazione: 'Padre, non posso aspettare che tu muoia'».

La "partenza" del figlio è dunque un atto molto più offensivo di quanto sembri ad una prima lettura. È un rifiuto crudele della casa in cui il figlio è nato e cresciuto e una rottura con la più preziosa tradizione attentamente mantenuta dalla comunità più ampia di cui fa parte. Quando Luca scrive: «e partì per un paese lontano», vuol dire assai più del desiderio di un giovane di conoscere meglio il mondo. Parla di un drastico taglio rispetto al modo di vivere, pensare e agire che gli è stato trasmesso di generazione in generazione come un sacro retaggio. Più che di mancanza di rispetto si tratta di un tradimento dei valori gelosamente custoditi della famiglia e della comunità. Il "paese lontano" è il mondo in cui non viene tenuto in nessun conto tutto quello che a casa è considerato sacro.

Questa spiegazione è significativa per me, non solo perché mi fornisce una comprensione accurata della parabola nel suo contesto storico, ma anche - e soprattutto - perché mi invita a riconoscermi nel figlio minore. All'inizio sembrava difficile scoprire nel viaggio della mia vita una ribellione così provocatoria. Rifiutare i valori del mio retaggio non fa parte del mio modo di pensare. Ma se guardo attentamente ai tanti modi più o meno sottili con cui ho preferito il paese lontano allo starmene a casa, ben presto vedo emergere in me il figlio più giovane. Qui sto parlando di un "andar-via-di-casa" spirituale - che è cosa del tutto diversa dal semplice fatto fisico di aver trascorso la maggior parte degli anni lontano dalla mia amata Olanda.

Più di ogni altra storia del Vangelo, la parabola del figlio prodigo esprime l'immensità dell'amore compassionevole di Dio. E quando mi inserisco in questa storia alla luce di quell'amore divino, diventa dolorosamente chiaro che andar-via-di-casa è molto più vicino alla mia esperienza spirituale di quanto potessi pensare.

Il dipinto di Rembrandt in cui il padre accoglie il figlio non rivela quasi nessun movimento esterno. A differenza della sua acquaforte del figlio prodigo del 1936 - piena di azione, il padre che corre incontro al figlio e il figlio che si getta ai piedi del padre -, la tela dell'Ermitage, eseguita circa trent'anni dopo, è un dipinto di assoluta immobilità. Il fatto che il padre tocchi il figlio è una benedizione perenne, il figlio che riposa sul petto del padre è una pace eterna. Christian Thùmpel scrive: «Il momento dell'accoglienza e del perdono nell'immobilità della sua composizione dura all'infinito. Il movimento del padre e del figlio parla di qualcosa che non passa ma dura per sempre». Jakob Rosenberg sintetizza magnificamente questa visione quando afferma: «Il gruppo padre e figlio esternamente è quasi immobile, ma all'interno è estremamente dinamico... la storia si occupa non dell'amore umano di un padre terreno... ciò che si intende ed è qui rappresentato sono l'amore e la misericordia divini nella loro forza di trasformare la morte in vita».

Sordo alla voce dell'amore.

Andarsene da casa è, dunque, molto più di un evento storico legato al tempo e al luogo. E la negazione della realtà spirituale che appartengo a Dio in ogni parte del mio essere, che Dio mi tiene al sicuro in un abbraccio eterno, che sono veramente scolpito nelle palme delle mani di Dio e nascosto alla loro ombra. Andarsene da casa significa ignorare la verità che Dio mi ha «formato nel segreto, intessuto nelle profondità della terra e tessuto nel seno di mia madre». Andarsene da casa è partire come se ancora non avessi una casa e dovessi cercare in lungo e in largo per trovarne una.

La casa è il centro del mio essere dove posso udire la voce che dice: «Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto» - la stessa voce che ha datovita al primo Adamo e ha parlato a Gesù, il secondo Adamo; la stessa voce che parla a tutti i figli di Dio e li rende liberi di vivere in un mondo tenebroso rimanendo nella luce. Io ho udito quella voce. Mi ha parlato in passato e continua a parlarmi ora. È la voce mai interrotta dell'amore che parla dall'eternità e dà vita e amore ogniqualvolta viene udita. Quando sento quella voce, so di essere a casa con Dio e non ho niente da temere. Come il Figlio prediletto del mio Padre celeste, «se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me». Come il Figlio prediletto, posso «guarire gli infermi, risuscitare i morti, sanare i lebbrosi, cacciare i demoni». Avendo «ricevuto gratuitamente», posso «dare gratuitamente». Come il Figlio prediletto, posso affrontare le difficoltà, consolare, ammonire e incoraggiare senza tema di rifiuto o bisogno di affermazione. Come il Figlio prediletto, posso sopportate la persecuzione senza desiderio di vendetta e ricevere elogi senza usarli come prova della mia bontà. Come il Figlio prediletto, posso essere torturato e ucciso senza dover mai dubitare che l'amore che mi è dato è più forte della morte. Come il Figlio prediletto, sono libero di vivere e di dare la vita, libero anche di morire mentre do la vita. Gesù mi ha fatto capire chiaramente che la stessa voce che lui ha udito sulla riva del Giordano e sul monte Tabor può essere udita anche da me. Mi ha fatto capire chiaramente che proprio come lui ha la sua casa con il Padre, così posso averla anch'io. Pregando il Padre per i suoi discepoli, egli dice: «Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu mi hai mandato nel mondo, anch'io li ho mandati nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch'essi consacrati nella verità». Queste parole rivelano il mio vero domicilio, la mia vera dimora, la mia vera casa. Fede è la fiducia radicale che la casa è stata sempre li e sempre sarà lì. Le mani in qualche modo austere del padre si posano sulle spalle del figlio prodigo con l'eterna benedizione divina: «Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto».

Più e più volte tuttavia me ne sono andato da casa. Mi sono sottratto alle mani della benedizione e sono fuggito verso paesi lontani in cerca di amore! Questa è la grande tragedia della mia vita e della vita di tantissime persone che incontro nel mio viaggio. In qualche modo sono diventato sordo alla voce che mi chiama figlio prediletto, ho lasciato l'unico posto dove posso udire quella voce e me ne sono andato sperando disperatamente di trovare da qualche altra parte ciò che non potevo più trovare a casa.

All'inizio tutto questo sembra semplicemente incredibile. Perché dovrei lasciare il luogo in cui si può udire tutto ciò che ho bisogno di udire? Più ci penso e più mi rendo conto che la vera voce dell'amore è una voce molto tenue e gentile che parla nei recessi più nascosti del mio essere. Non è una voce assordante che mi soggioga ed esige attenzione. È la voce di un padre quasi cieco, che molto ha pianto e molte morti ha sofferto. E una voce che può essere sentita solo da coloro che si lasciano toccare.

Percepire il tocco delle mani benedicenti di Dio e sentire la voce che mi chiama "figlio prediletto" sono la stessa cosa. Questo risultò chiaro al profeta Elia. Elia stava sul monte per incontrare il Signore. Dapprima si alzò un vento impetuoso, ma il Signore non era nel vento. Poi ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Poi seguì un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Alla fine ci fu qualcosa di molto soave, che alcuni hanno definito una brezza leggera e altri una piccola voce. Quando Elia percepì questo mormorio, si coprì il volto perché riconobbe la presenza del Signore. Nella tenerezza del Signore la voce era un tocco e il tocco era una voce.

Ma esistono molte altre voci, voci forti, piene di promesse e seduzioni. Queste voci dicono: «Esci e dimostra di valere qualcosa». Dopo che Gesù ebbe uditola voce che lo chiamava "Figlio prediletto", fu subito condotto nel deserto per sentire quelle altre voci. Esse gli dicevano di dimostrare che egli era degno d'amore per il suo successo, la sua popolarità e la sua potenza. Quelle stesse voci non sono ignote neppure a me. Sono sempre li e, sempre, raggiungono quei luoghi interiori dove mi interrogo sulla mia bontà e dubito del mio valore. Insinuano che non sarò amato se non l'avrò meritato con determinati sforzi e con duro lavoro. Vogliono che dimostri a me stesso e agli altri che sono degno di essere amato, e continuano a spingermi a fare tutto ciò che è possibile per essere accettato. Negano ad alta voce che l'amore è un dono totalmente gratuito. Me ne vado da casa ogni volta che perdo la fede nella voce che mi chiama "figlio prediletto" e seguo le voci che offrono i modi più disparati per ottenere l'amore che tanto desidero.

Pressoché da quando ho avuto le orecchie per sentire, ho udito quelle voci, e da allora esse sono state sempre con me. Mi sono giunte attraverso i miei genitori, amici, insegnanti e colleghi ma, soprattutto, sono venute e ancora vengono a me attraverso i mass media che mi circondano. E dicono: «Facci vedere che sei un bravo ragazzo. Faresti meglio a essere migliore del tuo amico! Come sono i tuoi voti? Vedi di farcela a scuola! Spero davvero che tu te la cavi da solo! Come sono i tuoi rapporti con gli altri? Sei sicuro di voler essere amico di quelle persone? Questi trofei dimostrano certamente il bravo giocatore che eri! Non palesare la tua debolezza, sarai sfruttato! Hai preso tutti gli accorgimenti necessari per la tua vecchiaia? Quando cessi di essere produttivo, la gente perde interesse nei tuoi confronti! Quando sei morto, sei morto!».

Finché rimango in contatto con la voce che mi chiama "figlio prediletto", queste domande e questi consigli sono del tutto innocui. Genitori, amici e insegnanti, persino coloro che mi parlano attraverso i media, sono generalmente molto sinceri nella loro sollecitudine. I loro consigli e ammonimenti sono bene intenzionati. Possono essere infatti espressioni umane limitate di un amore divino illimitato. Ma quando dimentico la voce del primo amore incondizionato, allora questi suggerimenti innocenti possono facilmente cominciare a dominare la mia vita e trascinarmi nel "paese lontano". Non mi è molto difficile capire quando ciò sta succedendo. Rabbia, risentimento, gelosia, desiderio di vendetta, sensualità, avidità, antagonismi e rivalità sono i segni evidenti che me ne sono andato da casa. E questo capita piuttosto facilmente. Quando sto molto attento a ciò che improvvisamente mi passa per la mente, giungo alla scoperta sconcertante che esistono pochissimi momenti nell'arco della giornata, in cui sono veramente libero da queste oscure emozioni, passioni e sentimenti.

Ricadendo di continuo in una vecchia trappola, prima ancora di esserne pienamente consapevole mi ritrovo a chiedermi perché qualcuno mi ha fatto del male, mi ha rifiutato o non si è preoccupato della miapersona. Senza rendermene conto, mi scopro a rimuginare sul successo di qualcun altro, sulla mia solitudine e sul modo in cui il mondo mi sfrutta. Nonostante le mie intenzioni, spesso mi ritrovo a sognare a occhi aperti sul come diventare ricco, potente e famoso. Tutti questi giochi mentali mi rivelano la fragilità della mia fede nel fatto di essere il prediletto in cui Dio si è compiaciuto. Ho così paura di non piacere, di essere biasimato, messo da parte, trascurato, ignorato, perseguitato e ucciso che mi trovo a sviluppare continue strategie per difendermi e assicurarmi, perciò, l'amore di cui penso aver bisogno e meritare. E così facendo, mi allontano dalla casa di mio padre e scelgo di dimorare in un "paese lontano".

Cercando dove non si può trovare.

Qui la domanda in questione è la seguente: «A chi appartengo? A Dio o al mondo?». Molte delle mie preoccupazioni quotidiane fanno pensare che appartengo più al mondo che a Dio. La più piccola critica mi innervosisce e un rifiuto, anche se piccolo, mi abbatte. Un piccolo elogio mi rincuora e un piccolo successo mi eccita. Ci vuole molto poco per tirarmi su o per deprimermi. Spesso sono come una piccola barca in mezzo all'oceano, completamente alla mercé delle onde. Tutto il tempo e l'energia che impiego per mantenere un certo equilibrio e impedire di capovolgermi eannegare mostrano che la mia vita è quasi sempre una lotta per la sopravvivenza: non una lotta santa, ma una lotta ansiosa che deriva dall'idea sbagliata che è il mondo a determinarmi.

Finché continuo a girarmi intorno chiedendo: «Mi ami? Veramente mi ami?», rafforzo le voci del mondo e ne divento schiavo perché il mondo è pieno di "se". Il mondo dice: «Sì, ti amo se sei bello, intelligente e ricco. Ti amo se sei istruito, hai un buon lavoro e le giuste conoscenze. Ti amo se produci molto, vendi molto e compri molto». Ci sono infiniti "se" nascosti nell'amore del mondo. Questi "se" mi rendono schiavo, poiché è impossibile rispondere adeguatamente a ognuno di essi. L'amore del mondo è e sarà sempre soggetto a condizioni. Finché continuerò a cercare il mio vero Io nel mondo dell'amore condizionato, rimarrò irretito dal mondo - provando, fallendo e provando di nuovo. E un mondo che favorisce la dipendenza perché ciò che offre non può soddisfare il desiderio più profondo del mio cuore.

"Dipendenza": può essere questa la parola più adatta per spiegare lo smarrimento che permea così a fondo la società contemporanea. Le nostre dipendenze ci fanno abbarbicare a ciò che il mondo erige a strumenti per il proprio appagamento: accumulazione di ricchezza e potere; conseguimento di uno status, plauso e ammirazione; consumo eccessivo di cibi e bevande, e piacere sessuale senza distinguere tra lussuria e amore. Queste dipendenze creano aspettative destinate immancabilmente al fallimento quando intendono soddisfare i nostri bisogni più profondi. Finché viviamo nelle illusioni del mondo, le nostre dipendenze ci condannano a ricerche futili nel "paese lontano", esponendoci a una serie infinita di delusioni che ci lasciano inappagati. In questi tempi di crescenti dipendenze, abbiamo vagato lontano dalla casa di nostro Padre. La vita "dipendente" può essere giustamente definita come una vita vissuta in "un paese lontano". E da li che si leva il nostro grido verso la liberazione.

Sono il figlio prodigo ogni volta che cerco l'amore incondizionato dove non può essere trovato. Perché continuo a ignorare il luogo del vero amore e persisto nel cercarlo altrove? Perché continuo a andarmene da casa dove sono chiamato figlio di Dio, il prediletto di mio Padre? Rimango sempre stupito di come continuo a prendere i doni che Dio mi dà - la salute, l'intelletto e le emozioni - usandoli per fare colpo sulla gente, ricevere approvazioni ed elogi e competere per dei premi, invece di svilupparli per la gloria di Dio. Sì, spesso li porto via in un "paese lontano" e li metto a servizio di un mondo privo di scrupoli che non conosce il loro vero valore. E quasi come se volessi dimostrare a me stesso e al mio mondo che non ho bisogno dell'amore di Dio, che posso costruirmi una vita tutta mia, che voglio essere del tutto indipendente. Sotto tutto questo c'è la grande ribellione, il "no" radicale all'amore del Padre, la maledizione non detta: «Ti vorrei morto». Il "no" del figlio prodigo riflette la ribellione originale di Adamo: il suo rifiuto del Dio nel cui amore siamo creati e dal cui amore siamo sostentati. È la ribellione che mi pone fuori del giardino, fuori della portata dell'albero della vita. È la ribellione che mi fa condurre una vita sregolata in un "paese lontano".

Osservando di nuovo la raffigurazione del ritorno del figlio più giovane fatta da Rembrandt, ora riesco a vedere che ciò che vi si descrive è molto più di un semplice gesto compassionevole verso un figlio ribelle. Il grande evento che mi si para davanti è la fine della grande ribellione. La ribellione di Adamo e di tutti i suoi discendenti è perdonata e la benedizione originale, attraverso cui Adamo ricevette la vita eterna, è ripristinata. Ora mi sembra che quelle mani siano sempre state stese - anche quando non vi erano spalle su cui posarsi. Dio non ha mai ritirato le sue braccia, non ha mai rifiutato la sua benedizione, non ha mai smesso di considerare suo figlio come il prediletto. Ma il Padre non poteva costringere il figlio a rimanere a casa. Non poteva imporre con la forza il suo amore al prediletto. Doveva lasciarlo andare in libertà, anche se sapeva il dolore che ciò avrebbe causato sia al figlio che a se stesso. È stato l'amore a impedirgli di trattenere il figlio a casa a tutti i costi. E stato l'amore a consentirgli di lasciare che il figlio vivesse la sua vita, anche a rischio di perderlo.

Qui si svela il mistero della mia esistenza. Sono amato a tal punto che mi si lascia libero di andarmene da casa. La benedizione c'è fin dall'inizio. L'ho lasciata epersisto a lasciarla. Ma il Padre continua a cercarmi sempre con le braccia tese per accogliermi di nuovo e sussurrarmi ancora all'orecchio: «Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto».

Henri. J.M. Nouwen.

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