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XI. Tommaso

Tu hai introdotto il tuo dito nel mio cuore aperto. La tua anima ha anche verificato che cosa significano le parole: io sono mite e umile di cuore? Hai indovinato, mio discepolo, il più intimo segreto che veramente mi sta a cuore e lo riempie fino all'orlo?


XI. Tommaso

da L'autore

del 01 gennaio 2002

Tu hai introdotto il tuo dito nel mio cuore aperto. La tua anima ha anche verificato che cosa significano le parole: io sono mite e umile di cuore? Hai indovinato, mio discepolo, il più intimo segreto che veramente mi sta a cuore e lo riempie fino all’orlo? Se l’aveste capito, cari amici, allora percorrereste con spirito stordito e sordo turbamento l’eterna strada verso Emmaus e vi sareste rotta la testa sul perché dovevo soffrire e morire, perché il mio regno non arriva, perché la vostra speranza - la vostra infantile speranza - si è rotta come un giocattolo, e poiché voi non potete mai smettere di nutrirla ogni giorno, ogni giorno si spezza di nuovo.

Guardate, io stesso vi spezzo questa speranza per il regno imminente, vi spezzo i troni a destra e sinistra, impalcature di sfarzo, una chiesa vittoriosa; dominatrice sui popoli dall’apparire del sole fino al suo tramonto, in vista di quella che voi chiamate la pace di Cristo nel regno di Cristo e tutto quello che è il vostro desiderio di riposo e di esistenza garantita nel regno di questo mondo. Tu lo vuoi nero su bianco il fatto che io sono risorto, tu lo vuoi vedere e non credere, Tommaso, questo regno; vuoi vedere le ferite invece di sentirle arrivare, soffrendo con me, alla vittoria del regno.

Dove ho vinto io se non sulla croce? Siete ciechi come giudei e pagani, fino a vaneggiare che il Golgotha sarebbe la mia caduta e bancarotta, e credete che solo più tardi, tre giorni più tardi, mi sarei ripreso dalla mia morte e che sarei emerso arrampicandomi a fatica dall’abisso dell’Ade di nuovo in mezzo a voi? Ecco: questo è il mio segreto e non ne esiste un altro in cielo o sulla terra: la mia croce è salvezza, la mia morte è vittoria, la mia tenebra è luce. Allora, quando io pendevo nel mio martirio, e lo spavento mi invadeva l’anima per l’abbandono, la riprovazione, l’inutilità della mia vita, e tutto era oscuro, e solo la rabbia della massa fischiava sarcasmi contro di me, mentre il cielo taceva, serrato come la bocca di chi dispregia - ai polsi però pulsava il mio sangue attraverso le porte aperte delle mani e dei piedi, e più vuoto diventava il mio cuore ad ogni battito, la forza usciva da me in ruscelli, e in me rimaneva solo impotenza, stanchezza mortale e il senso di un fallimento infinito - e alla fine si avvicinava il misterioso luogo, l’ultimo, sull’orlo dell’essere, e poi la caduta nel vuoto e il ribaltare nell’abisso senza fondo, il dileguare, finire, sfinire. L’immensa morte, che io da solo morivo (a voi tutti questo è risparmiato mediante la mia morte e nessuno farà l’esperienza di che cosa significhi morire): questa fu la mia vittoria. Mentre cadevo e cadevo, il mondo nuovo saliva. Mentre ero sfinito oltre ogni debolezza, si rafforzava la mia sposa, la chiesa. Mentre mi perdevo e del tutto mi donavo e mi spremevo dallo spazio del mio io e senza possibilità di rifugio (neppure in Dio) dal nascondiglio più segreto del sé venivo espulso: allora io mi svegliavo e mi alzavo nel cuore dei miei fratelli. Non vi avevo detto che il grano di frumento deve cadere in terra e morire, perché solo così porta molto frutto? Perché se non muore rimane solo. Ma che cosa avviene in una simile morte? Il grano-seme cessa di essere un grano-seme, la radice consuma ciò che le dà vita, il culmo lo consuma totalmente, e quando la spiga piena più avanti si culla nel vento e nel sole, dove è rimasto il grano-seme? Chi pensa mai al divenire oscuro sul fondo nero e umido quando si sgranano tra le dita le auree spighe? Il grano-seme è consumato e risorto nella spiga: lui stesso e non lui stesso. E tutto questo milioni di volte su ogni campo, e anno dopo anno: la parabola del mio regno e del mio amore.

Ma voi, figlioli, che cosa volete? Vi vedo armati di scale e cercate di salire con esse in alto. In alto ad ogni costo. Siete piccoli di statura e vi arrampicate sopra un albero per vedermi, e spesso sono io l’albero. Una delle vostre scale si chiama preghiera, meditazione e immersione, e pensate di potermi prendere così. Un’altra scala voi la chiamate virtù, e questa ha molti alti germogli, sulla scala delle virtù voi salite in fretta e litigate chi di voi sia il più bravo. Perfino l’umiltà voi l’avete rizzata come virtù e ne usate come si fanno i colpi di mano. Le mie sante parole di mortificazione, di povertà spirituale, di pazienza e di dolore, il mio esempio santo. Mangiatoia e croce: voi le avete di continuo in bocca, il minimo disagio lo chiamate croce, la più ovvia rinuncia sacrificio.

Perfino la mia croce la utilizzate come scala per imporre i vostri desideri. Forse soffrite, ma per poi tanto più agire. La vostra ambizione è anche la potenza della chiesa, voi la volete grande e bella e vasta dappertutto, e se voi stessi non comandate, guardate con soddisfazione come essa pascola i popoli simili a un grande gregge. Come dura è in voi questa spinta verso il potere, come essa vive nascosta in tutti coloro che sono morti, come dolce è il canto del serpente antico: conoscere ed essere simili a Dei! E qualcuno cerca l’ultimo posto solo perché in un significato più sottile è il primo. Fate attenzione: non avvertite la delusione quando il mondo dimentica di applaudire la vostra umiltà? E come andate in sollucchero per la vostra dignità spirituale e apprezzate la religione degli uomini secondo che essi vi salutano oppure no. Cercate la santità: è segno che non l’avete. Il santo (questo sono io) non vi tende. Senza sapere e senza affannarsi si prostra davanti ai suoi fratelli per lavare i loro piedi stanchi; dimenticando la sua propria fame di Dio, li fa sedere a tavola e gira loro intorno per servirli.

A chi ho pensato quando, bambino pieno di freddo, giacevo nella mangiatoia, se non a voi? Di che ho parlato nella luce del Tabor con Mosé ed Elisa se non della mia passione per voi? E per che cosa mai mi sono trascinato lungo le quattordici interminabili stazioni se non per voi? E la mia stessa divinità e l’abbraccio del Padre mio, per chi li ho mai lasciati se non per voi? Voi volete seguirmi? Volete essere chiamati miei discepoli. Allora vi guidi il sentimento che animò me: quando io, Dio per essenza, non ci ho proprio tenuto con spasimo di essere eguale a Dio, ma svuotai me stesso e mi annientai, presi figura di schiavo, divenni simile agli uomini, discesi vestito di vesti umane quotidiane al di sotto di me, in obbedienza fino alla morte, fino alla morte di croce. Voi mi dite: Maestro, venivi dall’alto, eri ricco e non potevi esserlo di più, eri Dio, come potevi aspirare a vita divina? Ma noi siamo invece piccoli, e tutto in noi mira verso il più, e il voler possedere Dio è nostro istinto innato. Voi che parlate così non sapete di quale spirito siete. Desiderate d’essere simili a Dio? Guardate allora a me. Camminate per la mia strada. lo non potevo essere di più, voi dite, perché ero già Dio? È questo il Dio che io vi ho rivelato? Il Dio autosufficiente che non ha bisogno di nulla, il Dio dei sapienti di questo mondo? La loro filosofia il mio amore per voi l’ha svergognata; perché essere Dio non era per me abbastanza; credevo che nella mia pienezza avrei sentito la vostra mancanza, e non volevo dimostrare a voi la mia divinità in altro modo che facendomi vostro servo. Volete andare al Padre aggirandomi? lo sono il sentiero sull’argine ed altro sentiero non esiste, io sono la porta, e chi sale per il muro è un ladro, e ruberebbe la vita eterna.

Tutto questo era la cosa più divina in Dio (ed ero incaricato a mostrarla): Dio era così libero da dar via se stesso. Chiamate amore la vostra smania di pienezza. Ma chi conosce l’essenza dell’amore se non Dio, perché Dio è l’amore? L’amore non è che voi l’amate, ma che egli vi ha amato e ha dato la sua anima per voi, suoi fratelli.

Questa era la sua eterna beatitudine: provare il piacere di buttarsi via in un inutile amore per voi. Questa fu la sua sovramondana unità: nel mistero del pane e del vino si divise in mille pezzi come neve e sabbia del mare, per nutrirvi di vita eterna. Questa fu la sua autosoddisfazione: cominciare a patire la fame e la sete, e nella persona dei suoi membri soffrire ogni genere di povertà e vergogna e prigionia e nudità e malattia. Questa, fratelli miei, fu la mia vittoria, nel fatto che vinsi anche la mia divinità e potei rivelare nella figura di servo il Signore e nel contesto del peccato il contenuto dell’amore. Nel fatto che fui capace di essere Dio al di fuori di Dio.

Comprendete che cosa significa darsi e donarsi via? Per libertà spogliarsi della propria libertà, per amore non essere più libero, non essere più padrone di sé; non poter più determinare dove porta il viaggio, lasciarsi andare, consegnarsi al flusso delle conseguenze che ci rapinano lungo vie non volute. Ti precipiti da una roccia altissima: la tua caduta è libera e tuttavia, non appena ti butti, si precipita il peso su di te, rotoli non altrimenti che come un sasso morto fin sul fondo del precipizio. Così decisi di darmi via. A chi? non importa: al peccato, al mondo, a voi tutti, al diavolo, alla chiesa, al regno di Dio, al Padre... Essere l’assolutamente dato via. Il corpo su cui si radunano gli avvoltoi. Il consumato, il mangiato, il bevuto, il rovesciato, il disperso. La palla da gioco. Lo sfruttato. Lo spremuto fino alla feccia, l’infinitamente calpestato, il sorpassato, il liquidato, il diluito fin nell’oceano. Il dissolto. Questo era il progetto. Questa fu la volontà del Padre, e adempiendola nell’obbedianza (il compimento stesso era obbedienza) ho riempito il mondo dal cielo fino all’inferno, e ogni ginocchio si piega davanti a me e tutte le lingue mi devono celebrare. Ora sono tutto in tutti; e perciò la morte che mi ha liquidato è la mia vittoria. La mia rovina e il mio naufragio, il mio vertiginoso sprofondare, il mio cammino all’ingiù (giù sotto di me) in ogni realtà straniera, estradivina, infernale: questa fu l’ascesa di questo mondo in me, in Dio. La mia vittoria.

Voi siete in Dio, al prezzo della mia divinità. Voi avete l’amore, io l’ho perduto per voi. Questa perdita è il mio regno. Il mio regno non è di questo mondo, ma il mondo è nel mio regno. Quando in croce il mio cuore sudò nel torchio, ogni forza era già vana, soffrivo ancora solo esaurimento e vuoto, e goccia a goccia scivolava via il non poterne più, il volere ancora appena appena, quando ogni sangue era uscito dal cuore e ogni spirito dall’anima, allora sanguinava unicamente il nulla, allora quando la lancia vibrò (visibile in carne e cuore e invisibile in anima, spirito, Dio), usciva l’acqua del completo esaurimento: Dio stesso era in me esaurito. Il mare dell’essere era asciutto. La vita era vissuta fino in fondo, fino in fondo amato l’amore.

Questa fu la mia vittoria. In croce era la Pasqua. Nella morte la tomba del mondo era saltata in aria. Nella caduta nell’abisso era l’ascensione in cielo. Ora riempio il mondo, ed ogni anima vive in ultima analisi del mio morire. E dove un uomo decide di lasciare se stesso, la propria ristrettezza, volontà, potere, di finirla con il proprio rinserrarsi e inalberarsi, là cresce il mio regno. Ma poiché gli uomini lo fanno solo controvoglia e tutto preferiscono all’affidarsi alla mia grazia, io devo percorrere con essi strade larghe e lunghe, una vita intera finché si convincono della verità; capiscono di non capire, aprono le dita rigide e si lasciano cadere nel mio cuore. Finché sentono vacillare il terreno sotto i piedi, così che non identificano più la loro terra che trema con il vero loro appiglio, non si fanno più dell’aria un rifugio superiore e il darsi diventa per essi una difesa più saggia, la follia di Dio, una più sublime verità. Finché, svezzati dal badare a sé, mi vedono come per la prima volta. Finché ad essi, che sono così bene edotti del cristianesimo, appaia alla vista da lontano l’alba del regno. Finché, infastiditi dei loro calcoli e presunzioni di maturità, comprendono per la prima volta le parole: Se non diverrete come bambini... I bambini sono disarmati, i bambini navigano lungo le stagioni dell’anima come barchette senza timone. Se un bambino piange, piange tutto quanto, si abbandona liberamente alle lacrime, non è in grado di arginare la tristezza, non ha una torre in cui rifugiarsi dall’alluvione. Piange a lungo quanto deve piangere, come il cielo piove finché la nube è vuota. E quando un bambino gode, si scioglie del tutto nella gioia. La vive tutta per intero, irriflessa e illimitata. E quando ha paura, ce l’ha tutta, ed ha la saggezza di non innalzare una parete di vetro tra l’immensità e la sua propria anima. I sapienti di questo mondo ci insegnano: Beato colui che possiede un involucro di asbesto, dove né acqua né fuoco offende la vita. Beato chi ha educato e contenuto le sue passioni in modo che esse traccino una barriera impenetrabile, libera dalle tempeste del destino. Ma io vi dico: Beato colui che, come i bambini, si espone alla mai donata esistenza, che non trascende, ma si affida alla mia grazia che sempre trascende. Beati non gli illuminati, a cui basta la loro nobile luce, i maturi, ai quali altro non resta che cadere dall’albero, ma i manipolati e gli sbigottiti, che ogni giorno si trovano davanti i miei enigmi e non possono risolverli. Beati i poveri in spirito, i poveri di spirito! Guai ai ricchi, due volte guai ai ricchi nello spirito! Riesce difficile allo spirito (benché nulla sia impossibile a Dio) arrivare alloro pingue cuore. I poveri sono volenterosi e facili da guidare. Come i cagnolini non distolgono mai lo sguardo dalla mano del Signore per vedere se forse egli getti loro qualcosa dalla sua tavola. Così con attenzione i poveri seguono i miei cenni, auscultano il vento (che soffia dove vuole), anche quando si gira, sanno il tempo guardando il cielo e interpretano i segni dei tempi. La mia grazia è inapparente, ma i poveri sono contenuti di doni piccoli. Perciò ho invitato mendicanti, zoppi e paralitici alla mia cena e quelli che con umorismo girano intorno all’orlo più esterno della società dei perbene: i vagabondi, i barboni sdraiati sulle strade, gli straccioni, la gentaglia intorno alle siepi. Essi sono i miei cari amati ospiti, trattenermi con loro è un piacere per me, ho rapporti amichevoli con i pubblicani e le sgualdrine, perché costoro entreranno prima di voi nel regno dei cieli. Simone, vedi tu questa donna? È una prostituta, ha però molto amato e del tutto gratuitamente ed io la lascio andare con il dono della mia pace.

Nei vasi vuoti voglio versare la mia pienezza. Nei cuori senza speranza voglio affondare le radici della nuova speranza. Porre nel grembo sterile di Sara il bambino della promessa. Che cosa m’importa la vostra religiosità, la boria della vostra «vita spirituale». Misericordia io voglio e non sacrifico. Voi tendete alla perfezione. È giusto, ma voi non siete diversamente perfetti dal Padre vostro celeste che fa sorgere il suo sole sopra giusti ed ingiusti, manda la sua pioggia sopra buoni e cattivi, e che dà agli operai dell’undicesima ora lo stesso salario che agli affaticati fin dalla prima. Voi tendete alla perfezione. È giusto, ma io vi domando a che scopo? Perché vi spinge la salvezza dei vostri fratelli, perché bruciate per lo scandalo che essi patiscono, perché vi volete sacrificare motivati dall’amore di aiutare? Voi cercate di preparare il vostro cuore perché sia senza macchia, come l’esige la legge per l’agnello e l’ariete, consumati dal fuoco, al posto del peccato del popolo? E voi intuite: fino a che il proprio cuore dipende dall’oro di questo mondo, come possono i fratelli credere a me quando annuncio loro la povertà? E fino a che il mio spirito si avvolge nella benemerita libertà personale, come potrà parlare credibilmente dell’obbedienza del Signore che redime il mondo? Un mezzo siano per voi queste opere, per fare di voi stessi un mezzo e strumento dell’amore. Allora avrete raggiunto ogni perfezione e riempito i vostri celesti granai fino al tetto con meriti, ma se non avete la carità, tutto questo non vi serve a niente.

Ma come è facile, non è vero, avere questo amore! Guardate sul mondo con i miei occhi: guardate come esso si affatica per cose vane, allunga avidamente la mano ai veleni, si stordisce di disperazione, guardate il bambino oltraggiato, il giovane tentato, la fanciulla corrotta, guardate come odio e desiderio li getta gli uni contro gli altri, come i loro cuori induriscono, si guastano, marciscono, come ballando si intricano sempre più nelle loro catene, finché inorridendo piombano nell’abisso. Così va il mondo, dice la gente e ride: chi vorrebbe cambiare? Ma voi non datevi per sconfitti, bensì assai meglio, come se un coltello vi avesse trafitto, estraetelo: e correte ai ripari. Lo sapete: io,vostro Dio, ho redento il mondo. Con la grazia potete gettare uno sguardo nella mia opera. È essa compiuta? li peccato è morto? Non c’è da fare più nulla per voi tranne che ringraziare? La grande svolta da qui a là si è già adempiuta? li regno c’è già? La pietra già rivoltata? Non urla paurosamente l’uomo torturato? Voi vi impegnate, vi gettate sotto le ruote, volete completare nel vostro corpo ciò che manca, che manca davvero, sembra mancare alla mia passione.

Adesso che cosa fare, ragazzi? Annunciare? Convincere gli uomini? Dato che neppure la mia divina parola ha potuto colpirli? Agire, fare? Estorcere il paradiso, qui già subito sulla terra? La chiesa immacolata? L’ordine dei risvegliati? Voi sapete a che cosa porta tutto ciò. Voi spingete, faticate, vi scorticate. E se state bene attenti, dopo lunghi anni pieni di lavoro: cosa avrete guadagnato? Ne avrete convertiti duo o tre, forse anche venti, cento. Ma dove sono gli altri? L’opera è fatta, il mondo è cambiato? L’azione è anche solo cominciata? Il muro costruito fin qui non minaccia di cadere, seppellendovi sotto le sue macerie? Tutto inutile! Alzate gli occhi e vedete, per la prima volta, la croce.

Soltanto sotto le strapotere del peccato vince superaffaticato, soccombendo, lo strapotere della grazia. Sempre più rapidamente cadono, come inutili bucce, le realizzazioni, avvolgendo il dolce frutto, intorno a cui in fondo tutto ruota: il desiderio il limite. Ardendo sempre di più si consuma il legno delle azioni creatrici, finché alla fine sovrasta la nuda fiamma dell’amore. Le vostre azioni sono buone, ma le catene di Paolo erano migliori, e di Giovanni non restava alla fine che la sua invocazione ad amare il prossimo. Sempre più insistente diventa la mia esigenza, nulla la sazia, nulla le può più bastare, nulla può chiudere il vuoto che vi risucchia, calmare le lacrime che voi vedete cadere, coprire l’obbrobrio sul volto gonfio di sputi con la corona di spine: così, raccogliete la vostra anima come un sudario e porgetemelo, e poiché mi ristorerò in essa, l’anima dovrà portare d’ora in poi le mie impronte. E poiché l’immagine aderisce ad essa, ora comprende anche il mio dolore, e comprendendolo la completa. Non le risparmio questa vista. Non esistono due specie di amore.

Scorre insieme il sangue e il sudore delle nostre anime a terra. In quale distanza, voi lo sapete. lo porto l’intero peso da solo, mentre voi dormite (e quando non dormite!) e il vostro portare con me viene sempre troppo tardi; la croce è già patita. Voi non portate appunto il peso, ma la grazia. Caricatevi della soma è pur sempre un gioco. Il mio giogo è soave, il mio peso è leggero. La croce, su di voi, è solo un cenno. Solo simbolica (espressione del mio amore) è la vostra corredenzione. Ma essa ha valore, io stesso la faccio valere. lo integro le vostre deficienze in pienezza così voi dovete adempiere il mo venir meno in pienezza. Altrimenti amore non sarebbe appunto amore. Prendete parte al mio venir meno, gustate con me l’inutilità della redenzione. Da tale materia il Padre estrae e realizza la sua grazia. Esiste un giudizio, esiste nella mano del Padre una bilancia. Su uno dei due piatti sta, opprimente, una pesante inutilità. Sull’altro sta la leggera speranza che porta in alto. E poiché il primo piatto scende, il giudizio è deciso: la speranza sale, venendo meno vince il mio regno.

 

 

 

Hans Urs Von Balthasar

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