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Vivere la fede in un mondo pluralista

il vero potere è quello del Dio crocifisso:


Vivere la fede in un mondo pluralista

da L'autore

del 01 gennaio 2002

il vero potere è quello del Dio crocifisso: un potere che vuole l’alterità dell’altro fino a lasciarsi uccidere per offrirgli la risurrezione. Perciò il potere assoluto s’identifica con l’assoluto del dono di sé, con il sacrificio che comunica la vita agli uomini e fonda la loro libertà.

 

 

 

 

 

Al Metropolita Daniel di Moldavia senza il quale questo testo non sarebbe stato scritto

 

 

 

 

 

 

 

 

Rischi e promesse del pluralismo

 

 

Il dato di fatto del pluralismo

 

 

Il pluralismo ereditato dal passato si è accresciuto considerevolmente nella nostra epoca a causa di grandi migrazioni economiche e politiche: si pensi al massiccio arrivo in Europa occidentale di musulmani, arabi del Maghreb, turchi, pakistani, di ebrei nordafricani (dopo quelli dell’Europa orientale) in Francia, e ancora in Europa occidentale di ortodossi russi, greci, romeni, serbi, antiocheni.

 

 

D’altro canto, con la mondializzazione non solo economica ma anche culturale, proprio nel momento in cui la tecnica e lo stile di vita occidentali si stanno diffondendo nel pianeta, le religioni orientali (soprattutto il buddhismo) invadono l’Europa.

 

 

Nel contempo, la lunga lotta dei “lumi” contro il clericalismo provoca un fenomeno generale di secolarizzazione (la Russia è più secolarizzata della Francia!) con una scomparsa delle “cristianità” tradizionali, sia per lenta dissoluzione (sul modello anglosassone, scandinavo, dell’Europa del nord - e ora dell’est -), sia per scissione interna (sul modello dell’Europa cattolica: Francia, Spagna, Italia...). Da cui la giustapposizione, che assume diverse forme, di cristiani più o meno impegnati e di agnostici, talvolta atei, talaltra indifferenti, altre volte anticlericali.

 

 

Alcuni dati storici

 

 

Mille anni di guerre di religione, i massacri degli ebrei (dall’inizio della prima crociata, ai pogrom russi, fino alla shoah), lo scontro incessante con l’Islam, mostrano con quale violenza l’Europa abbia rifiutato il pluralismo. Eppure questa istanza ha continuato a riaffiorare, anche se in modi molto diversi. Dapprima nel pluralismo non egualitario degli imperi più o meno multinazionali: coesistenza forzata e precaria nell’Impero ottomano [la dhimma, i millet][1], giustapposizione difficile nell’Impero russo, pluralismo spesso più tollerato nell’Impero asburgico: con alcuni miracoli, sia nell’Islam quando esso non si sentiva minacciato e permetteva larghi scambi con i dhimmi - così nel Medio Oriente degli Omayyadi, e in seguito nell’Andalusia medievale -, sia nell’area subcarpatica, dai paesi romeni alla Bielorussia, con la corrispondente diffusione del neo-esicasmo e del neo-chassidismo, sia ancora in Austria e in Russia quando in esse si diffuse lo spirito di libera ricerca, alla fine del XIX secolo e all’inizio del XX: penso alla brillante cultura ebraica di Vienna, al ricorso dei filosofi religiosi russi alla spiritualità ebraica...

 

 

D’altra parte, in Europa occidentale, con l’avvento dell’illuminismo, dopo la rivoluzione inglese e la rivoluzione francese, il pluralismo è stato legalizzato, le chiese hanno fatto a poco a poco l’apprendistato della libertà, gli ebrei sono stati via via liberati da ogni statuto particolare. Nella nostra epoca i musulmani sono accolti, credenti e non credenti sono cittadini allo stesso titolo. Al crocevia di tutte queste correnti la Romania ha fatto anch’ essa, alla fine del XIX secolo e poi nella prima metà del XX, una certa esperienza di pluralismo: è sorprendente come gli ortodossi e i greco-cattolici abbiano largamente collaborato alla ritrovata coscienza nazionale e alla riunificazione del paese.

 

 

Eppure, nel nostro secolo, il pluralismo rischia di essere compromesso in società che, mentre diventano urbane e industriali, conoscono nel contempo un certo vuoto spirituale a causa della trasformazione del patriottismo in nazionalismo, dato che la religione viene ridotta a una dimensione della cultura nazionale: da ciò deriva la scissione dell’Irlanda, il mito della giudeo-massoneria, i movimenti antisemiti in Francia, Germania, Austria e Russia, il blocco del religioso e del nazionale nelle rinascenti nazioni “ortodosse”... Le ideologie totalitarie, nazismo e stalinismo, hanno utilizzato, e per la prima volta esasperato, un antigiudaismo popolare sempre latente, mentre nel contempo squalificavano la razionalità moderna mettendola al servizio dei loro miti. Oggi, con il loro crollo e la vittoria delle concezioni democratiche, dei “diritti dell’uomo”, il pluralismo sembra avere la meglio, ma deve essere rifondato nell’inconscio collettivo. In questo consiste, forse, il nostro ruolo.

 

 

 

 

 

I rischi del pluralismo

 

 

Ne vorrei sottolineare tre:

 

 

a) le crisi d’identità;

 

 

b) il “comunitarismo” come dissoluzione del corpo sociale;

 

 

c) lo sviluppo dell’indifferenza e del sincretismo.

 

 

a) Non bisogna nascondere che il pluralismo urta la sensibilità popolare, spesso anche quella di certi teologi e responsabili di chiesa che idealizzano la società della cristianità e conservano la nostalgia di un appoggio dello stato. È particolarmente evidente per i paesi segnati dalla tradizione ortodossa, e per gli slavi occidentali segnati dalla tradizione cattolica, dalla Polonia alla Croazia. In tutti questi paesi il pluralismo appare come una delle espressioni della storia occidentale, artificialmente importata in società che non condividono un medesimo retroterra storico. È quanto ha spiegato il patriarca di Mosca Alessio II quando la recente legge sulle associazioni religiose è stata fortemente criticata in occidente: “Noi non abbiamo la stessa storia degli Stati Uniti”. Generalmente, in queste chiese dell’Europa centrale e orientale (cui la Romania, paese-crocevia, paese-frontiera, appartiene solo parzialmente), la mondializzazione, che è in fondo quella delle mentalità e dei costumi, scatena forti reazioni identitarie. Alla conferenza panortodossa che si è tenuta a Tessalonica nel maggio del 1998, cinque chiese - russa, ucraina, serba, bulgara e, naturalmente, quella georgiana, per la quale questo è già avvenuto - hanno espresso più o meno chiaramente l’intenzione di abbandonare il Consiglio ecumenico delle chiese, perché esso veicolerebbe tutto un pluralismo di contenuti moderni riguardanti tanto l’inculturazione della fede quanto le rivendicazioni delle minoranze sessuali[2]. Tutto questo fa il gioco dell’estrema destra, ancora legata al vecchio mito della giudeo-massoneria, nato d’altronde nella Francia del XIX secolo.

 

 

Il rigetto dell’altro, con la crescita del nazionalismo nei Balcani, può sfociare in guerre che assumono una coloratura religiosa, se non addirittura in fenomeni di “pulizia etnica”, dalla Turchia degli anni ‘20 alla Jugoslavia degli anni ‘90

 

 

Anche nelle società dell’Europa occidentale l’altro è sovente sentito come il nemico. Diventa facilmente un capro espiatorio quando imperversa la disoccupazione. La memoria collettiva è lungi dall’essersi purificata da ogni antisemitismo e da ogni timore dell’Islam.

 

 

b) Proprio in queste società dell’Europa occidentale, uno dei principali rischi del pluralismo è la dissoluzione del corpo sociale attraverso il fenomeno del “comunitarismo”. Si tratta della formazione di comunità religiose o etnico-religiose chiuse, con le loro scuole e le loro regole di diritto civile riguardanti soprattutto il matrimonio e lo statuto della famiglia. A questo si aggiunge spesso la concentrazione in un dato luogo geografico e la formazione di qualcosa di simile ai ghetti. Si tratta sovente - ma non sempre - di minoranze sfruttate che solo in questo quadro trovano conforto e solidarietà.

 

 

I paesi anglosassoni accettano più facilmente questa situazione, mentre i paesi latini, specie la Francia, vi guardano con diffidenza perché il loro ideale resta l’integrazione. L’Islam, proprio perché non separa la realtà religiosa dalla realtà civile, tende spontaneamente al comunitarismo, ma anche certi movimenti ebraici, come quello di Lubavich, manifestano una tendenza analoga.

 

 

Allora i valori comuni alla società non si possono più trasmettere, le reazioni prima difensive, poi aggressive, della popolazione maggioritaria si accentuano, a volte in modo molto maldestro (in Francia, il fatto del velo portato da alcune liceali musulmane).

 

 

A questo si aggiunge il legame persistente di tali “comunità-ghetto” con paesi stranieri: Pakistan in Inghilterra, Turchia in Germania, Algeria in Francia (con tutto il drammatico peso che ne consegue), per non parlare del legame ambiguo di certi movimenti giovanili ebraici con lo stato d’Israele. La moltiplicazione delle antenne paraboliche mostra che sovente i membri di queste “comunità” hanno un radicamento culturale completamente diverso da quello che offre loro, nel bene o nel male, il paese nel quale si trovano a vivere.

 

 

c) Le chiese, infine, temono che il pluralismo, nel contesto di una società secolarizzata, finisca per favorire lo sviluppo dell’indifferenza e del sincretismo.

 

 

Le nostre società, è noto, sono tormentate da un desiderio di spiritualità - “spiritualità laica”, dicono anche alcuni -. Il pluralismo permette una specie di spiritualità “à la carte”, in cui ciascuno sceglie a caso incontri, letture, affinità. Gli attuali progressi del buddhismo in Europa occidentale (e del “tradizionalismo” alla Guénon[3] in Romania) non sono che aspetti di questa situazione. Essi ricordano la formazione del movimento dei quaccheri nell’Inghilterra di fine XVII secolo: dopo tanti scontri tra confessioni cristiane, il ricorso pacificante al silenzio e alla “luce interiore”. Oggi i cristiani parlano molto di amore ma o non ne danno mai l’esempio, o lo confondono con l’umanitarismo. E, in ogni caso, sembra che essi ignorino l’interiorità. Il buddhismo, invece, si presenta come una sapienza senza dogmi, come un metodo per raggiungere la pacificazione interiore e l’altruismo. Proprio esso, e altri apporti di provenienza asiatica (la “meditazione trascendentale”, per esempio) possono offrire una sorta di realizzazione inattesa al narcisismo occidentale.

 

 

Più in generale, il pluralismo permette a molti di pensare che una cosa valga l’altra (e dunque, in un certo senso, che nulla abbia valore). La libertà responsabile, come ha sottolineato, dopo Dostoevskj, Nikolaj Berdjaev, è difficile da portare. Allora ci si butta nella religiosità fusionale delle sette e nell’adorazione dei guru, questo surrogato di paternità in una società senza padri.

 

 

Tutto sommato, questa situazione spaventa le chiese e accresce in molti la nostalgia di un buon potere: il potere del papa per i cattolici, il potere di uno stato sacralizzato per gli ortodossi, il potere interiorizzato del puritanesimo e del fondamentalismo per i movimenti” evangelici”…

 

 

Le promesse del pluralismo

 

 

Il pluralismo ci porta ad approfondire l’evangelo, a scoprire il pieno significato della relazione, a sviluppare il paradigma di una civiltà planetaria e nel contempo plurale.

 

 

a) Rileggiamo l’evangelo. Gesù appare come un’esistenza fraterna e filiale nel grande soffio di vita che noi chiamiamo Spirito santo. Egli testimonia di un Dio che è in Cristo stesso comunione e fonte di ogni comunione. È questo modo di essere, questa esistenza personale in comunione il suo apporto al cuore del mondo, ed egli ce ne fa dono in germe trionfando, con la sua risurrezione, sulle forze della separazione e del nulla. Egli rifiuta ogni contrapposizione fissa tra iniziati ed esclusi, tra buoni e cattivi. Sostituisce, al fondo di noi stessi, l’angoscia della morte con la gioia della risurrezione, in modo che non abbiamo più bisogno di nemici per farne i capri espiatori delle nostre paure, e che dobbiamo, paradossalmente, “amare i nostri nemici”.

 

 

Perciò l’evangelo pone la persona e la comunione tra le persone al di sopra di ogni sistema, di ogni idea, anche del bene. Gli ideologi invece - e soprattutto forse gli ideologi delle religioni vogliono imporre il bene con la forza, al limite con la morte. Gesù irradia, con il rispetto e con l’amore, la pienezza della vita. “Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato” (Mc 2,27). Gesù va dritto al cuore, alla persona, svela il volto al di là della maschera, la maschera del partigiano nello “zelota”, del collaboratore nel pubblicano, dell’eretico nel samaritano, dell’impurità nella donna adultera o nella samaritana che ha avuto cinque mariti e vive con un uomo che non è suo marito. Nella forza dello Spirito, l’uomo intuisce da quel momento in Cristo che gli altri esistono. Si rifiuta di strumentalizzarli, di etichettarli: “Non giudicate e non sarete giudicati” (Lc 6,37).

 

 

b) Se l’essere in quanto tale è relazionale, se la verità s’inscrive, da persona a persona, in una relazione, dal momento che, dice Paolo, bisogna “fare la verità nella carità” (Ef 4,15), essa non può essere né posseduta, né diventare un mezzo per trasformare l’altro in oggetto che si possiede. Gli ideologi che pretendono di possedere la verità hanno giustificato e giustificano tutti i massacri. E questo fu anche il peccato, l’enorme peccato, delle sedicenti società cristiane.

 

 

Per noi, cristiani che rileggono l’evangelo, il pluralismo non può consistere solo nel fatto di sopportare l’esistenza dell’altro, ma nel comprendere e amare ciò che costituisce il senso di quell’esistenza. La vera relazione non deve cercare la simmetria: “Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete?” (Lc 6,32), chiede Gesù.

 

 

“Io sono responsabile dell’altro”, ha scritto un grande filosofo ebreo, Emmanuel Lévinas, “senza attendermi la reciprocità, dovesse anche costarmi la vita”. La reciprocità non è affar mio, ma dell’altro.

 

 

I padri greci, riflettendo sull’evangelo e sulle grandi intuizioni paoline, e i filosofi religiosi ortodossi della prima metà del nostro secolo, riflettendo anche sulla nozione dell’Adam qadmon nella mistica ebraica, hanno affermato che esiste un Uomo unico, nel senso più realista, in una moltitudine di persone.

 

 

Dobbiamo cercare di vivere questa stupefacente visione. Sappiamo che lo Spirito è ovunque al lavoro e che il Verbo, come dicevano i primi apologisti, visita, ispira, sotto molti nomi, tutte le culture, tutte le religioni. La Sapienza divina è presente nelle tradizioni dell’Estremo oriente che mettono l’accento sulle teofanie cosmiche e l’interiorità del Sé. La Sapienza divina è presente nella rivelazione della Torà, parzialmente ripresa dal Corano, nella Legge che condanna l’idolatria e l’omicidio e sottrae l’uomo alle sue pulsioni contraddittorie. La Sapienza divina è presente nella volontà di coscienza critica e di libertà dell’illuminismo moderno, specie quando tali volontà si realizzano nella capacità di dialogare e di formulare ipotesi, nell’esplorazione instancabile della materia, del cosmo, della psyché. Come cristiani abbiamo bisogno di tutte queste dimensioni del mistero, e, certo, nutriamo la speranza di poter aiutare gli uomini dell’interiorità ad aprire gli occhi per vedere l’altro nella sua assoluta realtà; nutriamo la speranza di poter aiutare gli uomini della trascendenza e della Legge a comprendere, fin dentro la loro stessa sofferenza, la kenosi di Dio; nutriamo la speranza di poter aiutare gli uomini dell’umanesimo a comprendere che al confine dell’umano - dove forse ci troviamo - non vi è più che la scelta tra il nulla e l’uomo “microcosmo e mikrotheos”, per citare, con Nikolaj Berdjaev, Gregorio di Nissa. A condizione di lasciarci aiutare da tutti costoro a essere più pienamente, più lucidamente noi stessi.

 

 

Che i cristiani si facciano garanti della fede degli altri, garanti anche della libertà di coloro che tentano semplicemente di essere umani! Che siano i custodi dell’uomo aperto, in una cultura aperta!

 

 

Forse, nell’immediato, la condizione fondamentale per il pluralismo, in Europa, è la rinuncia da parte delle chiese a usare il potere dello stato e a lasciarsi usare da esso. Le categorie del potere non sono categorie cristiane. Un cristianesimo post-ideologico non ha nulla a che vedere con esse. La funzione dello stato, per riprendere un detto di Soloviev, non è quella di trasformare la società in paradiso, ma di evitare che essa divenga un inferno. Lo stato di diritto trova il suo significato e il suo raggio d’azione nel ridurre il più possibile la violenza, assicurando la libertà di associazione e la libertà di coscienza, e anche nel vegliare sulla trasmissione di un’etica i cui valori siano largamente biblici, e forse anche coranici (la laicità di questo punto di vista potrebbe essere, in Europa, la chance dell’lslam!).

 

 

c) Il ruolo delle chiese, nell’elaborazione di una civiltà pluralista, è senza dubbio quello di convocare lo spirituale al cuore di tutte le forme di esistenza, come un fermento, un appello, un’ispirazione creatrice; evocarlo, proporlo, senza mai nulla imporre poiché “bisogna rendere a Dio ciò che è di Dio e a Cesare ciò che è di Cesare”. Così si approfondirà il pluralismo, fino a quella che un grande filosofo francese contemporaneo, Paul Ricoeur, di tradizione protestante, ha chiamato “una tolleranza senza scetticismo.

 

 

Una professione di fede trionfalistica e gridata ai quattro venti ha un qualcosa d’impudico. Una fede maturata attraverso la lunga, gioiosa, dolorosa esperienza di una vita si esprime anzitutto nel silenzio. O a mezza voce, o nello humour, nel paradosso, nella poesia. “Una lingua dolce spezza le ossa” (Pr 25,15) dice il sapiente. E permette di testimoniare senza ferire. Scrive Michel Serres: “Dio è il nostro pudore, e noi dobbiamo proteggerlo ... Ciò che egli ha d’infinito, è la sua fragilità. Perciò può essere protetto solo in ciò che vi è di più nascosto in noi”. L’incontro con le grandi religioni, nello spirito di ricerca e di dialogo di un umanesimo aperto, permetterà forse l’avvento di un nuovo paradigma per una civiltà planetaria e nel contempo plurale.

 

 

Per concludere vorrei citare monsignor Pierre Claverie, vescovo di Orano assassinato da alcuni integralisti: “Sono giunto alla convinzione che l’umanità è solo plurale e che quando pretendiamo... di possedere la verità, cadiamo nel totalitarismo e nella discriminazione... Si può accedere (alla verità) solo con un lungo cammino ... raccogliendo qua e là nelle altre culture, negli altri tipi d’umanità ciò che anche gli altri hanno acquisito, hanno cercato nel loro particolare cammino verso la verità... Dio non lo si possiede, così come non si possiede la verità, e io ho bisogno della verità degli altri”[4]. Proprio questa è la rivelazione ultima: Dio è “Mistero e Amore”, “Vita” e “Luce della Vita”.

 

 

[1] Dhimma (“protezione”) è il termine arabo con cui si indica il patto vigente tra la umma (comunità mondiale) islamica e gli appartenenti alle ahl al-Kitab (genti del Libro), vale a dire ebrei e cristiani. Con tale patto i dhimmi (cittadini protetti) ottenevano, in cambio del pagamento di un’imposta, l’autorizzazione alla residenza e la tolleranza della propria religione, anche se restava loro interdetta ogni forma di proselitismo. I millet sono invece le vere e proprie ripartizioni etniche in “nazioni” dei cittadini dell’Impero ottomano. Con la loro creazione le comunità non musulmane videro aumentare la propria autonomia, ma restarono comunità di inferiore dignità sociale rispetto alla umma islamica [N.d. T.].

[2] Cf. il resoconto in SOP 229 (1998), p. 5.

[3] René Guénon (1886-1951), pensatore e studioso delle religioni. Il suo pensiero costituisce uno sforzo per tornare alla tradizione primordiale, sacra, fuori del tempo, e al di là delle religioni tradizionali nelle quali Guénon individua delle deviazioni. Le religioni orientali, però, secondo quest’autore, hanno mantenuto il loro attaccamento ai principi metafisici universali e possono aiutarci a ritrovarli [N .d. T.].

[4] “Humanité plurielle”, in Le Monde, 4-5 agosto 1996.

Olivier Clément

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