«Nelle tre notti che precedettero l'ultimo giorno del 1860, Don Bosco fece tre sogni. Era lo stesso sogno ripetuto tre volte, ma sempre con circostanze diverse»: Don Bosco si trovò in campagna dei suoi tre grandi amici: San Giuseppe Cafasso, Silvio Pellico e il Conte Cays.
del 18 gennaio 2006
Nelle cronache dell’Oratorio leggiamo: «Nelle tre notti che precedettero l’ultimo giorno del 1860, Don Bosco fece tre sogni, come egli li chiama, ma che noi con tutta sicurezza per ciò che abbiamo veduto, sentito, provato, possiamo chiamare celesti visioni. Era lo stesso sogno ripetuto tre volte, ma sempre con circostanze diverse».
Don Bosco lo raccontò l’ultima sera dell’anno 1860 a tutti i giovani radunati. Noi ne riassumiamo le scene più interessanti.
 
Per tre notti consecutive Don Bosco si trovò in campagna dei suoi tre grandi amici: San Giuseppe Cafasso, Silvio Pellico e il Conte Cays, deputato al Parlamento Subalpino.
 
«La prima notte — racconta Don Bosco — la passammo discorrendo sopra vari punti di religione riguardanti specialmente i tempi che corrono. La seconda si passò in conferenze morali, in cui si sciolsero casi di coscienza spettanti la direzione dei giovani. La terza notte furono casi pratici con i quali conobbi l’interno morale di ciascun giovane in particolare. Nel primo giorno io non volevo dar retta al sogno perché il Signore ce lo proibisce nella Sacra Scrittura. Ma in questi giorni scorsi, dopo aver fatto parecchie esperienze, dopo aver preso parecchi giovani a parte e aver detto loro le cose tali e quali le avevo viste nel sogno, e che essi mi assicurarono essere proprio così, allora io non potei più dubitare che questa sia una grazia straordinaria che il Signore concede a tutti i figli dell’Oratorio. Io perciò mi trovo in obbligo di dirvi che il Signore vi fa sentire la sua voce, e guai a coloro che vi resistono».
 
In sintesi, Don Bosco aveva assistito a questa scena. C’era una gran sala. Seduti a un tavolo c’erano i tre personaggi nominati in veste di giudici. All’invito di Don Cafasso, Don Bosco fece entrare i giovani. Uno per uno, i giovani si presentavano con una cartella in mano, nella quale c’erano molti numeri da addizionare, e la consegnavano a quei signori. Questi, se la cartella era in regola e ben fornita di numeri, li addizionavano e la restituivano a ciascuno; la respingevano se vi erano cifre imbrogliate. I primi uscivano dalla sala felici e andavano a ricrearsi in cortile; gli altri invece uscivano tutti mesti e angustiati. Questa funzione durò a lungo, ma alcuni giovani non vollero entrare nella sala, perché ave vano la cartella vuota di numeri.
 
Quando Don Bosco e i tre personaggi uscirono dalla sala, videro i giovani che avevano la cartella in regola, che si ricreavano felici. Ne videro altri che stavano mesti in disparte. Don Bosco li osservò: alcuni avevano una benda agli occhi, altri erano immersi nella nebbia, altri avevano il capo attorniato da una nube, altri avevano il cuore pieno di terra. «Io li vidi — afferma Don Bosco — e li conobbi molto bene e li ho ancora così presenti alla mente che potrei nominarli uno per uno dal primo fino all’ultimo».
 
Intanto Don Bosco, col suo occhio vigile, notò che in cortile mancavano molti dei suoi giovani. Dopo varie ricerche, li trovò in un angolo del cortile.
 
«— Oh, spettacolo miserando! — esclamai.
 
Ne vedo uno coricato per terra, pallido come la morte; altri seduti sopra un basso e lurido scanno; altri sdraiati sopra uno sconcio pagliericcio. Giacevano gravemente infermi, chi nella lingua, chi negli occhi, chi nelle orecchie. Varie malattie affliggevano altri infelici: chi aveva il cuore tarlato e chi guasto e già corrotto; chi aveva una piaga e chi un’altra. Ve n’era persino uno tutto rosicchiato.
 
Questo spettacolo mi passava il cuore come un’acutissima spina, che però mi fu addolcita dalla vista di ciò che sto per raccontare.
 
Don Cafasso mi fa cenno di seguirlo e mi introduce in una sala splendida, tutta ornata d’oro, d’argento e di ogni più prezioso ad dobbo, illuminata da migliaia di lampade da cui emanava una luce che i miei occhi non potevano quasi sopportare. In mezzo a quella sala regale vi era un’ampia tavola piena di confetture di ogni spe cie. Vi erano amaretti quasi grossi come le munizioni dei soldati, biscotti così lunghi che uno solo sarebbe bastato a sfamare un gio vane. Io mi slanciai subito a invitare i giovani ad assidersi a quella tavola. Ma Don Cafasso mi fermò gridando:
 
— Adagio! Solo quelli che hanno i conti aggiustati possono gu stare quei dolci!
 
Mi acquietai e intanto mi posi a distribuire quei biscotti e quegli amaretti a quelli che Don Caf asso mi aveva indicato. Tutti ne eb bero a sazietà. Io mi compiacevo nel vedere i giovani mangiare con tanto gusto. Sul loro volto era dipinta la gioia; non parevano più i giovani dell’Oratorio, tanto erano trasfigurati ».
 
Quelli che erano rimasti senza dolci se ne stavano in un angolo malinconici e mortificati. Don Bosco ne fu commosso: erano anch’essi suoi figli; supplicò quindi ripetutamente Don Cafasso che gli permettesse di far parte dei dolci anche a loro. — No — rispose il Santo —; costoro non possono gustarli; fateli guarire e poi anch’essi ne mangeranno.
 
Don Bosco gli chiese che gli suggerisse il rimedio per guarire quei poveretti. Don Cafasso, in procinto di allontanarsi, per ben tre volte, con voce sempre più alta, gridò:
 
— State attento! State attento! State attento!
 
Così dicendo si dileguò con gli altri due personaggi.
 
Le parole di Don Cafasso, che di per sé possono apparire misteriose, dovettero riuscire evidenti ed eloquenti a Don Bosco, che ha sempre considerato come elemento essenziale del suo sistema educativo una assistenza amorevole, ma vigile e continua, che metta i giovani nella morale impossibilità di commettere mancanze.
 
san Giovanni Bosco
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