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Se Dio non è un fornaio

A quarant'anni di distanza dall'uscita di una canzone-profezia come Dio è morto, il cantautore bolognese racconta di sé, del suo agnosticismo e del suo 'successo' nel mondo cattolico.


Se Dio non è un fornaio

da Teologo Borèl

del 02 settembre 2006

«Chi ci ha creati?. Pronti, ecco la molla del coro bianco nella risposta totale ed entusiasta: 'Cià creati Dio!'. Fin lì non era micca difficile, ma monsignore qui si fermava e voleva scendere nel vivo della questione teologica. Guardava da sopra gli occhiali tutti noi mas’cini e poi di botta: 'Ma chi él Dio?'. Domanda difficile e spiazzante perché sul libro del catechismo non c’era micca scritto in dialetto, ci doveva essere uno sgóbo, sotto, e lì ammutolivamo. Insisteva monsignore: 'Él un furnèr?', è forse Egli un fornaio? No, l’idea ci muoveva alle risa e negavamo l’ipotesi con tutti noi stessi, dandoci amichevoli pacche nelle costole e rotolandoci sulle panche in preda a irrefrenabili ilarità, chi poteva solo averlo pensato, monsignore ci provava in amicizia e facezia, la sapevam lunga noi. Ma di nuovo ecco monsignore con altra questione: 'Él un muradòr?', e no, neanche quello, nemmanco muratore, che discorsi, ma dove voleva arrivare? 'Allora, chi è Dio?'».

Ride di gusto, mentre ridice – ovviamente, a memoria – una pagina fra quelle che più lo soddisfano del suo autobiografico Vacca d’un cane, Francesco Guccini. Gli torna alla mente, in occasione di una chiacchierata su temi religiosi, tra un piatto tirolese e un buon bicchiere di bianco locale: siamo a Innsbruck, infatti, al termine di una giornata in cui il cantautore modenese è stato celebrato dall’associazione italo-austriaca Inn-contri e dall’Istituto di Romanistica dell’università del capoluogo del Tirolo, ennesimo indizio di un felice sdoganamento della canzone d’autore da parte della cultura cosiddetta alta. E per di più all’estero...

Ma la curiosità dell’evento aumenta in riferimento al luogo che abbiamo appena lasciato per giungere a questa Weinstube (completa di caratteristica croce d’angolo tirolese), e dove si è tenuta la presentazione della due giorni gucciniana in Austria: la Facoltà di Teologia dell’università, sita, guarda un po’, in Karl-Rahner-Platz. È lì che, a maggio, si è potuta gustare la mostra 'Croniche gucciniane', rassegna di suoi memorabilia, con dischi, libri, riviste, fumetti che lo riguardano.

Quasi un ritorno alle origini, per certi versi, se si pensa che la sua biografia riferisce dell’esordio in concerto a dicembre del ’68, località Assisi, presso quella Cittadella di don Giovanni Rossi che dialogava con Pier Paolo Pasolini e con l’arte figurativa dei maggiori artisti nazionali.

Lì, rammenta Guccini, incrociò per la prima volta «la meglio gioventù» di marca cattolica, sospesa fra gli echi conciliari ancor freschi e una rivoluzione sognata ma ancora credibile, che si spellò le mani di fronte a quel lungagnone completo di chitarra a tracolla e di erre moscia, fra le note di Auschwitz e Dio è morto, L’antisociale e Venerdì Santo, Canzone per un’amica e Noi non ci saremo. «Suonai», ricorda, «dietro assicurazione scritta che non ci sarebbe stato biglietto d’ingresso, perché allora non mi sembrava giusto che si dovesse pagare per vedermi cantare e poi perché mi sembrava la miglior garanzia possibile di libertà artistica».

Le mode passano al volo, i miti di ieri oggi sono già appassiti eppure Francesco miracolosamente 'tiene', forse per la sua proverbiale ritrosia di fronte a qualsiasi divismo, a quarant’anni giusti dalle sue prime canzoni (Dio è morto è del ’65, lui del ’40). Quarant’anni peraltro, più che di carriera in senso tradizionale, di vocazione a porsi controcorrente, di vitalità genuina, di impegno civile e di passione per la forza primigenia della parola, in musica e non. Se ne rende conto anche lui, condendo di aneddoti il suo passare in rassegna le fotografie della mostra – curata per la EsaExpo da Roberto Festi e Odo Semellini – che lo ritraggono assieme a parecchi compagni che si sono già affrettati a «veder l’erba dalla parte delle radici», dai fumettisti Bonvi e Magnus ai musicisti Victor Sogliani dell’Equipe 84 e Augusto Daolio dei Nomadi, fino a Fabrizio De André, 'rivale' e amico di sempre.

Da quella stagione molte cose sono cambiate radicalmente, sotto il cielo d’Italia (e non solo). Sono rimasti immutati, invece, l’umanità del 'Maestrone', la sua trasparente autenticità e l’investimento su grumi tematici che, grosso modo, si mantengono sulle stesse tonalità degli esordi: un’inquieta ricerca del senso della vita (il «sugo del sale»), il bisogno di riandare alle radici, la ruvida poesia del quotidiano, la tenerezza verso gli emarginati di ogni risma e l’invettiva aspra contro le ipocrisie e i vizi di qualsiasi perbenismo.

Una produzione, la sua, si badi – tra cantautorato (ultimi dischi, Ritratti e Anfiteatro, registrato dal vivo) e fiction (l’ultimo romanzo è Cittanòva Blues, dedicato alla maturità bolognese e conclusione della trilogia di Croniche epafaniche e Vacca d’un cane), per non dimenticare i divertissements cinematografici e pubblicitari (come Salomone pirata pacioccone...) e i trascorsi fumettari – ancora largamente in progress e felicemente incompiuta. Una poliedricità e insieme una non comune profondità di messaggi e contenuti, che fra l’altro, un paio d’anni fa, gli sono valsi una laurea honoris causa in Scienze della formazione primaria che ora, gli è stato comunicato nell’occasione, gli consentirebbe di insegnare alla scuola materna.

Certo, viene spontaneo domandarsi cosa ci facciano qui tutti quei ragazzi, accalcati sulle scale della Facoltà di Teologia, e il giorno dopo a decrittare i suoi testi come fossero poesie: che, pur con un terzo della sua età, conoscono a memoria i suoi cd storici. «È come aver realizzato il sogno segreto di ciascuno di noi», dice lui, sornione, chiamato a presentare l’iniziativa, accennando a un gesto scherzoso di scongiuro, «quello di poter vedere dall’alto il proprio funerale, ascoltando i commenti dei presenti... Ecco quello che provo, quando passo in rassegna questa bella esposizione di Innsbruck».

Cita Orazio, e a differenza del poeta latino non ritiene col suo lavoro di «aver eretto un monumento più duraturo del bronzo», ma non gli spiace menzionare che un paio di ammiratori gli abbiano intitolato, nel tempo, una farfalla montanara (la Parnassius Guccinii) e persino un asteroide. Ci anticipa che sta componendo un nuovo disco («Però adesso, a differenza di prima, scrivo una canzone ogni due anni, e ci sarà da aspettare: comunque il pezzo più recente è Canzone di notte n. 4»), e che sta rimuginando sul titolo da dare alla prossima opera letteraria, già ultimata e in uscita per il dopo estate, sempre col giallista Loriano Macchiavelli e di nuovo con protagonista il maresciallo Santovito («con un audace flashback, ritornerà agli anni ’45-60 e alla sua epopea partigiana»).

·         Cosa pensi della Bibbia, Francesco?

«La Bibbia è un grande libro, assolutamente da leggere. È pieno di storie affascinanti... Certo, quando t’imbatti nel Levitico o in quelle interminabili genealogie di personaggi più o meno sconosciuti, l’entusiasmo tende fatalmente a scemare...».

·         Quali libri biblici prediligi?

«Le mie preferenze vanno per la Genesi, per la grande poesia del Cantico dei Cantici, per l’ispiratissimo Qohelet... per l’Antico Testamento. E poi per l’Apocalisse, ovviamente per quanto riguarda il Nuovo Testamento».

·         Tu hai composto addirittura una canzone col titolo in ebraico, tratta dal profeta Isaia 21,11-12, nel tuo Guccini, del 1983...

«L’ispirazione per Shomèr ma millailah? (che significa 'Sentinella, a che punto è la notte?') mi venne dalla lettura della bellissima traduzione di Isaia proposta da Guido Ceronetti per l’Adelphi. Non si tratta, però, come qualcuno ha voluto vederci, di un simbolo di carattere sociale e politico, ma piuttosto di un universale antropologico. Isaia, il profeta che di regola minaccia fuoco e fiamme per quanti non seguono le indicazioni divine, a un certo momento della sua vicenda dimostra in pieno la sua profonda apertura umana, in un paio di versetti pieni di speranza: sentinella, a che punto stiamo della notte? Vale a dire, non bisogna stancarsi di porsi delle domande: questa è la cosa più importante fra tutte! Coltivare la curiosità, la sete di ricerca... Non ci si può mai fermare. La sentinella risponde: 'La notte sta per finire, ma l’alba non è ancora giunta. Tornate, domandate, insistete!'».

·         Facciamo un passo indietro. Oggi riscriveresti la fortunatissima Dio è morto?

«Dio è morto era una tipica canzone generazionale, in qualche modo – se permetti – profetica... Almeno nel senso che coglieva un’istanza generalizzata e diffusa di cambiamento, in vista di una Chiesa finalmente aperta alla modernità. Certo, io resto un agnostico! Oggi, in ogni caso, la situazione è totalmente cambiata, e resto perplesso anche di fronte alle analisi che dicono di una rivincita di Dio. Le vocazioni, ad esempio, stanno calando, ed è un segnale che è preoccupante; ma le mie perplessità aumenterebbero ancor più se lo specchio di tale tendenza fosse considerato il fenomeno dei cosiddetti 'atei devoti', che percepisco come un incredibile controsenso (basterebbe osservare il percorso intellettuale di alcuni di loro). Mi preoccupa, da un lato, l’aumento del codinismo reazionario – i teocon degli Stati Uniti, ad esempio, e il tentativo di ritornare al creazionismo come spiegazione scientifica – e dall’altro mi colpisce la paura dimostrata dalla Chiesa nei confronti di un brutto giallo come Il Codice da Vinci, perché dà l’impressione di sentirsi accerchiata dal moderno. Quasi dimenticando che, se la Chiesa è durata tanto, alla fine, è perché son bravi...».

·         Come ti spieghi che un agnostico, tendente all’anarchia, come te, sia così amato dal mondo cattolico?

«Piaccio alla Chiesa? Beh, forse perché il mondo cattolico più aperto coglie in me soprattutto la coerenza, l’indignazione per gli approfittatori e per chi è abituato a baciare la mano al potente di turno. Dietro le mie canzoni non ci vede nessuna sovrastruttura o strumentalizzazione! In effetti Dio è morto, censurata dalla Rai, veniva trasmessa alla Radio Vaticana, e lo stesso Paolo VI – così almeno narrano le cronache di allora – definì il mio testo un lodevole esempio di esortazione alla pace e al ritorno ai giusti princìpi morali».

È il momento di un altro bicchiere, e si passa a discutere di altro. Del presidente della Repubblica, di poesia, del calcio malato cronico, di mamma Ester (92 anni, buon viatico di longevità, auguri!) e di amici comuni.

Restano la sua poetica e gli argomenti della sua fatica artistica in grado di parlare ancora, e di evidenziare tratti importanti del ritmo dell’uomo e delle stagioni. In particolare ai giovani di oggi, quelli che, come il protagonista del film di Alain Tanner, «hanno vent’anni nel Duemila» (o suppergiù). I quali si stupiscono, apprendendo che in questo Belpaese votato alla religione dei consumi, del «particulare» e della celebrazione dell’apparire a ogni costo, i cui miti umani sono i «feroci conduttori di trasmissioni false / che hanno spesso fatto / del qualunquismo un’arte» (da Cirano), c’è qualcuno che ha deciso, consapevolmente, di chiamarsi fuori. Qualcuno che «non la sopporta la gente che non sogna» e che continua a proclamarsi «fiero del suo sognare / e di questo eterno suo incespicare»: e che, anche per questo, val la pena di tenersi stretto il più possibile – come dice un pezzo di Ritratti –, in fondo, «la canzone è una penna e un foglio / così fragili fra queste dita, / è quel che non è, è l’erba voglio / ma può essere complessa come la vita». Ed è per questo suo non essere, forse, che essa può risultare un’interessante compagnia per le incertezze che riserva inevitabilmente l’esistenza: Guccini lo sa, e fortunatamente non fa nulla per nascondercelo. D’altra parte, «ma chi él Dio?».

Brunetto Salvarani

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