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Sabato Santo: tempo di silenzio

Il venerdì si è concluso. La terra ha smesso di scuotersi, le donne e gli uomini di piangere. Un uomo buono ha staccato Gesù dalla croce, lo ha avvolto in un lenzuolo e lo ha sepolto. Si fa notte e, dice Luca, già splendono le luci del sabato, il giorno del riposo. Tutti si fermano, aspettano.


Sabato Santo: tempo di silenzio

da Teologo Borèl

del 05 aprile 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 

NEL PUNTO PIÙ LONTANO DA DIO 

«Svegliati tu che dormi, non ti ho creato perché fossi prigioniero»           Il venerdì si è concluso. La terra ha smesso di scuotersi, le donne e gli uomini di piangere. Un uomo buono ha staccato Gesù dalla croce, lo ha avvolto in un lenzuolo e lo ha sepolto. Si fa notte e, dice Luca, già splendono le luci del sabato, il giorno del riposo. Tutti si fermano, aspettano: le guardie davanti alla tomba, le donne che nelle loro case preparano gli aromi e gli oli con cui profumare il corpo di Gesù, i discepoli sbigottiti, la folla che non si dà spiegazioni. Gli evangelisti tacciono. Dopo avere fatto l’esperienza del morire (il venerdì, durante le ore drammatiche della crocifissione, c’era ancora la partecipazione della vita), Gesù fa l’esperienza della morte. E per lui, secondo la tradizione, non è un giorno di riposo. Il sabato, mentre tutto sulla terra è sospeso, Gesù sprofonda: nel buio, negli abissi, nel punto più estremo e più lontano da Dio, dove non c’è soltanto la morte – il grande scandalo, la grande paura – ma la barbarie, quella che arma, uccide, dilania, anche un bambino come Tommaso. «Svegliati, tu che dormi!» sono le parole che Epifanio di Salamina, nella sua visione della 'discesa agli inferi', attribuisce a Gesù. «Non ti ho creato perché rimanessi prigioniero. Usciamo di qui». I pittori di icone lo hanno immaginato così, con le mani tese, mentre strappa dal buio chi lo aspettava fin dalle origini. Ma a qualcuno, questa improvvisa irruzione di bene e di libertà, sarà parso il più insopportabile dei tormenti. Dostoevskij ha mostrato che nemmeno l’inferno può saziare il cuore dell’uomo e la pratica della contemporaneità purtroppo ce lo conferma: abbiamo sotto gli occhi come il chiasso si sposa alla violenza, la corruzione e la crudeltà al basso tornaconto, la desolazione alla strage, lo spreco alla povertà assoluta. Forse, la sospensione del Sabato Santo ci spinge proprio a questo, a 'cambiare la mente': «Per arrivare a capire – ha scritto Giovanni Giudici introducendo il Vangelo di Matteo –quel che a non capire sembriamo spesso ostinarci». IMPARARE A VOLARE SOPRA GLI ABISSI DELLA STORIA«Il tragico post moderno non è più traumatico. È solo scivoloso»          Quanto si deve sprofondare, prima di toccare il fondo? E poi, c’è un fondo? Il tragico post-moderno non sembra più neppure traumatico. È scivoloso. Incominciamo ad abituarci, come fossero fanghi terapeutici. («A qualcuno piace così, che male c’è?». Straordinaria apologia della libertà di inquinamento della mente collettiva. Rigorosa battaglia contro il fumo passivo, però, s’intende. Non siamo mica degli irresponsabili). Il dosato e graduale prelievo di anima al quale siamo scientificamente sottoposti, pidocchiando sulle ore di vita che abbiamo o che ci rimangono da vivere, rende il tragico – una volta drammaticamente umano, almeno – etologicamente ed ecologicamente assimilabile. Le nostre più piccole frustrazioni morali sono accudite e prevenute, fin dalla più tenera infanzia: è stupido farsi sensi di colpa. Traumatico è fallire il sex-appeal del girovita. Poi la leonessa sbrana il cerbiatto – fra noi umani! – e noi guardiamo con l’occhio acquoso, come se non ci fosse un nesso. «Quello che avrete fatto al più piccolo dei vostri fratelli l’avrete fatto a me». Ecco fatto. Ecco la misura dell’altezza e dello sprofondo, in cui si mette il Figlio. Ecco la misura in cui noi siamo, non un centimetro di meno. Una volta – si fa per dire – quando Dio era di tutti, e proprietà di nessuno, era più facile percepire la vastità di questa appassionata alleanza del Figlio con tutti i figli che devono venire al mondo. Di questa irremovibile custodia di Dio, l’inconscio del legame sociale si nutriva, credenti e non credenti inclusi. Non fa eccezione di persona, Dio. Ma ora 'Dio' si è fatto, nel nostro debole pensiero, leggero e vago. 'Dio' è arrogantemente invitato a declinare le generalità, e assegnato di volta in volta a una razza, a una cultura, a un partito, a una cosca. Considerato di parte, messo da parte. L’acqua dello sprofondo ci è arrivata al mento. A noi adulti. Perché i cuccioli sono già sotto, tengono il respiro finché possono. Ma più sono piccoli, e meno ne hanno. La partita dell’umano non è più di squadra: il modello è uno contro tutti, ciascuno per sé. Chi ce la fa, ce la fa. Tutte le mosse sono buone. Passione dell’umano involgarita e irriconoscibile nei luoghi della politica. Tema irriso e incerto nei luoghi del sapere. Dobbiamo imparare a volare, e a solcare gli abissi, altro che storie. Il Figlio, nel suo slancio possente verso l’alto, si tuffa a morte nello sprofondo. Fino agli inferi degli inferi, dove stanno coloro che ci sono scivolati di mano sotto le acque. Nella morte di Gesù le vibrazioni della divina generazione hanno solcato ogni ferita, ogni perdutezza, in cerca della più piccola traccia di vita, avvilita dalla nostra indifferenza e separata dal suo riscatto. Il Figlio la risospinge ora verso l’alto, la restituisce teneramente e possentemente alla sua alta destinazione. In questo sommovimento, ci porta ostinatamente sopra le acque e ci restituisce alle passioni migliori della nostra storia. Ma dove sono tutti? UNA RIVOLUZIONE CHE RIEMPIE L’ATTESA «Cristo va a occupare i vuoti che l’amore non tollera»           Frequento e interrogo, da sempre, esplicitamente o meno, il viaggio agli inferi come dimensione dell’umano. Credo che ogni giorno a chiunque sia possibile una visione ultraterrena, un lampo. Non è detto che avvenga, può non manifestarsi mai in una vita, perché non percepibile o perché non percepita (per la pigrizia, l’indifferenza, i demoni meridiani contro cui sanguina e pulsa e brucia e splende la Pasqua). Le visite a cui torno più frequentemente avvengono prima di Cristo, in un mondo a volte mitizzato a volte incompreso come quello dell’antica Grecia che si espande poi, modificato e un po’ imbolsito, a Roma. Ulisse che scende agli Inferi e trova l’ombra di sua madre vuota e piangente, Orfeo che accede al regno di Ade e nonostante il suo canto e l’incanto non può riportare in vita la sposa Euridice, il capitano Achab che cerca l’incontro fatale, infero, nelle mascelle della balena Moby Dick e ne viene annientato… Poi Dante, il primo a discendere per risalire modificato, illuminato da Dio, annichilito da una luce bruciante la parola, che pure persiste e detta la Commedia. Prima di questa discesa, solo buio. Dante fonda il mito del superamento dell’Ade, ma Dante, pur sovrumano per genio, è soltanto un uomo. Che cosa significa la discesa di Gesù Cristo agli Inferi? Di questa discesa non sono mai riuscito a scrivere, perché non riesco a comprenderla, perché mi stordisce. La discesa di Cristo non fa parte della cultura ma della speranza, che non è un’utopia ma una rivoluzione in atto, una meravigliosa trasformazione, incessante perché eterna, di qualcosa che già è mutato. In un mondo in cui la cronaca registra orrori insostenibili, allora la discesa di Cristo, astorica e aletteraria, non potrebbe essere, forse – ma ho dichiarato la mia non autorevolezza, la mia ignoranza – non potrebbe forse essere la potenza del bene che si scinde dal bene per discendere al male, evirandolo? Non potrebbe essere la prova di un amore divino che non ha nemmeno bisogno del respiro divino, perché quell’amore annulla ogni aggettivo, compreso il più alto? Cristo muore, resuscita, e poi scende. Appena risorto scende. Va a occupare il vuoto, che l’amore non tollera. Lo riempie.

Laura Bosio, Pierangelo Sequeri, Roberto Mussapi

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