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Nascere a Betlemme, terra di miracoli.

Suor Donatella Lessio, infermiera al Caritas Baby Hospital, un ospedale pediatrico di Betlemme condotto dalle suore Francescane Elisabettine di Padova, racconta una delle tante vicende che accadono in Palestina, terra di miracoli.


Nascere a Betlemme, terra di miracoli.

 

Un giorno ero seduta davanti al tabernacolo della cappellina in ospedale, quando alle mie spalle ho sentito il singhiozzo di una donna che veniva a consegnare ad Allah la sua angoscia. Era una musulmana che conoscevo molto bene, perché il figlio Mohamed era ricoverato nel reparto dove lavoro. Fin dalla sua nascita, quella donna ha cominciato un interminabile calvario. Ricoveri e dimissioni senza sosta per 'arginare' una malattia metabolica diagnosticata pochi giorni dopo il parto. Mi sono alzata dalla sedia e le ho chiesto il motivo del suo pianto: a bassa voce mi dice che suo marito vuole da lei un figlio maschio e sano.

 

Tutte e due conoscevamo bene le scarse possibilità che questo accadesse. «Se il prossimo non nasce sano, mio marito mi lascerà», dice con la voce rotta dall’emozione. La invito a pregare, io da cattolica e lei da musulmana. Ci lasciamo con questo patto, dopo esserci abbracciati. Lei esce dalla cappella e io fisso la statua della Madonna, un pezzo unico tratto da un tronco di ulivo. Il volto di Maria ha le sembianze di una donna palestinese. Alcuni mesi dopo, mi ritrovo ancora a pregare in cappella. La scena si ripete: ancora il pianto di una madre alle mie spalle. Mi giro come avevo fatto pochi mesi prima. La stessa donna, la stessa madre, ancora più disperata perché questa volta nel suo grembo si sta formando una nuova vita. La abbraccio forte perché capisco, anche se nessuna delle due pronuncia una parola. So solo dirle: «Preghiamo, chiediamo ad Allah e a Dio Padre che faccia nascere il bimbo sano». Desideri di due donne che vengono consegnati al Figlio e alla Madre, a Maometto e alla madre di Maometto. Preghiere diverse per un’unica richiesta.

 

Passano i mesi e Mohamed viene ricoverato più volte durante la gravidanza della madre. Seguo quella gravidanza come se mi appartenesse, come se fosse parte di me. Vedo il ventre della donna crescere: lei è serena, io un po’ meno. La mia professione sembra prevalere sulla mia fede, ma non smetto di sperare. Anche il volto di quella donna ha bisogno della mia speranza.

 

Arriva il mese di dicembre, il nuovo bimbo dovrebbe nascere, ma in ospedale non si vede nessuno; penso il peggio, ma aspetto e non voglio chiedere niente a nessuno perché ho paura delle risposte.

 

Arriva la metà di gennaio. Un giorno, mentre sono in corridoio, da lontano la vedo entrare in ospedale con un fagottino tra le braccia. Abbasso gli occhi perché non voglio incontrare il suo sguardo, cammino in fretta nella speranza di evitarla, ma lei mi aveva visto da lontano e mi chiama. Mi avvicino e la guardo negli occhi, che mi sembrano stranamente lieti. Prendo il coraggio di alzare la copertina che copriva il volto del bimbo: c’è una bellissima bambina che dorme pacifica. Guardo la mamma, che esclama: «È sana!». Mi scendono dagli occhi le lacrime che cerco di trattenere: in quella parte di me che è libera da ogni condizionamento, anche professionale, ringrazio Dio e la Madonna. Abbraccio quella donna così forte e coraggiosa, mentre lei mi sussurra all’orecchio: «È nata il 25 dicembre».

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