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Marco Guazzone: un ponte musicale tra Muse e Coldplay

Si è messo in mostra a Sanremo con il singolo “Guasto”.


Marco Guazzone: un ponte musicale tra Muse e Coldplay

da Attualità

del 27 aprile 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 

            Il Festival di Sanremo è un'arma a doppio taglio per gli artisti che vi partecipano. Sanno che da un lato entrano a far parte di un evento soprattutto televisivo, dove spesso la musica non ha quel rilievo che dovrebbe avere, sopraffatta da ogni sorta di ospiti e polemiche. Dall'altro lato, però, salire sul palco dell'Ariston garantisce loro in quei giorni una straordinaria visibilità mediatica tra gara canora, radio, tv, giornali, web.

          Una visibilità che può far digerire qualche “disagio”, ancor di più quando si è un debuttante bravo come Marco Guazzone, romano, finito nel vortice sanremese dopo aver passato buona parte della propria vita tra le sette note.

          Marco, difatti, incomincia a mettere le mani su un pianoforte a 6 anni per non staccarsene più. S'iscrive quindi al Conservatorio Santa Cecilia, per poi volare a Londra a suonare in piccoli locali e pub. Un'esperienza arricchente che lo prepara al rientro in Italia, dove si dedica alla composizione di colonne sonore per spot e cortometraggi. Un suo brano, Love will save us, viene così scelto da Fox Life Tv come sigla del promo ufficiale di San Valentino.

          Ottiene un contratto discografico per un'etichetta indipendente e intensifica i concerti con il suo gruppo, gli Stag, aprendo le esibizioni di star come Suzanne Vega e Moby. Infine, quest'anno l'occasione del Festival di Sanremo, nella “Sezione Giovani”, dove Marco non passa inosservato con la sua Guasto, coinvolgente brano che prelude all'ottimo cd Buonasera per essere venuti. Un lavoro dagli intensi toni pop-rock, quasi un anello di congiunzione tra i Coldplay e i Muse, ma corretto con una buona dose di personalità, quella che fa la differenza nell'essere artista a tutto tondo.

A sei anni hai iniziato a suonare. Chi ti ha “condotto” davanti al pianoforte?

          I miei genitori. Allora, entrambi suonavano: la mamma la chitarra classica e il papà le tastiere in un gruppo. In casa, tra strumenti e spartiti, troneggiava in salotto un piano verticale che presto ha attirato la mia attenzione e così ho incominciato a prendere lezioni private. Crescendo, i miei hanno visto che la musica mi faceva stare bene e mi hanno supportato, facendomi però capire che fare il musicista è un privilegio ma anche un mestiere difficile, con tante difficoltà da superare. Dovevo quindi prendere le cose sul serio applicandomi nello studio.

Tanto sul serio che sei finito in Conservatorio.

          Per tre anni ho studiato “Composizione”, poi ho lasciato. Coltivavo dentro di me l'idea di riuscire a conciliare la musica classica con la leggera, ma l'ambiente del Conservatorio era troppo rigido per abbracciare questo punto di vista. Mi è dispiaciuto, anche se quel periodo mi è stato molto utile per alimentare la mia passione.

Qualcosa ti ha lasciato, visto che si sentono gli echi della classica nei tuoi brani.

          Senza dubbio. I tre amici che fanno parte del mio gruppo, gli Stag, hanno frequentato anche loro il Conservatorio e a noi piace “sporcare” la musica leggera con dei riferimenti colti. È un modo per portare il pop a essere più elegante, raffinato, che poi è quello che vorrei riuscire a fare con le mie canzoni.

Sei sbarcato anche a Londra. Per quale motivo?

          Quando ho capito che volevo trasformare questa passione in un mestiere, mi sono trasferito nella capitale inglese perché là pensavo che avrei trovato un terreno fertile per migliorarmi. È stato un periodo duro: è una città che offre tantissimi spazi dove suonare ma al tempo stesso ci sono anche numerosi artisti sconosciuti con cui ti devi misurare che magari fanno le tue stesse cose e meglio di te. Uno stimolo fortissimo, quindi, per cercare di farti valere.

Sei riuscito a “vivere con la musica” sotto il Big Ben?

          Sì, fin dai primi mesi del mio arrivo. Nei locali londinesi funziona un fantastico sistema chiamato Open Mike Nights, “Serate a microfoni aperti”, dove ti puoi iscrivere a una lista a numero chiuso e presentare nella serata al massimo tre pezzi. I chitarristi sono favoriti, perché non tutti i pub hanno un piano, ma io mi portavo dietro la mia tastierina e riuscivo a esibirmi.

Quanto ti è stata utile questa esperienza?

          Tantissimo. La maggior parte del pubblico di questi locali è lì per bersi una birra e mangiare, e tu sei sopra una specie di palco a stretto contatto con loro. Non hai effetti luci, né un fonico e l'impianto audio è penoso, e capisci che se vuoi essere ascoltato devi creare un “tuo” momento musicale e una connessione con la gente. Non è semplice, e infatti ci sono state delle volte che non ci sono riuscito, ma altre volte è andata bene e anche avere alla fine della serata una persona che ti chiede il tuo contatto su MySpace ti dà soddisfazione.

Da Londra sei poi tornato a Roma.

          Una decisione presa perché ho vinto il bando di concorso per studiare musica da film al Centro Sperimentale di Cinematografia. È un settore, questo, che mi ha sempre intrigato e che ho condiviso in un ambiente frequentato da ragazzi della mia età che studiavano da registi, attori o sceneggiatori. Un'esperienza bellissima, vissuta in un contesto vivace e creativo.

Quali differenze ci sono nello scrivere un brano per un film e per un tuo progetto?

          Non tantissime; di solito quando compongo parto sempre da un'immagine, sia per la musica che per il testo: una fotografia mentale da raccontare con le note. Certo, di fronte a un filmato da seguire entrano dinamiche differenti, magari dovute al minutaggio, ma proprio perché abituato a lavorare sui contorni visivi, mi sono subito trovato a mio agio nel fare commenti sonori a spot o cortometraggi.

Due anni fa hai pubblicato il tuo primo singolo. Cosa ha significato per te?

          La canzone realizzata per Fox Life Tv mi ha dato l'opportunità di mettere finalmente la testa fuori in modo ufficiale. Ho fatto tutto da solo, autoproducendo anche il video, con la ovvia collaborazione della mia squadra. È stato un modo per vedere premiati tanti sforzi e sacrifici fatti in passato e di guadagnare, quasi simbolicamente, vista l'entità della cifra, qualche centesimo.

Dal grande pubblico, ti sei fatto conoscere a Sanremo con Guasto. In quale modo è nato?

          Da uno spunto geografico. Mi trovavo in un paesino del Molise, in provincia di Terni, che si chiama proprio Guasto, e nel tardo pomeriggio mi sono trovato a fare le prove per un concerto. C'era un pianoforte sul sagrato della chiesa tra colline e montagne e coinvolto da questo panorama mozzafiato, ho imbastito le prime note del pezzo. Da lì, ho poi sviluppato nel tempo il brano vero e proprio, coinvolgendo anche gli altri amici che suonano con me.

Come hai vissuto l'impatto con il Festival?

          In tanti modi diversi. Mi ha conquistato Gianni Morandi, un professionista vero e un grande appassionato di musica, sempre presente fin dalle selezioni, pronto a spendere una parola di incoraggiamento per tutti. Non posso poi dimenticare l'emozione di salire su un palco così prestigioso, dove sai comunque che sono passati la maggior parte dei grandi artisti italiani e stranieri. Infine, l'energia pazzesca che ricevi da un'orchestra di 60 elementi: se penso che a 23 anni ho suonato con un simile ensemble un mio pezzo, mi sembra un sogno.

Il cd sembra gettare un ponte musicale tra Muse e Coldplay. Tuttavia,  non manca una precisa identità. È stato difficile raggiungere questo equilibrio?

          È il frutto dell'unione di diversi mondi. C'è l'elettronica, usata però come supporto da far interagire con gli strumenti veri; ci sono spazi solo strumentali, ma anche rimandi alla classica, e c'è il pop e il rock. Mi è sempre piaciuto contaminare i generi tra loro, e d'altra parte oggi è davvero difficile confinare la musica in un solo stile. Poi, io e la mia band, abbiamo cercato di metterci del nostro, sperando di dare un taglio originale alle nostre canzoni e il paragone con le band che citi mi lusinga.

Da dove spunta il curioso titolo del cd?

          Quando suono in pubblico, non sono molto bravo con le parole e per questo sul foglio della scaletta, accanto ai pezzi da eseguire, scrivo delle annotazioni come “ringraziare il pubblico”. Una sera che ero più impacciato del solito, ho involontariamente fatto la crasi tra “buonasera a tutti” e “grazie per essere venuti” tra le risate generali. Così, quando è stato il momento di dare un titolo al cd, mi sono ricordato di questo episodio genuino.

Claudio Facchetti

http://www.dimensioni.org

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