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L'anedonia e la ricerca dell'eccesso

Da tempo, chi lavora nelle dipendenze, ha osservato il loro carattere progressivo. L'illusione della persona dipendente è quella di poter gestire la propria dipendenza, di poter controllare l'uso delle sostanze o certi comportamenti come il gioco d'azzardo e le dipendenze a carattere sessuale. Tutti però sappiamo che così non è: gli equilibri che talvolta si raggiungono sono molto fragili e comunque insoddisfacenti e accompagnati da una forte dose di ansia. Si è d'accordo che la via più sicura è l'astinenza completa, ma questa viene spesso sentita come un'amputazione. (don Giuseppe Dossetti, Progettouomo)


L'anedonia e la ricerca dell'eccesso

da Quaderni Cannibali

del 11 ottobre 2006

La decisione di rinunziare al comportamento dipendente viene presa, di norma, dopo una crisi, che interrompe la fase euforica e questo sentimento di sconfitta accompagna spesso la sobrietà, alimentando un rimpianto che espone alla ricaduta.

La dipendenza acquista così un aspetto magico: la sostanza viene personificata, diventa un interlocutore, maledetto e desiderato; le si attribuiscono proprietà appunto magiche e questo alone di sacralità e di magia si riverbera sugli operatori del settore, che talvolta se ne lasciano sedurre al punto di compiacersene.

Dobbiamo dunque cercare di capire come mai un essere umano diventi dipendente da una sostanza o da un comportamento, senza saziarsi mai, senza riuscire a porre limiti, anzi, cercando di spostare sempre oltre i confini di un’esperienza, che, pure, viene riconosciuta come distruttiva.

Il termine “anedonia” esprime bene questa situazione. Viene ricercato il piacere (edonè), ma esso non basta mai; tuttavia, più si avanza oltre i limiti dell’esperienza, più il piacere diminuisce; o meglio, mentre in un primo tempo viene ricercato per se stesso, alla fine acquista un valore “medicinale”, quasi a sedare, almeno per breve tempo, un’angoscia che non può essere gestita altrimenti.

Successivamente, cercherò di indagare le cause storiche e culturali di questi comportamenti. Infine, intendo mostrare che la malattia contiene in sé anche i codici per immaginare un percorso che restituisca la salute.

 

I MECCANISMI DELL’ECCESSO

 

Il termine “eccesso” fa parte di un gruppo di termini che indicano il superamento di un limite. “Eccedere” vuol dire “andare fuori”, come “esagerato” è colui che esce dall’agger, dall’ argine, e “enorme” è ciò che esce dalla norma, dalla misura.

In effetti, la cosa più interessante per chi riflette su queste cose è la mutazione intervenuta in Occidente negli ultimi due secoli e che si è accelerata negli ultimi decenni. Ormai, è molto difficile che il piacere venga considerato compatibile con la norma, con la misura. Esse vengono considerate come un limite che amputa e rende meno intenso, meno attraente il piacere. Qui però c’è un cambiamento davvero radicale rispetto al passato, al mondo antico e alla cultura classica. Basta fare un nome: Epicuro. Questo filosofo ellenistico del primo secolo della nostra era associava piacere e misura. Il vero piacere era quello che sapeva darsi un limite e rientrare in un’ armonia della quale l’uomo rimaneva padrone. Anche il libro del Qohelet, l’Ecclesiaste, proprio perché convinto della vanità di tutte le cose, suggeriva come la via migliore per l’uomo il trarre dal tempo presente il massimo della gioia, ma conservando un atteggiamento di “sapienza”, cioè accettando serenamente che nulla dura per sempre:

 

“ Sta’ lieto, o giovane, nella tua giovinezza,

e si rallegri il tuo cuore nei giorni della tua giovent√π.

Segui pure le vie del tuo cuore

e i desideri dei tuoi occhi.

Sappi però che su tutto questo

Dio ti convocherà in giudizio.

(non il giudizio oltre la morte, poiché oltre la morte non c’è nulla, ma un giudizio qui, nella storia).

Caccia la malinconia dal tuo cuore,

allontana dal tuo corpo il dolore,

perché la giovinezza e i capelli neri sono un soffio”.

(Qo 11,9-10)

Qualche anno fa, Alberto Moravia sostenne la liberalizzazione delle droghe con un argomento originale:

“ Il drogato ha pur sempre ragione di rispondere a chi lo esorta ad abbandonare la droga; “Sì, va bene, ma io che cosa otterrò in cambio?”. E infatti noi non possiamo che rispondere: “Nient’altro che la normalità del vivere quotidiano, nell’era dell’edonismo e del consumismo di massa. Cioè, nulla”.

….. Allora, a questo punto , visto che in luogo della droga non possiamo offrire al drogato che quella stessa disperazione dalla quale nasce il ricorso alla droga, sembrano più importanti i vantaggi della liberalizzazione e della legalizzazione” (Il Corriere della Sera, 23.08.1989).

 

Tuttavia, anche Moravia aveva una formazione umanistica classica e il suo ragionamento non tiene conto del fenomeno dell’eccesso. La droga può sembrare un anestetico della sofferenza esistenziale, ma progressivamente diventa essa stessa causa di una sofferenza sempre crescente.

Ma dobbiamo dire anche un’altra cosa: l’eccesso è incompatibile con la cultura e distrugge progressivamente la dimensione sociale dell’uomo.

Noi sappiamo che la cultura è quel patrimonio di conoscenze, di tradizioni, di istituzioni, di comportamenti, che formano la materia della quale è costituita la nostra identità. Su questa materia, l’io singolo esercita una funzione critica, con una dose maggiore o minore di accettazione. Ma anche colui che ha un atteggiamento eversivo verso la cultura nella quale è nato non ne può prescindere: lui è quella cultura e il cambiamento sarà tanto più efficace quanto più egli si sentirà responsabile nei suoi confronti.

Ora, cultura vuol dire limite. Banalmente, se io circolo in Gran Bretagna tenendo la destra, causerò un incidente, avrò conseguenze disfunzionali al mio appartenere al gruppo sociale britannico. Ogni cultura ha una sua paidéia, ossia un sistema formativo. Non ci può essere però formazione senza una regola, una disciplina.

E’ la cultura che permette l’esistenza di una comunità. Essa è la grammatica, il linguaggio, che permette a un determinato gruppo umano di comunicare, di appartenersi.

Si è detto tante volte che le droghe fanno parte di culture alternative. Lo si dice almeno dal tempo dei figli dei fiori. Di fatto, noi sappiamo che la pressione del gruppo è importante nell’iniziazione all’uso. Ma proprio il fenomeno dell’eccesso determina nei gruppi dei consumatori di sostanze percorsi di frammentazione e di solitudine. La promessa di rapporti sociali più liberi, più gratificanti perché meno regolamentati, è in realtà un tragico inganno. Proprio l’identificazione di libertà e di eccesso porta l’uomo a una dolorosa solitudine, anzi, alla rassegnata convinzione dell’impossibilità di appartenere veramente a qualcuno e che siano invece possibili solo rapporti di uso, nel quale l’altro è soltanto un oggetto.

Questo è evidente in particolare nelle dipendenze a carattere sessuale. Assistiamo alla progressiva amputazione della dimensione più propriamente umana della sessualità, cioè il suo carattere di apertura interpersonale. Il rapporto tra due esseri che condividono il proprio corpo è, di per sé, un’affermazione reciproca del carattere assoluto del Tu dell’altro. Vi è una promessa reciproca di stabilità e di esclusività. Il Tu di colei e di colui che vengono chiamati “la mia donna”, “il mio uomo”, acquista un’evidenza singolare nella multiforme e continuamente cangiante moltitudine dei vari “Tu”, che intessono la trama dei rapporti dell’”Io”.

Ma in questa apertura al Tu è inclusa una radicale autolimitazione. L’altro non può essere posseduto, ma solo accolto; egli mi è cosi intimo, che io avverto un’incompletezza, una ferita aperta nel mio fianco, ma di questa ferita io godo. So che questo rapporto non può essere in nessun modo garantito, ma va continuamente rinnovato e richiede un investimento, spesso faticoso. Eppure si ama quella fatica:

“Ubi amatur, non laboratur; et, si laboratur, ipse labor amatur”,

scrisse Agostino di Ippona: quando si ama, non c'è fatica; ma, se ve ne fosse, si ama quella fatica.

Se invece l’altro viene visto puramente come lo strumento del piacere, è ben difficile che il rapporto rimanga stabile. La sperimentazione, la ricerca di sensazioni sempre nuove, mi chiude in un narcisismo continuamente preoccupato solo di una cosa: la prestazione. L’altro diventa il limite da oltrepassare, dunque, un oggetto da possedere. L’oggetto è tanto più appetibile, perché riguarda le fonti della vita, eppure io mi trattengo, quasi inorridito, di fronte a un’ipotesi di fecondità. Nel romanzo Il Padrino, di Puzo, il sicario del boss getta il bimbo appena nato dalla sua donna nella fornace del palazzo ove abita: da me non può nascere nulla, l’io è ormai chiuso in una disperata e compulsiva affermazione di sé, che conosce solo una strada, il potere e la violenza.

Oppure, la lotta tra i sessi diviene più sottile. L’affermazione dell’io può avvenire solo mediante la sottomissione e l’umiliazione dell’altro. In questo gioco, ambedue le parti sono perdenti. Viene in mente il film L’Angelo azzurro, con Marlene Dietrich.

Analoghe considerazione potrebbero essere fatte per quella droga che è il potere. La storia recente potrebbe essere letta alla luce di un’insaziabile ricerca dell’eccesso. Ma manca il tempo.

Diciamo invece qualcosa sulle droghe, intese come sostanze stupefacenti. In esse, la progressività e la compulsione a un utilizzo sempre più totalizzante sono particolarmente evidenti. Va soltanto aggiunta un’osservazione.

In ogni eccesso, si è più o meno lucidamente consapevoli che c’è un prezzo da pagare; può trattarsi della competizione o della seduzione, del rischio, della lotta per il potere. Le droghe rappresentano una scorciatoia. La loro promessa è di donare il successo togliendo la fatica (o monetizzandola). Forse, anni fa, la droga, soprattutto l’eroina, era un “viaggio”, cioè un’avventura, una sfida. Si cercava proprio quel piacere, sperimentando sempre nuove avventure e le stesse difficoltà rendevano il gioco più affascinante.

Ora, invece, le droghe vengono usate come protesi, come strumento per raggiungere con facilità e immediatezza obiettivi, che altrimenti richiederebbero ben altri investimenti. Da questo punto di vista, l’uso di droghe è una strada pusillanime e vile.

 

PERCHÉ QUESTO RIFIUTO DELLA MISURA?

 

Abbiamo descritto un fenomeno, abbiamo esplorato dei percorsi. Ma non sappiamo ancora nulla del perché tanti uomini e donne li scelgano, pur essendo consapevoli delle loro pericolosità. Soprattutto, non comprendiamo perché, una volta sperimentato il prezzo di tali comportamenti, non si decida di fermarsi, di tornare indietro.

Sorge un’ipotesi interessante: forse è proprio questo rischio, questo pericolo che viene ricercato. Ma, se così fosse, ancora una volta dobbiamo chiederci il perché.

Tentiamo un’interpretazione, partendo da un testo famoso di Blaise Pascal. In un gruppo dei suoi Pensées, egli parla della miseria e della grandezza dell’uomo. Descrive, con un’acutezza impressionante, il fenomeno del divertissement, tradotto con “distrazione”. Egli non è d’accordo con quei moralisti che, dall’alto della loro pretesa nobiltà intellettuale e morale, si fanno beffe delle miserie dell’uomo. Egli ritiene che proprio l’ enormità di queste miserie indichi la ricerca di un bene assai superiore a quelle “ghiande dei porci”, che l’uomo pare prediligere.

“C’è chi passa la vita senza annoiarsi, giocando ogni giorno un po’ di denaro. Donategli ogni mattina la somma che può guadagnare ogni giorno, a patto che non giochi più: lo renderete infelice. Si obietterà forse che costui cerca non il guadagno, ma il passatempo. Fatelo allora giocare per niente: non ci prenderà gusto e si annoierà. Dunque, non cerca solo il passatempo: uno svago fiacco e senza passione lo annoierà. Bisogna che ci pigli gusto e frodi se stesso, immaginando che sarebbe felice di vincere quel che non vorrebbe gli fosse donato a patto di non giocare più, in modo che possa foggiarsi un motivo di passione, su cui riversare i suoi desideri, i suoi timori, la sua collera …

…. Come mai quell’uomo, che ha perduto da pochi mesi il suo unico figlio e che, oppresso da liti e da processi, era stamane tanto angustiato, ora non ci pensa più? Non stupitevene: è tutto intento a vedere da dove passerà il cinghiale che i suoi cani inseguono con tanto ardore da sei ore. Non occorre altro. L’uomo, per quanto sia pieno di tristezza, se appena si riesca ad attrarlo in qualche divertimento, sarà subito felice, finché esso duri; e, per quanto fortunato sia, se non è distratto e assorbito da qualche passione o da qualche passatempo che impedisca alla noia di diffondersi nel suo animo, non tarderà ad essere scontento e infelice. Senza la distrazione, non c’è gioia; con la distrazione, non c’è tristezza….

….La sola cosa che ci consoli delle nostre miserie è la distrazione; tuttavia, essa è la più grande di tutte le miserie, perché essa soprattutto ci impedisce di pensare a noi stessi e fa che ci perdiamo insensibilmente. Senza di lei, saremmo nella noia; e questa ci spingerebbe a cercare un mezzo più sicuro per uscirne. Mentre la distrazione ci svaga e ci fa giungere alla morte senza che ce ne avvediamo ….

Noi corriamo spensierati verso il precipizio, dopo esserci messi dinnanzi agli occhi qualcosa che ci impedisce di vederlo” (Pensieri 354;366;367 Serini)

“La distrazione ci svaga e ci fa giungere alla morte senza che ce ne avvediamo”.

Qui, Pascal usa la parola che per l’uomo occidentale è la più scandalosa di tutte, la parola morte. L’eccesso (potremmo utilizzare la parola distrazione) è il tentativo disperato di rincorrere la vita che sfugge; non si cerca in realtà quel piacere, ma si cerca, attraverso quell’esperienza, la conferma che siamo vivi e che siamo in grado di oltrepassare il limite, quel limite rappresentato dal punto al quale eravamo arrivati ieri; ma, soprattutto, cerchiamo di dimenticare, tramite la vittoria di oggi, la sconfitta che incombe in virtù del limite invalicabile della morte.

Non tutte le culture manifestano questo rifiuto della morte e il tentativo di occultarne la presenza. Come mai, l’uomo occidentale la considera il male assoluto?

L’uomo della cultura classica greco-romana aveva rinunziato all’eternità. Egli è rappresentato più da Seneca che da Socrate. Morire con eleganza, questo è il massimo al quale l’uomo può aspirare, confermando con la morte la vita. C’è certamente una tristezza nell’uomo antico, talvolta il lamento e la protesta. ma la morte fa parte della vita e il saggio sa accettare il limite. Volervi sfuggire è vano e fonte di maggiore sofferenza.

Anche nella tradizione ebraica troviamo l’esortazione a limitare l’orizzonte dell’uomo alla vita terrena. Il testo più impressionante, per la sua onestà e nello stesso tempo per il suo tentativo di ridurre entro termini razionali ciò che ripugna alla ragione, è il libro già citato del Qohelet, l’Ecclesiaste:

“Ho considerato l’occupazione che Dio ha dato agli uomini, perché si occupino in essa. Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo, ma egli ha messo la nozione dell’eternità nel loro cuore, senza però che gli uomini possano capire l’opera compiuta da Dio dal principio alla fine “ (Qo 3,9-11)

Ancora: l’incontro con le religioni orientali ha spinto alcuni uomini dell’Occidente (un nome fra tutti, quello del grande volgarizzatore di questa spiritualità, Hermann Hesse) a vedere la radice dell’angoscia e della violenza nell’esagerata importanza data all’io singolo. Esso dovrebbe sentirsi parte di un tutto armonioso, nel quale vita e morte sono momenti di una realtà più grande, della quale tutto e tutti sono parte, come una singola nota ha il suo senso non in sé, ma nella totalità della musica.

Come mai, allora, l’Occidente dà tanta importanza all’io singolo, così da considerarlo un valore assoluto, così da ritenere la morte una realtà irriducibile a un senso? Come mai, nonostante le smentite dell’esperienza, l’uomo occidentale continua a credere in una possibile felicità?

Personalmente, ritengo che ci troviamo di fronte all’eredità della tradizione ebraico-cristiana, che ha plasmato così profondamente la cultura europea. In questa tradizione, l’uomo esiste all’interno di un patto, di un’alleanza, che lo fa interlocutore del Tu assoluto di Dio. Nel momento in cui Abramo viene chiamato per nome, egli emerge dal fluire indistinto della storia: egli e non altri, egli nella sua insostituibile singolarità sta di fronte all’Eterno. Il patto diventa così l’origine, ma anche il termine, la prospettiva dell’esistenza umana: esso è il futuro dell’uomo: è sul patto che si fonda la coscienza irriducibile di essere il portatore di una promessa che va oltre la morte.

Tale idea che l’uomo occidentale ha di sé è talmente universale, che un filosofo come Kant, che nega alla teologia ogni valore scientifico, fa del valore del singolo un a-priori, cioè un principio formale, universale, che non ha bisogno di dimostrazione, secondo il quale spontaneamente ogni uomo si pone di fronte alle richieste di una risposta etica alle grandi domande dell’esistenza.

 

LA CORSA AL SUPERAMENTO DEL LIMITE

 

E’ dunque difficile sollevare l’uomo moderno dalla sua sofferenza, né gli si può proporre come soluzione puramente e semplicemente la misura. Una prospettiva stoica o epicurea non gl’interessa: egli rimane “il perennemente insoddisfatto”, secondo l’espressione di Goethe. Ancora una volta ha ragione Pascal, che vede nella miseria dell’uomo la traccia della sua grandezza:

“Tutte queste stesse miserie provano la grandezza dell’uomo: sono miserie di gran signore, di re spodestato” (Pensieri, 369 Serini).

Anche l’eccesso prova questa grandezza. L’uomo non si ferma di fronte al limite: egli porta in sé, oscuramente, “la nozione dell’eternità”. Ci deve accomunare al Budda la compassione per il dolore dell’uomo; ma possiamo condividere la sua diagnosi, che ogni sofferenza venga dal desiderio, e il suo insegnamento, che il desiderio debba essere superato in una sublime indifferenza?

Ma è possibile un’altra via, una via che porti ad accettare il limite come qualcosa di positivo, di bello, di vitale? E’ possibile, senza mentirgli, dire all’uomo che può aspirare alla felicità o, almeno, a intravederla?

Probabilmente, la via va cercata, considerando la natura e le condizioni della relazione tra l’Io e il Tu. La grande intuizione di Martin Buber sta nell’aver affermato che l’io non esiste fuori della relazione, anzi, che l’evento di relazione è, esso solo, l’evento originario. E’ dall’esperienza della relazione che nasce la autocoscienza dell’Io. Ma questo evento è necessariamente un evento donato, che può essere invocato e atteso, ma in nessun modo costruito e posseduto.

Che cosa esiste prima della relazione? il nulla, l’impotenza. E’ spesso nei giorni del dolore che emerge il dono di un Tu, che ti viene incontro, che ti si offre, al quale tu puoi consegnarti e nella consegna avvertire che tu sei, che tu esisti, perché sei di qualcuno, per qualcuno.

Proprio per questo, paradossalmente, l’esperienza dell’eccesso può essere utile. Essa smaschera l’illusione di poter raggiungere un “oltre” che soddisfi i desideri dell’ uomo. La dolorosa impotenza di chi ha sperimentato una ricerca, al termine della quale egli si sente ancora più lontano dalla meta rispetto a quando ha cominciato, può orientare l’uomo a una diversa considerazione del limite.

Infatti, nella relazione interpersonale, il limite è costituito dalla soggettività dell’altro, dal Tu, che è irriducibile a un oggetto che io posso possedere. Il limite è allora accettato: esso non è più la porta di ferro che mi impedisce di gettare lo sguardo in un’immaginaria camera del tesoro; esso è piuttosto il territorio dal quale escono parole e atti che mi sorprendono, poiché sono parole di grazia e di perdono.

Tuttavia, questa esperienza donata può essere conservata solo se si accettano le leggi della relazione interpersonale. La prima e fondamentale è che le norme vengono dettate non dall’Io, né dal Tu, ma dalla relazione stessa. Essa esige che ogni giorno io mi chieda non che cosa serve a me, ma cosa serve a mantenere e a far crescere quelle relazioni che fondano la mia identità. Per tale obiettivo, devo essere pronto a pagare il prezzo richiesto e a pagarlo con gioia.

 

IMPARARE una grammatica della relazione e un linguaggio

 

E’ ora di tornare al nostro tema. La compulsione all’uso di sostanze può essere veramente vinta, solo quando le viene data un’ alternativa che contenga una promessa e una sfida. Quest’alternativa, secondo noi, non può essere altro che la gioia dell’incontro e l’ingaggio in un sistema di relazioni forti. Ecco perché, a nostro parere, il fattore comunitario è ancora lo strumento principe per la cura delle dipendenze.

Certo, quest’ingaggio non è facile. Prima, è necessario sgombrare il campo da tutto ciò che rappresenta il surrogato di una vera relazione. Questo è spesso molto difficile, molto costoso, soprattutto per chi condivide la vita di una persona dipendente: è necessario sciogliere tutti i nodi che rendono dipendenti dal dipendente, nodi affettivi, frutto di manipolazioni e ricatti raffinati.

Inoltre, è necessario insegnare una grammatica della relazione e un linguaggio. E’ necessario prevedere un lungo accompagnamento: infatti, bisogna aiutare a divenire compatibili con la cultura del gruppo sociale al quale si vuole appartenere, a vedere nella disciplina non un’imposizione esterna, ma il prezzo necessario della libertà. Bisogna ricercare insieme il difficile equilibrio tra la sottomissione alla realtà e alle sue regole e, d’altra parte, il desiderio di sentirsi protagonisti  e di dare un  proprio originale contributo.

Tutto questo è molto costoso. Ma noi riteniamo che ne valga la pena. La nostra ricompensa è la percezione, che ci sembra di avere, di essere portati molto vicini al centro di quel mistero che è l’uomo.

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