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IX. Allontanati da me,

sono un uomo peccatore. Perché parlo ancora con te? L'alito della mia bocca ti colpisce come veleno e ti insudicia. Va'via e spezza questo legame impossibile. C'è stato un tempo in cui ero un peccatore come gli altri, e potevo giustamente afferrare il dono della tua grazia, il dono del mio pentimento...


IX. Allontanati da me,

da L'autore

del 01 gennaio 2002

sono un uomo peccatore. Perché parlo ancora con te? L’alito della mia bocca ti colpisce come veleno e ti insudicia. Va’via e spezza questo legame impossibile. C’è stato un tempo in cui ero un peccatore come gli altri, e potevo giustamente afferrare il dono della tua grazia, il dono del mio pentimento, come il mendicante la monetina di rame, che gli viene gettata nel cappello rotondo, e potevo allora comperarmi la zuppa e il pane e vivere grazie a te. Mi si consentiva di gustare la felicità del pentimento. Potevo masticare l’erba amara della contrizione come un beneficio della tua grazia. Un’amarezza di grazia superaddolciva l’amarezza della mia colpa. Ma oggi? Che fare? Verso dove trascinarmi carponi dal momento che non mi vedresti più e che non ti sono più di peso e la mia contrizione non ti importuna più? Ti ho peccato in faccia, e la bocca, che ha toccato mille volte le tue labbra, le tue labbra divine, ha baciato le labbra del mondo e ha pronunciato le parole: «Non ti conosco». Non lo conosco quest’uomo. Se lo avessi conosciuto, non l’avrei potuto tradire in questo modo. In un modo così spensierato, così ovvio. E se l’avessi forse conosciuto, non l’avrei amato. Perché l’amore non tradisce così, non si volta e ne se va con la faccia più innocente, l’amore non dimentica l’amore. Il fatto che io, dopo tutto quello che c’è stato tra noi, potevo buttarti via in questo modo dimostra solo che non ero degno del tuo amore, che io stesso non ho mai avuto dell’amore. Non è orgoglio, non è umiltà, è semplicemente la verità se ti dico: basta. Non voglio che un raggio della tua purezza venga a perdersi nel mio inferno. È bello quando l’amore si degrada nel volgare, ma è intollerabile se esso nel volgare diventa volgare. Esiste un tradimento cui non si può più rimediare. Rimane un resto nell’eternità, il mio occhio non potrà mai più incontrare il tuo. Getterò nel tempio i trenta denari, ma ti prego non prendere questa azione per un pentimento. Questa nobile parola qui non si adatta. La mia anima serra le sue labbra perché non le sfugga nessuna parola. La mia azione parla abbastanza, essa grida al cielo, ma sarebbe meglio se gridasse all’inferno. Fammi quest’ultimo regalo e voltati, non voglio più vedere questo volto coperto di sputi. Lavati la faccia, lasciami là dove sono, dove appartengo. Questa volta io so chi sono. Questa volta è definitiva.

Tu sai pure che il tuo apostolo ha detto: «Quelli che furono una volta illuminati, gustarono il dono celeste, diventarono partecipi dello Spirito Santo e gustarono la buona parola di Dio e le meraviglie del mondo futuro e tuttavia sono caduti di nuovo, è impossibile rinnovarli una seconda volta portandoli alla conversione, dal momento che quanto a loro crocifiggono di nuovo il Figlio di Dio e lo espongono all’infamia. Infatti quando una terra imbevuta dalla pioggia abbondante produce erbe utili a quanti la coltivano, viene a godere della benedizione da parte di Dio; ma se produce pruni e spine, non ha alcun valore ed è prossima alla maledizione da parte di Dio: sarà infine arsa nel fuoco». Basta ora con il concime e con l’albero sterile, che, io penso, voleva dimostrarti che troppa cura non fa bene. Taglialo e non se ne parli più.

Gli uomini hanno ferito il tuo cuore, ne sono profluiti acqua e sangue, gli uomini bevvero e guarirono, si lavarono e divennero puri. Ma io ho fatto una cosa tutta diversa. Ho puntato con un forte colpo al centro dell’amore. Ho ucciso l’amore. Ho colto il midollo più interno dell’amore, sapendo quel che facevo e ho toccato il nervo più delicato della sua vita. È crollato, non c’è più. Un cadavere pende dalla croce, io sto lontano da lì, covando la mia perduta vergogna. Sono il figlio della rovina.

Ho abusato della tua croce e della tua misericordia. Tutto è consunto fino all’ultima goccia. Anche il ritorno del figlio prodigo, anche la pecora impigliata nelle spine, la dramma perduta; tutto sprecato e buttato. Si può recitare venti volte questa scena, forse cinquanta, ma a un certo punto diventa insipida, non ha più sale. E percepisco di nuovo la voce del tuo apostolo: «Se pecchiamo volontariamente dopo aver ricevuto la piena conoscenza della verità, non rimane più alcun sacrificio per i peccati ma soltanto una terribile attesa del giudizio e la vampa di un fuoco pronto a divorare i ribelli. Quando qualcuno ha violato la legge di Mosè, viene messo a morte senza pietà sulla parola di due o tre testimoni. Pensate quanto maggiore sarà il castigo di cui sarà ritenuto meritevole chi avrà calpestato il Figlio di Dio e considerato profano quel sangue dell’alleanza dal quale è stato un giorno santificato e avrà disprezzato lo Spirito della grazia! Conosciamo infatti colui che ha detto: A me la vendetta! lo darò il giusto! E ancora: il Signore giudicherà il suo popolo. Terribile cadere nelle mani del Dio vivente!».

Esiste una comunione dei santi. Esiste anche una comunione dei peccatori. Forse l’una e l’altra sono la stessa ed identica. Questa catena, quest’onda, che si avvolge e cresce avanzando attraverso i giorni e i secoli, un fiume sanguigno di colpe, la strada d’inciampo degli uomini che si trascinano a terra e si rialzano. Una sola vita di calda colpa e di caldo pentimento pulsa attraverso di essi e in mezzo a questo fiume oscuro di buono e cattivo dolore sono immerse anche le gocce salvifiche del Tuo sangue, Signore. Tu li salverai.

Io sono stato gettato fuori da questa comunione dei peccatori. Rigido e ferreo, rigirato come un grumo, sto fissato in disparte, il mio peccato non ha paragoni. Se quelli mancano, piange in mezzo a loro l’angelo di Dio. In me non c’è nessun angelo. Se quelli cadono, si spezza in essi un vaso segreto e il sentimento amaro ne sgorga come una vittima sacrificale. Ma in me non si spezza più niente, tutto vi è duro e chiuso inesorabilmente. Se quelli hanno peccato, possono pregare; ma quale preghiera potrei mai pronunciare io che non venga accompagnata dai sarcasmi dell’inferno? Che cosa credere, che cosa dirti? «Mi dispiace»? «Ti voglio amare»? Ho la prova sperimentale che non è vero. Negli altri geme l’offeso Spirito Santo. In me tutto rimane muto; questo può ben essere ciò che chiamano peccato contro lo Spirito. Gli altri cadono in ginocchio davanti alla croce. lo sono finito dietro la croce. Gli altri stanno nell’educazione di Dio: «Buona cosa che mi hai umiliato, così imparo a conoscere la tua giustificazione». lo ho percorso questa scuola da lungo tempo, da me la colpa non ha più una qualche parte che sia migliorabile. Essa è rotonda e sazia, non la si può aggredire da nessuna parte, una palla di fuoco e di ferro.

Lasciami solo. Neppure tua madre mi tocchi. Non sono uno da vedere per voi. Non sprecate con me la vostra misericordia, sarebbe un fallimento. Venga su di me quel che deve venire. A quello di destra, di là, hai promesso il paradiso. Gliela auguro di cuore. Lo ha meritato. Non sapeva quel che faceva. Siate insieme felici nel vostro eterno giardino. Ma per me non tormentarti. Resto quello della parte sinistra. E non tormentarmi neppure più con il tuo tormento. Cerca di dimenticarmi.

HA LAMPEGGIATO? Lungo come uno squarcio nella tenebra era visibile il frutto sulla croce, immobile, rigido come la morte, con occhi assenti e fissi, pallido come un verme, presumibilmente già morto. Questo era certo il suo corpo, ma dove è la sua anima? In quali spiagge senza confini, in quali profondità marine senz’acqua, sul fondo di quali cupe fiamme essa avanzava? A un tratto tutti lo sanno quelli che circondano il supplizio: egli è andato via. Un vuoto (non solitudine) a perdita d’occhio discende dai corpi penzoloni, non esiste più nulla fuori di questo vuoto di fantasmi. Il mondo con la sua forma è passato, si è spaccato come un sipario da cima a fondo, senza un suono; precipitò, si afflosciò, scoppiò come una vescica. Niente più che il niente. Niente anche la tenebra. Dio è morto. L’amore è morto. Tutto ciò che era, era un sogno che nessuno aveva mai sognato. Il presente è puro passato. Niente anche il futuro. La lancetta è scomparsa sul quadrante. Nessuna tensione più fra amore e odio, fra vita e morte. Si sono livellate entrambe le cose, e lo svuotamento dell’amore è passato nel vuoto dell’inferno. Solo una cosa ha perfettamente trapassato l’altra, il nadir sta nello zenith: nirvana.

Ha lampeggiato? Lungo come uno squarcio nel vuoto illimitato era visibile la forma di un cuore? Essa si muoveva tra vortici attraverso il caos senza cosmo, sospinta come una foglia o fornita essa stessa di ali, cacciata avanti veloce dalle sue proprie invisibili oscillazioni, sovrastando da sola al di sopra di un cielo disanimato e di una terra che non esiste più.

Caos. Al di là del cielo e dell’inferno. Nulla informe di là dai confini della creazione. È Dio questo? Dio è morto in croce. È questa la morte? Non si vedono morti. È questa la fine? Non c’è più nulla che abbia un fine. È questo il principio? Principio di che? In principio era il Verbo. Quale Verbo? Quale Verbo insensato informe incomprensibile? Ma guardate: che cos’è questo lieve chiarore, che comincia indeciso ad apparire, a delinearsi nell’infinitamente vacuo? Non ha né contenuto, né contorno; qualcosa di innominato, più solo di Dio, affiora dall’assolutamente vuoto. Non è nessuno. È prima di ogni cosa. È quello il principio? È piccolo e indeterminato come una goccia. È forse acqua. Ma non scorre. Acqua non è, è più torbido, meno trasparente, più viscoso di acqua. E neppure è sangue, perché il sangue è rosso, il sangue è vivo, il sangue ha una lingua umana che grida. Questo qui non è né acqua né sangue, è più antico di entrambi, un fluire caotico. Lentamente, lentamente, improbabilmente lenta la goccia comincia ad animarsi; non si sa se questo movimento è stanchezza infinita alla più estrema fine della morte, oppure il primo inizio: di che? Silenzio, silenzio! Trattenete il respiro dei pensieri. Troppo presto per pensare al giorno, alla speranza. Germe ancora troppo debole per bisbigliare di amore. Ma guarda bene: ora proprio si muove. Un filo liquido, debole, viscoso. Troppo presto per parlare di una sorgente. Cola perduto nel caos, disorientato, senza forma di gravità. Ma più ricco. Una sorgente nel caos. Zampilla dal puro niente. Zampilla da se stesso. Non è il principio di Dio, che dall’eternità pone con potenza se stesso nell’essere, come luce e vita e unitrina felicità. Non è il principio della creazione, che scivola lieve e sonnolenta dalle mani del Creatore. È un principio senza confronto. Come se la vita salisse dalla morte. Come se la stanchezza - così stanca che per gran tempo nessun sonno potrebbe ristorarla - come se la forza frantumata del tutto fondesse all’orlo più estremo dell’esaurimento, cominciasse a scorrere, perché lo scorrere è forse un segno e un simbolo della stanchezza che non può più trattenersi, perché ogni cosa forte e ferma si scioglie alla fine in acqua. Ma non era anche nata - al principio - dall’acqua? E questa sorgente nel caos, stanchezza che scorre, non è l’inizio di una nuova creazione?

Fascino del sabato Santo. Disorientata rimane la fontana caotica. Sedimento forse dell’amore del Figlio. Questo amore, versato fino all’estremo, avendo rotto ogni contenitore, mentre, l’antico mondo, è passato, si cerca una strada attraverso l’ombroso nulla in direzione del Padre. Oppure scorre nonostante tutto, inerme, inconsapevole, in direzione di una nuova creazione, non ancora esistente, innalzata, formata? Protoplasma; generando se stesso ab origine, il germe primo del cielo nuovo e della nuova terra? Sempre più ricca sgorga la fonte. Certo che sgorga da una ferita, è come il fiore, il frutto di una ferita, che si innalza come un albero da questa ferita. Ma la ferita non fa più male, la sofferenza è dimenticata da tempo, origine è passata, è la bocca di ieri della odierna sorgente. Ciò che qui viene versato non è più il dolore che soffre, è il dolore che ha sofferto. Non più l’amore che si offre, è l’amore già offerto. Solo la ferita c’è ancora: spalancata, la grande porta aperta, il caos, il nulla, da cui la sorgente affiora. Mai più sarà chiusa questa porta.

Allo stesso modo che la prima creazione non è zampillata sempre nuova che dal nulla, così questa creazione nuova, seconda, ancora non partorita, nuovo mondo colto nel suo sorgere primo, non deriva se non dalla ferita che più non si chiude. Ogni altra forma dovrà in futuro emergere da questo vuoto abissale, ogni salute dovrà trarre la sua forza da questa lancia che ferisce. O porta di vittoria della vita che ti innalzi come un grande arco! Schiere di grazie marciano corazzate di oro, escono da te con lance di fuoco. Coppa fontale della vita scavata sul fondo! Onda su onda scorrono da te inarrestabili, per sempre, onda di acqua e di sangue, a battezzare cuori pagani, dissetando definitivamente seti spasimanti di anime, avvolgendo i deserti del peccato, arricchendo oltre misura, stracolmando ogni capacità di recezione, bastando e avanzando per ogni desiderio.

 

Hans Urs Von Balthasar

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