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Io, missionario con l'Aids

Medico missionario, padre Aldo si è infettato curando altri malati. E ha fatto della sua malattia un'occasione di testimonianza cristiana e di riscatto per altri sieropositivi


Io, missionario con l’Aids

da Teologo Borèl

del 26 luglio 2006

Padre Aldo Marchesini, 65 anni, missionario dehoniano, la sua malattia non l’ha mai nascosta. Anzi, della fatica di accettarla, di conviverci e di farne un segno di speranza per molti africani ne ha fatta una ragione di vita.

Vita contro la morte. Perché è ancora questo che significa l’Aids in Africa per milioni di persone che ne sono infette. Compreso padre Aldo. Che, medico missionario a Quelimane, in Mozambico, dal 1974, si è ammalato curando altri malati.

Da anni, porta la sua testimonianza coraggiosa di lotta per la sua vita e per quella degli altri, ovunque glielo chiedano. Anche al convegno che il Pime, insieme all’ufficio missionario della diocesi di Milano, a Caritas ambrosiana e all’associazione Salute Africa, hanno organizzato lo scorso maggio nel capoluogo lombardo. Una testimonianza che ha lasciato un segno profondo.

Padre Aldo, quando ha scoperto di essere sieropositivo?

La mia attività di medico mi metteva spesso in contatto con malati sieropositivi, che progressivamente si aggravavano fino a morire. Era veramente uno strazio. In ospedale io ero il più anziano e i colleghi spesso chiedevano che fossi io a dare la notizia al paziente o alla sua famiglia. Far conoscere agli interessati questa verità era un compito molto ingrato. Era il tempo in cui Aids era l’equivalente di morte inevitabile ed essere sieropositivo era un marchio che cambiava totalmente la vita sociale delle persone.

A un certo punto, cominciai a notare che non riuscivo più a sopportare il caldo torrido, avevo diarrea e una febbre strana. Cominciai a tossire. Pensavo che fosse la stanchezza. Rientrato in Italia  feci degli esami. Quando andai a ritirare i risultati, mi dissero che avevo nel sangue gli anticorpi di molti virus, ma riguardo all’Hiv, dovevano ripetere il test. Il giorno seguente, trovai il mio collega con un foglio in mano. Invece di darmi la risposta a voce, mi invitò a leggerla insieme. Diceva: «La ricerca degli anticorpi è risultata positiva per l’Hiv 1 p24 e gp41».

Che cosa ha provato in quel momento? Qual è stata la sua reazione?

Siamo rimasti in silenzio. Ricordo che non ho provato nessuna emozione particolare e tanto meno sconforto. Ancora adesso non so rendermene conto. Molte volte avevo comunicato la stessa notizia ai miei pazienti e a quelli dei miei colleghi e sapevo come fosse ingrata per me e dolorosa per l’interessato. A volte m’era capitato d’immaginare d’essere io nelle vesti del paziente. Avevo sempre scacciato il pensiero con una certa angoscia, tranquillizzandomi che non ero malato e che quelle erano fantasie mentali. Rimasi a guardare il foglio per un attimo, in silenzio. Che fossi io il paziente adesso era la verità. Tuttavia l’angoscia che accompagnava le mie fantasie mentali non c’era. Nel passaggio dalla fantasia alla realtà, l’angoscia era svanita. Al suo posto stava nascendo un sentimento nuovo, un’impressione radicale d’essere diventato differente. Avevo la sensazione che il vagone su cui mi trovavo avesse imboccato uno scambio nascosto e che ora viaggiassi su un binario parallelo a quello su cui continuava a correre il treno della vita.

A quel punto, che cosa ha fatto?

Mi sono sottoposto a tutte le indagini che hanno portato alla conclusione che la malattia era già arrivata al punto in cui era opportuno cominciare la terapia con gli antiretrovirali. Per me non c’erano difficoltà. Come cittadino italiano avevo accesso gratuito all’assistenza medica e medicamentosa. Era necessario trattenermi un mese per controllare eventuali effetti secondari della terapia. E intanto pensavo a come e quando poter ritornare a Quelimane.

Non ha mai pensato di fermarsi in Italia per potersi curare adeguatamente?

Al contrario. Mi chiedevo come tornare a vivere in mezzo ai miei colleghi e ai miei pazienti sieropositivi, unico malato di Aids con diritto alla terapia e alla vita. Era necessario fare tutto il possibile perché anche gli altri potessero avere la mia stessa speranza di vivere. Avevo sentito che pochi mesi prima la Comunità di Sant’Egidio aveva iniziato un day hospital nella capitale Maputo, dove aveva avviato un programma di terapia gratuita per i malati di Aids. Mi recai a Roma per parlare con i responsabili del progetto e verificare se fosse possibile aprire una succursale a Quelimane. Mi diedero buone speranze e dunque, appena tornato in Mozambico, cominciai i contatti necessari con le autorità sanitarie locali.

Quali furono le risposte?

Molto positive. E, infatti, sei mesi dopo il mio rientro, il primo day hospital di Quelimane aprì le porte e io cessai di essere l’unico dei miei concittadini malati con diritto alla vita. In seguito, grandi aiuti internazionali cominciarono ad essere messi a disposizione di vari Paesi africani e iniziò a diffondersi la terapia antiretrovirale. Intanto, in India e in Brasile avevano cominciato a produrre questi farmaci in formula generica. Sul mercato c’erano ormai medicine a un prezzo accessibile.

L’Aids però non è una malattia come le altre. Sul malato persiste ancora oggi un marchio di vergogna e di maledizione…

E infatti restava un’altra grande lotta da fare. Quella contro lo stigma. La paura dell’ostracismo bloccava ancora la maggioranza delle persone dall’affrontare il test e dal dichiararsi apertamente sieropositive. Per questo pensai che la mia vicenda personale di sieropositivo in terapia antiretrovirale potesse essere utile per dare coraggio a molte persone, o perlomeno potesse servire per rompere la spirale di silenzio e di fuga dalla realtà. A Quelimane tutti mi conoscono e c’era una grande curiosità di sapere la causa della misteriosa malattia che mi aveva trattenuto in Italia per quasi sei mesi. Decisi così di fare due riunioni: una con tutti i lavoratori dell’ospedale  e una coi cristiani della mia parrocchia. La partecipazione fu numerosissima. Spiegai che mi ero scoperto malato di Aids e che mi ero infettato operando o assistendo le donne nel parto e che stavo facendo la terapia ed essa cominciava a farmi sentire meglio e mi consentiva di lavorare. Approfittai per insegnare alcune cose fondamentali relative al virus Hiv e alla malattia, come essa si  trasmette, come si presenta, quali sono i danni che provoca nell’organismo e per quale motivo, se non trattata, porta il paziente a morire in un tempo relativamente breve. Annunciai che la terapia sarebbe stata disponibile gratuitamente e che non bisognava aver paura di fare il test, perché quello era l’unico mezzo per sapere in tempo la verità su se stessi e poter cominciare il trattamento.

Quale è stata la reazione della gente?

Queste due conferenze hanno mosso le acque. Dopo sono stati numerosi quelli che si sono sottoposti al test. Molti si sono scoperti sieropositivi e hanno cominciato la terapia. Ora a Quelimane le persone in trattamento sono quasi un migliaio e molti di loro, già sfiniti dalla malattia, si sono ripresi, hanno recuperato le forze, il peso, la speranza e, quello che più conta, la voglia di vivere. Loro stessi, con la loro silenziosa ma visibile  testimonianza, fanno la migliore propaganda per vincere la vergogna e l’isolamento.

La situazione in Mozambico, tuttavia, resta drammatica e la maggior parte delle persone malate di Aids non ha accesso al trattamento antiretrovirale…

In questo Paese i sieropositivi sono ufficialmente il 16 per cento della popolazione. Quindi su 18 milioni di abitanti, sono circa 2 milioni e 800 mila. Verosimilmente circa un quarto avrebbe già bisogno dei farmaci antiretrovirali, ovvero 720 mila sieropositivi. All’inizio di quest’anno, in occasione di un simposio sulla situazione dell’Aids nel Paese, il Primo Ministro ha annunciato che l’obiettivo del ministero della Salute è quello di mettere 40 mila malati in trattamento prima della fine del 2006. Ciò significa che 680 mila resteranno in balìa del virus e un buon numero di loro finirà per morire di Aids.

Visto che la cura resta ancora oggi un privilegio per pochi, che cosa fare per arginare i contagi?

Nonostante tutto l’impegno per l’educazione sessuale e la prevenzione, la percentuale degli infettati continua ad aumentare. Il fatto è che la via principale di trasmissione è quella sessuale e una diminuzione dei casi può avvenire solo se si riuscirà a promuovere un cambiamento dei comportamenti sessuali, specialmente nei giovani. In altre parole, è necessaria una conversione del cuore. Per ottenerla non bastano gli sforzi umani, la pubblicità e i cartelloni per le strade. Io sono un  missionario e nei miei lunghi anni di sacerdozio posso ben testimoniare che la conversione avviene solo con la grazia di Dio, come sta scritto in Ezechiele: «Io vi darò un cuore nuovo». Il cuore nuovo è solo Dio che ce lo dà. Bisogna che la Chiesa e i credenti di tutte le religioni si impegnino in prima persona per ottenere con la preghiera, la carità e l’educazione questo dono dal buon Dio.

Lei è medico, ma come lei stesso sottolinea, anche sacerdote e missionario. Come si è trovato a vivere questa esperienza della malattia? Come ne è stato interpellato dal punto di vista della vita spirituale e di fede?

Quando ricevetti la notizia di essere sieropositivo comincia una profonda riflessione sulla morte. Prima di allora la morte era una realtà che si riferiva agli altri, ora invece l’interessato diretto ero io. Il suo pensiero mi accompagnava come un dato di fatto che faceva parte della mia identità. Non importava quanto tempo mi separasse dal suo abbraccio, la verità era che il mio vagone viaggiava verso il suo capolinea. Una prima conseguenza fu quella di cogliere il senso di profonda umiliazione che il morire porta con sé. Si tratta di abbandonare ogni privilegio o eccezione. I miei malati, che mi morivano, non erano più «loro» a morire, ma in un certo senso ero io. Era come se mi fosse concesso di farne la prova in prima persona. Morire fa sperimentare di non avere più nessun potere e di non valere più nulla. Tutto ciò lo sentivo come profondamente umiliante.

Un’umiliazione che dovevo accettare. Di fatto l’accettai, e a partire da lì mi si aprirono le porte di una libertà di spirito che non avevo mai conosciuto prima d’allora.

Una seconda conseguenza fu scoprire che avevo vissuto una vita enormemente lunga: mi accorgevo che in pratica ero vivo come se lo fossi da sempre. Ciò mi riempì di gioia e mi diede un senso di sazietà, mi faceva sentire «pieno di giorni». La sensazione di aver terminato la traversata e di essere ormai in porto, mi dava tranquillità, ma ben presto mi accorsi che mi ostacolava ad intraprendere nuove iniziative e nuovi impegni. Dava origine al pericolo di non lasciarmi coinvolgere più da nulla e di essere vinto dalla tentazione di aspettare dormendo il ritorno dello sposo.

Eppure lei ha tutt’altro che un’aria rassegnata...

E infatti, mi trovavo in queste riflessioni, quando mi imbattei, nel mio ministero sacerdotale, in una frase della lettera di san Paolo ai Romani: «In effetti, nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso. Se viviamo è per il Signore che viviamo; e se moriamo, è per il Signore che moriamo. […] Infatti fu per questo che Cristo morì e tornò alla vita: per essere il Signore tanto dei morti come dei vivi».

La dualità di morte e di vita cessava, in fondo, di esistere. La dualità infatti esiste finché io vivo per me stesso o muoio per me stesso, ma se vivo per il Signore e se muoio per il Signore, la dualità cessa: sia che viva sia che muoia è al Signore che appartengo. Appartenere al Signore, questa diventa l’unica vera realtà.

Da essa nasce quella pace, che permette di essere felici di vivere così come di essere felici di morire. Felice di vivere perché vivo per il Signore, felice di morire perché muoio per il Signore. Penso che non ci sia libertà interiore più grande, libertà di tale grandezza che, per potercela conquistare, è stato necessario che Gesù morisse e risuscitasse.  

Anna Pozzi

http://www.pimemilano.com

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