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Il messaggio cristiano sulla vita oggi. Il contesto antropologico e culturale.

Oggi non ci chiediamo più “perché vivere?”, ma “vivere: perché?”. E' questo il nodo di un trapasso di civiltà. La sfumatura che separa le due domande è tutta qui: non c‚Äòè più il fine! E' svanita la cultura dei fini! L'antropologia dei fini ha lasciato il campo di battaglia della vita in mano all'insostenibile leggerezza del vuoto di prospettive sostanziose.


Il messaggio cristiano sulla vita oggi. Il contesto antropologico e culturale.

da Quaderni Cannibali

del 27 ottobre 2006

Premessa

 

La centralità, la crucialità e decisività del messaggio cristiano sulla vita, si rivela oggi in tutta la sua originalità e potenzialità dirompenti. E’ senza dubbio un modo sapiente di andare al cuore degli uomini e delle donne del tempo che stiamo vivendo. Offrire il genuino e radicale annuncio cristiano sulla vita si mostra effettivamente come un servizio privilegiato e contro corrente che va direttamente al centro delle inquietudini, delle contraddizioni e del groviglio di desideri e aspirazioni che ci abitano.

A volte, proprio nelle comunità ecclesiali si ricorre ad una quantità di parole per eludere veramente e concretamente che oggi la madre di tutte le questioni è quella del vivere, che la vita non è più in sé un’evidenza assiologica, che forse la vita non è più una “potenza etica”.

Oggi non ci chiediamo più “perché vivere?”, ma “vivere: perché?”. E’ questo il nodo di un trapasso di civiltà. La sfumatura che separa le due domande è tutta qui: non c‘è più il fine! E’ svanita la cultura dei fini! L’antropologia dei fini ha lasciato il campo di battaglia della vita in mano all’insostenibile leggerezza del vuoto di prospettive sostanziose. I fini sono stati eliminati fingendo di realizzarli. A breve termine. Con l’apparato di un’organizzazione della vita soffocato dalla disponibilità delle cose e delle emozioni.

Rimettere al centro l’annuncio cristiano sulla vita, annuncio integrale e radicale, di una vita buona ben spesa e ben vissuta, deve vederci attenti tuttavia da una parte a sbioeticizzare la vita e dall’altra ad uscire dal moralismo immediato e dalle sue diverse versioni. Che le questioni bioetiche e biopolitiche siano oggi al centro del dibattito, è un’evidenza giustificata dalla pressione che le nuove disponibilità tecniche attuano quasi quotidianamente verso le dimensioni del vivere. Tuttavia tali pressioni e questioni stanno provocando un effetto di saturazione che finisce per distogliere la ricerca intorno al senso integrale e ultimo della vita stessa. In ultima analisi, finiscono per paralizzare invece di smuovere il dinamismo antropologico dei fini. L’urgenza di circoscrivere risposte alle interrogazioni bioetiche, paradossalmente paralizza il quadro integrale del senso del vivere. E’ un effetto imprevisto eppure operativo.

Dobbiamo dunque recuperare un quadro antropologico e culturale, un approccio esistenziale che solo può aiutarci  ad approssimarci al senso del vivere per via di pazienti mediazioni. D’altra parte lo stesso annuncio cristiano sulla vita reclama mediazioni antropologiche, perché “il Verbo si è fatto carne”, così che con Teofilo di Antiochia possiamo dire: “Mostrami la tua umanità e io ti dirò chi è il tuo Dio”. Questo passaggio oggi è decisivo. Il card. Daneels in una sua lettera pastorale scriveva: “Può darsi che non abbiano tutti i torti quelli che accusano i cristiani di oggi di una mancanza di esperienza vissuta, quelli che li accusano di incessanti esortazioni morali… Sì, negli ultimi anni il cristianesimo è stato ridotto a un sistema etico e molti sono stanchi di questo moralismo ostinato”. Ed una chiesa che si presenti come “semplice custode dell’etica” (A. Dupront) è una chiesa obbligata alla secolarizzazione, una chiesa che ha smarrito le sue parole più proprie (come sono in effetti quelle sulla vita e sul vivere) e che si rivela incapace di dare risposte alla “domanda di senso” che emerge dall’odierna profonda crisi spirituale, ha notato Enzo Bianchi.

 

 

Alcune acquisizioni analitiche

 

Possiamo prendere avvio da alcuni accenti che ormai hanno guadagnato in persuasività circa un impegno di comprensione della realtà in cui viviamo.

 

a)      L’esaurimento del nostro “capitale sociale” è un dato che si pone quotidianamente alla nostra attenzione. Vale a dire che il nostro vivere, e il nostro trasmettere il senso del vivere, è oggi segnato dal consumarsi di quella riserva di senso intorno alle cose importanti di una comunità di vita. Il “capitale sociale” ha a che fare con un quadro di riferimenti (valori, pratiche, forme del vivere personale e comunitario, norme non scritte, intuizioni di senso…), ancorché non detti, che sono fortemente operanti nelle pratiche e nelle forme di vita di una comunità. E’ lo spazio del mondo della vita che regge e articola il vivere come un senso intuito per via di messa in opera, vista e respirata dalle persone, più che frutto di un’elaborazione concettuale. La trasmissione per forme di vita costruisce quel capitale sociale che poi alimenta e sostiene la ricerca di una vita e una vita di ricerca. L’esaurimento del capitale sociale della nostra comunità, come quella nordestina, è il cuore della congiuntura storica in cui ci troviamo. Ancora troppo poco tematizzato e indagato. Ci siamo consumati questo capitale sociale che pure sta all’origine dei nostri processi di benessere e di arricchimento. Il nostro nordest non avrebbe potuto diventare quello che è diventato senza questo capitale di valori e forme di vita (famiglia, lavoro, comunità-paese, religiosità, rete di legami…). Ma proprio quello che è diventata la nostra terra, si è via via divorato il patrimonio del capitale sociale che lo ha reso possibile!  E’ un fatto comunque che tale esaurimento ci sta rendendo tutti spettatori e collezionatori di esperienze, di emozioni, di sensazioni e sempre meno attori della vita.

 

b)      La liquefazione dei processi di maturazione è la seconda acquisizione. Il diventare adulti si è liquefatto. Non sembra più nemmeno un esito inseguito. Diventare adulti non sembra stare in cima alle progettualità personali. La questione di fondo è l’organizzazione di una vita in cui il “principio di realtà” è messo sul banco degli imputati. Da qui la crisi dell’adulto. La comprensione della “adultità”, della maturità, comporta in sintesi la capacità di stare di fronte alla realtà, nelle buone e cattive situazioni. L’essere adulto è dato prevalentemente dalla capacità di instaurare una relazione con il reale basata sulla responsabilità. Né subire né fuggire o rimuovere la realtà. E’ questa la sfida, detta proprio in briciole, iscritta nella identità dell’adulto. Ora, come ha osservato Bauman, il disagio esistenziale della nostra epoca è generato dal fatto che predomina “una ricerca del piacere talmente disinibita che è impossibile conciliarla con quel minimo di sicurezza che l’individuo libero tenderebbe a richiedere”. Così “l’insonnia e gli incubi disturbano le notti di chi persegue la libertà”. La vittima è prima di tutto proprio la ricerca di una vita buona e felice. Il principio del piacere così sciolto ed esasperato, comporta di fatto che la persona non riesce più a strutturarsi, grazie anche al misurarsi con la realtà. Per questo la vita diventa liquida e apatica per eccesso di stordimento.

 

c)      L’orizzonte entro cui s’iscrive la vita è ormai quello della flessibilità. Non si tratta solo di un dato economico ma di uno “spirito del tempo” che tocca la stessa struttura antropologica. E’ un dato strutturale che influenza enormemente le inclinazioni delle persone. La vita non è più il racconto di una vocazione ma un essere sospesi e sulla porta… aspettando Godot. La flessibilità mi dice che io non devo assumere niente come definitivo nella mia vita. La precarietà mi dice che io non devo mettere radici in nessuna storia vocazionale. Come ha notato Richard Sennett il tempo lungo e narrativo, che scorre lungo canali vocazionali, è oggi diventato un handicap, perché l’organizzazione socio-economica chiede flessibilità, abilità di mutare in tempo reale. Questa logica dove tutto è a breve termine “minaccia di corrodere il carattere, e in particolare quei tratti del carattere che legano gli esseri umani tra di loro e li dotano di una personalità sostenibile”, conclude Sennett.

 

d)      Infine è con il deperimento del senso che la vita deve oggi misurarsi. È sintomatico che tra i maggiori pensatori di fine novecento, le metafore del pesce nella rete, della mosca nella bottiglia, dell’uomo nel labirinto, dell’individuo sospeso nel trapezio, siano state assunte come metafore del senso deperito della vita alla fine di questa nostra epoca. Il messaggio recondito di tali metafore è che la mia vita non riflette più nulla di vero. E’ troppo la verità per la nostra vita intrappolata, persa nel labirinto, catturata in una rete e chiusa in una bottiglia. Il nostro problema sarebbe prima di tutto riuscire a vivere, rimettere in unità la nostra vita ridotta a pezzi, senza trama, sena rete… una vita ridotta a pezzi, e non solo in senso figurato, è il nostro primo problema esistenziale.

 

 

Tentativo di compiere un affondo critico

 

Forse dobbiamo riprendere in mano il sottotitolo di un’opera del filosofo T. W. Adorno: Meditazioni sulla vita offesa. Prima di ogni nostro discorso sulla vita oggi, dobbiamo leggere le nuove forme della vita offesa oggi. Lo spreco delle vite, le vite sprecate, sono oggi la cifra enigmatica e paradossale della trama esistenziale nella nostra società. Quante parole sull’inizio e sulla fine della vita diciamo e sentiamo, ma con un pesante silenzio e forse anche incapacità di dire qualcosa di vero, su quello che sta in mezzo. Ed è tanto!

Siamo sinceri. Spietatamente sinceri. Sotto tanti principi enunciati e fatti valere, chiediamoci se la vita è veramente un valore oggi… Non in senso teorico, enunciativo, ma reale e concreto. Qual è la struttura entro cui viviamo? E’ una struttura organizzativa incentrata sul principio di produzione e di prestazione. La vita vale se è produttiva e se offre prestazioni, per cui della vita vera in fondo non ne è più nulla. Il nostro è un sistema mortifero. Bisogna aggredire le forme sociali, l’organizzazione strutturale, i rapporti sociali e le forme pratiche del vivere, se vogliamo ridare cittadinanza al senso della vita. Con Rimbaud siamo costretti a dire, “Che vita! La vera vita è assente”. La vera questione è “pratica”, prima di tutto.

Dobbiamo forse fare un elogio della “vita spericolata” di Vasco Rossi? Forse… Perché in giro non si comunica più né si trasmette passione per la vita! Almeno nella vita spericolata di Vasco c’era passione, perfino trasgressione… Oggi che la vita è diventata liquida non ci sono più neanche confini da trasgredire. E le trasgressioni sono depassionate e dissipatrici. Il “clima educativo” trasmette e contagia passione per la vita?

 

 

Proposte indicative per dare vita alla vita

 

Due operazioni sono prima di tutto necessarie. Anzitutto ricostruire il capitale sociale della nostra comunità di vita. Ricostruire il mondo della vita fatto di pratiche affettive, di legami improntati alla semplice gratuità, di significati universali che passano per via di forme di vita famigliare, educative e organizzative del tempo e delle tappe della vita. Ricostruire il capitale sociale significa ricostruire l’orizzonte entro cui possono apparire le questioni importanti circa il nascere e il morire, il senso del limite e della nostra fragilità in cerca di fini.

In secondo luogo riscoprire e riformulare orizzonti che trascendono l’io. “L’uomo che cerca un senso nella vita tentando di definire se stesso in una maniera significativa deve necessariamente muoversi entro un orizzonte di questioni importanti”. Da qui “l’impossibilità di fare a meno di qualche questione che trascenda l’io”, ha sottolineato il filosofo Charles Taylor, il quale rafforza questa argomentazione affermando che “soltanto se esisto in un mondo in cui la storia, o le esigenze della natura, o le necessità dei miei simili, o i doveri della cittadinanza, o l’appello di Dio, o qualcos’altro di questo genere ha un’importanza essenziale, posso definire un’identità per me che non sia banale. L’autenticità non è il nemico delle istanze che provengono dall’esterno dell’io; essa anzi le presuppone” (cfr. C. TAYLOR, Il disagio della modernità, Laterza, pp.48-49).

 

Inoltre vi sono quattro piste concrete di lavoro.

 

Prima di tutto bisogna rimettere insieme i pezzi, per poi accompagnare il passaggio dalla collezione alla vocazione. Scoprire e spendersi è l’itinerario. Scoprire il proprio “primo ed unico” e poi spendersi per questo. “Ciascuno è tenuto a sviluppare e dar corpo proprio a questa unicità e irripetibilità, non invece a rifare ancora una volta ciò che un altro –fosse la persona più grande- ha già realizzato”, ha scritto Martin Buber. Ognuno ha una sua via e, sceltala, deve perseguirla con risolutezza, abbandonando la concezione della vita come accumulo di esperienze diverse (E. Bianchi).

 

In secondo luogo bisogna “riabilitare il principio di realtà”. “Vivere, ha scritto A. Camus, naturalmente non è mai facile”. Senza la capacità di misurarsi con lo spessore faticoso, drammatico, di lotta che attraversa la vita, non si dischiude verità per la vita. Occorre uscire dalla visione dominante che oggi è data dalla cultura terapeutica nel modo di avvicinare l’esistenza. Nella cultura terapeutica tutto quello che è fatica, dramma, lotta, frustrazione… deve essere tolto di mezzo e tutto deve essere ammorbidito e giustificato, riportato al “sentire” oggettivo. In un certo senso occorre rivoluzionare il processo educativo odierno tutto impegnato a rimuovere il principio di realtà. Per iniziare ad una vita vissuta veramente in prima persona, e non per mezzo di altri.

 

Occorre poi mostrare vite alternative. Fatte di passione per spendere veramente la propria vita! Creare, sperimentare forme altre e socializzarle. Non vite passionali (basate sull’emotivismo e la collezione di sensazioni) ma vite appassionate. Mostrare che si può cambiare e vivere diversamente la vita.

 

Cristiani: la vita è bella, affermava Enzo Bianchi qualche tempo fa. Sì, perché troppo spesso dagli ambienti cattolici esce un cristianesimo de-vitalizzato e che non affascina più. Perché forse le nostre vite sono attanagliate nella mediocrità. Quella mediocrità che G. Dossetti riteneva essere la figura contemporanea della presenza di satana perfino… nella chiesa. La questione è di annunciare il Dio cristiano che è il Dio della vita.   

Lorenzo Biagi

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