Perché è importante che il Papa, parlando di Dio come amore, proponga il confronto con Dante? La risposta risiede nel motivo che caratterizza la differenza tra pensiero filosofico e poetico: è infatti compito della poesia 'sentire' la verità più che 'pensarla' o 'dimostrarla', e perciò muovere verso l'inesauribile ricerca di un senso esprimibile...
del 05 febbraio 2006
ABBIAMO TREMATO INSIEME AD ABRAMO
 
Papa Benedetto XVI ha proposto, come chiave di lettura della sua prima enciclica, il tentativo «di esprimere per il nostro tempo e per la nostra esistenza qualcosa di quello che Dante nella sua visione ha ricapitolato in modo audace». Il XXXIII canto del Paradiso non smette dunque di colpire gli spiriti più autentici del nostro tempo. Il poeta fiorentino, la cui Monarchia era stata inserita nell'index librorum prohibitorum e che nell'XI epistola scriveva ai cardinali riuniti in conclave, per chiedere di resistere alla pressione del re di Francia nell'eleggere il successore di Clemente V, ricevendone poca considerazione, ha trovato il suo riscatto.
Perché è importante che il Papa, parlando di Dio come amore, proponga il confronto con Dante? La risposta risiede nel motivo che caratterizza la differenza tra pensiero filosofico e poetico: è infatti compito della poesia 'sentire' la verità più che 'pensarla' o 'dimostrarla', e perciò muovere verso l'inesauribile ricerca di un senso esprimibile, o già espresso, ma che, proprio perché 'senso', sia in qualche modo ancora presente e vivibile, «novità che rimane novità», come scrive Ezra Pound. Riaccostandosi a Dante, alla sua poesia, alla sua visione di Dio, perciò, papa Benedetto XVI ha inteso richiamare una verità e un'idea non solo pensate, ma percepite: perché la nostra «reazione nei confronti della vita sarà diversa - come ha scritto Flannery O'Connor - se ci hanno inculcato soltanto una definizione della fede o se abbiamo tremato insieme ad Abramo che levava il coltello su Isacco». La grande poesia di Dante fa vedere e sentire più di quanto saremmo riusciti a capire solo con la perfetta filosofia di San Tommaso o, assai peggio, con l'astrazione della nostra mente modernamente cartesiana. E il linguaggio, rispetto a questo, non mente: parla in un certo modo chi fa esperienza in quel modo.
 
 
 
PENSARE NEL SOLO MODO TOTALE
 
Ma non ci hanno insegnato che la poesia è fantasia, che parla di cose false? È questo l'argomento capzioso degli storicisti, per i quali la poesia esprimerebbe la visione infantile del mondo, da superare con gli argomenti seri della filosofia; o degli esteti, per cui essa sarebbe il fantasma di un'esile bellezza sognata e unica; o dei deboli pensatori e nichilisti, per i quali la poesia consisterebbe in una tra le tante elucubrazioni emerse casualmente nel gran gioco dell'apparenza. Per tutti costoro la poesia è comunque immaginazione, fantasia, falsità, perciò destinata a morire, in questo perfettamente accomunabile alla religione. Ma né l'una né l'altra sono morte, nonostante le profezie dei filosofi di inizio Ottocento sull'imminente morte dell'arte e di quelli d'inizio Novecento sulla sicura morte di Dio. E, come volevasi dimostrare, dopo anni di vergogna e incomprensione, al primo cedimento della modernità, l'alleanza tra poesia e altare è riemersa. Già c'era stato in questi anni il pontificato poetico e teatrale di Giovanni Paolo II. Ed ora ci si mette anche papa Benedetto XVI. E invece, chiediamoci: chi, oggi, dice cose false? È il razionalista, l'uomo per cui il pensiero era tutto, che non pensa ormai più che il nulla, mentre, al contrario, la poesia non smette di «pensare nel solo modo totale», come scrive Les Murray. Perché la realtà è ostinata, e l'uomo desidera ancora sentire le cose, vederle nella totalità, ordinarle, amarle, farle sue e capirle. Alla follia del celebre motto di Friedrich Nietzsche - «temo che non ci sbarazzeremo di Dio perché crediamo ancora nella grammatica» - si oppone l'insistenza degli uomini, che continuano ad amare linguaggio e definizioni, grammatica e verità, poesia e Dio. Notevole, in tal senso, è l'attenzione che sin dall'inizio dell'enciclica, il Papa rivolge al 'linguaggio' e alle sue precisazioni. E se colpisce tutti la semplicità del linguaggio usato da Benedetto XVI, è perché la sua naturalezza sorge dall'esperienza.
 
 
 
OSTINATA REALTA'
 
Ha scritto Boris Pasternak: «La grande, la vera arte è quella che si chiama la Rivelazione di Giovanni e quella che in qualche modo la continua». Per alcuni liberi pensatori questa è solo la restaurazione di un pensiero antico, comunque superato e da superare, per altri una patetica suggestione sentimentale, per molti un modo di dire tra i tanti e l'unione di due falsità. Per eliminare dunque la moltitudine di coloro che credono nella Rivelazione di Giovanni, che scrivono, che amano l'arte, e potremmo dire anche che usano la grammatica, una soluzione in effetti ci sarebbe, come ha scritto ironicamente Thomas Stearns Eliot a riguardo della mole di persone che scrive poesie: quella di ucciderli tutti. La grande poesia ha a che fare con l'ostinazione della realtà a non essere interamente esiliata nei confini del cervello di un soggetto oggi nemmeno più pensante.
 
* Rettore del Collegio Guastalla di Monza
Francesco Valenti
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