Oggi i ragazzi hanno ancora bisogno di essere educati; il processo formativo non è mai stato solo una trasmissione di contenuti. Il processo educativo non si è trasformato solo perché i ragazzi, oggi, hanno altre fonti a cui attingere contenuti. Badate bene, non facciamoci ingannare dall'immagine che i mezzi di comunicazione danno di se stessi...
del 17 luglio 2007
 
Io partirò in questa riflessione, proprio da quella che ritengo un’illusione prospettica fortemente dominante nelle società avanzate contemporanee. La caratteristica fondante delle società contemporanee sembra consistere nella capacità dei media di farsi mediatori unici fra il soggetto e la realtà da un lato e fra il soggetto e gli altri soggetti dall’altro.
Ci sono moltissimi autori che hanno costruito teorie della società mediata. Ve ne cito uno, Thompson, il cui testo è stato pubblicato a metà degli anni novanta e che molti miei colleghi citano come fondamentale (per molti aspetti è vero). Tuttavia, questa idea che i media intercettino la nostra relazione con la realtà e con gli altri, sia la caratteristica dominante nella nostra società non è del tutto condivisibile. Noi vivremmo, secondo questo autore, in una società interamente mediata. Con quali conseguenze?
Vorrei esporvi molto brevemente alcune conseguenze generali e poi descrivere in sequenza aspetti che ci interessano più da vicino. Le prime conseguenze di una società completamente mediatizzata sarebbero un’alterazione della nostra percezione dello spazio e del tempo. Per esempio, in questa era mediatica, noi non percepiamo più le distanze allo stesso modo: l’11 settembre accade là, oltre l’oceano, ma accade anche nelle nostre case; ci colpisce con particolare violenza proprio perché accade qui e ora nelle nostre case. Lo stesso vale per il concetto di tempo, la temporalità. Esiste una sorta di flusso temporale: cui 24 ore su 24 noi siamo in rete con il mondo; non c’è più distinzione non solo tra il giorno e la notte ma è neppure tra il tempo pubblico e quello tempo privato per esempio.
Queste affermazioni sono importanti. Ci aiutano a riflettere su alterazioni significative delle nostre percezioni e sulle conseguenze che questo fenomeno ha sulla lettura della relazione interpersonale e della relazione con il mondo, in particolare riguarda la nostra capacità di agire nel mondo. C’è un libro dal titolo «Lo spettacolo del dolore» (Boltanski Luc, Lo spettacolo del dolore. Morale umanitaria, media e politica, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2000) di cui vorrei leggervi tre righe. Parla di cosa succede alla solidarietà nel momento in cui questa solidarietà è remota, rivolta a qualcuno che non vediamo. Scrive Boltanski: «spostare interamente la capacità d’azione sugli attori del movimento umanitario non equivale forse ad attribuire agli spettatori un ruolo puramente passivo? Ma se gli spettatori sono passivi, le critiche di coloro che si indignano per la mediatizzazione dell’umanitarismo non sono giustificate? Se tale orientamento è illusorio, non diventa forse una tendenza verso il consumo illecito di spettacoli strazianti destinati come le rappresentazioni di fiction a suscitare emozioni conturbanti e intime?». Non è che a forza di vedere il dolore rappresentato in televisione cominciamo a mescolare la fiction e la realtà?
E alla fine, siccome tutto si mescola, tutto diventa indifferente rispetto al nostro desiderio e all’impellenza del nostro desiderio di agire, di fare qualche cosa. Se tutto è lontano - perché ci sembra soltanto che sia vicino - e non possiamo fare nulla, - possiamo al più sottoscrivere il conto corrente segnato in basso sullo schermo – allora alla fine siamo frustrati nel nostro desiderio di fare e ci abbandoniamo alla fatalità delle cose, degli eventi.
Quando queste tesi vengono enunciate, è inutile nascondercelo - esercitano su di noi un terribile fascino perché sentiamo che c’è qualcosa di vero. Noi non siamo al riparo dalla vita, a dispetto dei mezzi di comunicazione di massa. Vorrei con un altro esempio far capire che questo scambio di prospettive avviene quotidianamente: i mezzi di comunicazione rappresentano il dolore degli altri e insieme te ne tengono lontano. Pensate alle immagini del telegiornale, agli incidenti, al terremoto, alle calamità naturali… Succede sempre qui, ma succede anche sempre altrove che gli altri soffrano.
L’interrogativo che voglio porre è questo: l’assistere al dolore ci mette al riparo dal nostro dolore? Che cosa succede quando noi soffriamo? Quando i nostri amici, i nostri genitori, i nostri fratelli, i nostri figli soffrono, si ammalano, si perdono, chiedono aiuto e noi non riusciamo a darglielo, cosa succede? Succede qualcosa di diverso da quello che succedeva prima, quando il dolore era rappresentato sullo schermo. L’impotenza che nella fruizione dei mezzi di comunicazione diventa rinuncia alle possibilità di intervento, si trasforma in rabbia.
Una volta, un po’ di tempo fa, un sacerdote in confessione mi ha detto: secondo me lei è arrabbiato con Dio, perché non vorrebbe le succedesse quello che le sta succedendo. E mi sono detto: forse ha ragione. Il sacerdote mi ha detto: glielo dica a Dio. Questo urlo è una preghiera e insieme è un modo di agire. Ed è vero. Quando si parla di qualcosa, che ci è vicino, allora tutta la macchina dei media non funziona più oppure il nostro rapporto con quello che succede in televisione, sui giornali, nel cinema diventa di altra natura. Noi continuiamo a trattare la rappresentazione dei mezzi di comunicazione come se potesse sostituire la vita ma non lo può fare. Questo è un dato assolutamente ovvio. Da lì bisogna partire.
La fruizione mediatica è una porzione dell’esperienza, ma non la sostituisce. Io capisco che ci possano essere, soprattutto per le persone più attente e più attive nel sociale, sensi di frustrazione per paradossi che i media generano. Vi do un esempio. Ci si potrebbe chiedere: come mai, nonostante tutti i mezzi e le opportunità di conoscenza, di memoria, di informazione che i mezzi di comunicazione hanno noi cerchiamo di rimuovere la storia? Possiamo dire che l’olocausto non c’è stato? Come è possibile che alcuni diano l’impressione di vivere negando la storia? Viene facile scaricare sui mezzi di comunicazione, sulla falsa immagine dei mezzi di comunicazione la causa di questi fenomeni, ma la causa di questo non va cercato nei media, ma va ricercata a partire dalle relazioni familiari. La storia del nostro paese, delle nostre generazioni non è confluita nelle relazioni tra padri e figli, tra madre e figlia.
Prima di chiederci perché noi non ascoltiamo i nostri figli bisognerebbe ci chiedessimo perché non gli abbiamo parlato, perché non ci siamo raccontati… Noi ci siamo trasformati nelle nostre immagini di noi stessi prima che la fiction lo facesse. Prima che la famiglia del Mulino Bianco diventasse un emblema, noi abbiamo pensato di poter costruire la famiglia del Mulino Bianco: senza dolore, senza fatica. Vi ho detto, perciò è affascinante la tesi che afferma che “i media sostituiscono l’esperienza”, ma non è dimostrabile.
Torniamo a un’idea molto più semplice: i media sono una singola porzione dell’esperienza e per giunta là dove i media tentano di costruire l’esperienza globale, succede sempre “un incidente” che dimostra, la loro fragilità.
 
 
Quando irrompe la realtà…
 
C’è un film molto noto, che certamente avete visto: “Truman Show”. Ricordate la storia di questo protagonista che vive una vita sostanzialmente artificiale? I mezzi di comunicazione di massa, soprattutto la televisione, gli hanno costruito intorno, un mondo che vive in funzione sua così come lui vive in funzione degli spettatori televisivi a casa. Vi ricordate l’inizio di questo film? Comincia con un incidente: cade un faro. Cade sempre qualcosa nella nostra vita, che ci ricorda che la vita non è lontana, non è dietro uno schermo, non è oltre una pagina di giornale. Succede che gli emblemi della società occidentale vengano attaccati e distrutti - è successo questo l’11 settembre -, succede che un giorno ci svegliamo e ci accorgiamo che non va la radiosveglia… Poi veniamo a sapere che ci è mancata l’energia senza la quale tutto l’apparato di comunicazione non esiste, anche se si dichiara che non è possibile che accada. L’incidente ci svela la natura artificiale, surrogata, dei media. Succede sempre qualche cosa e se non succede nella vita sociale succede nella nostra vita privata.
 
 
Il mondo dei giovani modella la cultura
 
Questo modello di interpretazione diventa molto importante se si affronta la tematica dei giovani. I giovani sono sovente descritti come vittime e carnefici di questa società. Sono quelli più esposti ai mezzi di comunicazione, si dice, sono quelli che guardano di più la televisione… etc.
Si dice, ma non è vero (basta considerare che la TV dei giovani è in crisi, non ha ascolto in questa fascia…). Si dice che i ragazzi imparano velocissimi a usare i nuovi mezzi di comunicazione (internet, la telefonia mobile, la televisione satellitare, il wireless cioè tutte le apparecchiature senza fili con le quali ci si può muovere collegandosi in rete e così via); sarebbero, perciò quelli, che più subiscono il processo di mediatizzazione, quelli che più diventano le vittime di questo lavoro di mediazione e di costruzione di una falsa realtà.
Sono anni che io conduco ricerche sui giovani e non ho trovato nessun riscontro a questa affermazione, non ho mai trovato un argomento o un esempio che dimostri la mancanza di senso critico dei giovani nei confronti dei media. Forse dire spirito critico è troppo, ma posso dire che non ho mai trovato giovani senza un atteggiamento di disincanto, con un profondo disincanto verso l’universo dei mezzi di comunicazione. La mia generazione ha vissuto l’irrompere dei media (e della TV) con forte meraviglia; è una generazione che è cresciuta negli anni ottanta e ha visto esplodere la televisione a colori, ecc.
Ma, se guardiamo i giovani d’oggi, hanno un atteggiamento molto più laico nei confronti dei mezzi di comunicazione e soprattutto lavorano con quell’operazione che tecnicamente, nella teoria sociologica, si chiama della modellazione della tecnologia. I giovani adattano la tecnologia alle loro esigenze. Gli si dà il telefono cellulare perché i genitori si illudono di controllare i ragazzi (i genitori sono sorprendenti a volte nella loro beata ingenuità!), e, immediatamente, il telefono regalato ai ragazzi subisce una mutazione transgenica. La suoneria dei genitori non viene mai sentita… Essi prendono il cellulare -questo succede nella seconda metà degli anni novanta - e lo piegano, lo adattano, inventano strumenti di linguaggio, cominciano ad usare fortemente i short messages, i messaggini scritti, questi SMS; poi inventano la pratica degli squillino, cioè dello squillo che senza spendere un centesimo dice all’altro: «Ti sto pensando » oppure «Sto arrivando» ecc. Il mondo adulto è, di solito, escluso da queste pratiche.
Anche nei confronti di Internet i ragazzi hanno un uso assolutamente innovativo. Noi abbiamo fatto mille lamentazioni sull’isolamento provato da Internet, ma, per esempio, i gruppi giovanili che noi testiamo sono tutti gruppi giovanili che usano internet all’interno di gruppi già nati, già consolidati. Usano Internet perché costa meno, è più rapido e rimango in contatto con le persone che già conosco. La pratica di conoscere persone via Internet è degli adulti, non è dei giovani. Non è, quindi, vero che i giovani sono naturalmente vittime dei media e quindi carnefici della socialità. Se poi vogliamo analizzare il rapporto spinoso tra i mezzi di comunicazione sociale e la comunicazione familiare, ci si accorge che di lamentele ce ne sono tante. Per altro, io ho trovato un breve testo di Pio XII, scritto nel ’57, che dice che la televisione sarà un ottimo strumento per le famiglie perché invoglierà il padre di famiglia a stare in casa anziché uscire e andare al bar. Io vorrei che ci pensassimo bene prima di affermare che sia il mezzo a determinare le relazioni: piuttosto sono le relazioni a determinare l’uso del mezzo. Io mediterei su come le famiglie attuali abbiano imparato, lentamente, a negoziare nuovi spazi e nuove forme di relazione tra genitori e figli. Tra queste, in qualche modo, entra anche l’uso delle tecnologie.
Un indicatore è il cellulare. Io posso dire a mio figlio: «Puoi stare fuori di più, però mandami un messaggio se lo fai». Oggi le famiglie si trovano di fronte alla permanenza di figli-adulti con cui occorre un grande spirito di adattamento. Si allunga il tempo e bisogna dare prova di una relazione genitori-figli tra adulti, tra personalità ormai formate e anche in questo caso l’uso delle tecnologie è diverso…
 
 
Mezzi di comunicazione e relazione personale
 
Io penso che la maniera migliore per trattare i mezzi di comunicazione sia comportarsi come se i mezzi di comunicazione fossero un qualunque oggetto di arredamento della nostra vita. Le grandi esigenze della società e delle persone non sono così profondamente cambiate come noi ce le rappresentiamo: è cambiato il contesto di risposta alle esigenze.
Come studioso di comunicazione, propongo di riflettere sul fatto che più forte è l’azione dei media e più forte deve essere l’azione esterna ai mezzi di comunicazione. Oggi, in realtà, si esprime una richiesta di relazione continua. Proviamo a pensare la rete non più come un’infrastruttura tecnologica, ma come un luogo in cui si esprime un bisogno di relazione. Proviamo a ripensare l’utilizzo delle tecnologie nella formazione e nella formazione a distanza. Il vero problema non è quello tecnico, ma è come si può costituire la relazione educativa a distanza, questo è il nodo. Se io non risolvo questo nodo non risolvo il problema dell’aggiornamento tecnologico.
Allora, se riusciamo a essere un po’ più ottimisti sulla forza dell’ umanesimo radicale, forse riusciamo a modificare la società. Occorre credere che l’uomo riesca a creare novità; se il suo cuore non cambia, anche le sue necessità non cambiano così tanto. Dobbiamo smettere noi adulti di credere che i giovani sono più avanti di noi. I primi a crederci, qualche volta, sono gli educatori. Nelle scuole c’è questo crescente sconforto degli insegnanti che dicono: «Abbiamo la concorrenza della televisione, di internet… hanno tanti stimoli, come facciamo?».
Oggi i ragazzi hanno ancora bisogno di essere educati; il processo formativo non è mai stato solo una trasmissione di contenuti. Il processo educativo non si è trasformato solo perché i ragazzi, oggi, hanno altre fonti a cui attingere contenuti. Badate bene, non facciamoci ingannare dall’immagine che i mezzi di comunicazione danno di se stessi. Proprio oggi la tecnologia è percorsa da un brivido di insicurezza fondamentale. Le società avanzate sono attraversate, oggi, da dubbi sulla loro sicurezza, sono attraversate da dubbi sulla loro identità, da dubbi sul progresso. Gli incidenti che si sono moltiplicati dalla caduta del muro ad oggi, incidenti in senso generico, sono vissuti come contesto di sfondo. Allora, le risposte sono nell’antico strumento della relazione, che è in primo luogo la relazione interpersonale.
 
 
Conclusione
 
Non ho bisogno di ricordare a voi quella domanda che compare nel vangelo: «Chi credi che sia stato il prossimo di quella persona?». Un mio amico, una volta, mi ha fatto notare che le persone che passavano davanti al povero pellegrino ferito non si sono comportate male: hanno fatto il loro mestiere; andavano a Gerusalemme e toccare un moribondo voleva dire dover tornare indietro e rifare gli atti di purificazione. Si attenevano alla legge, non si sono comportati male. Il problema non è chi si comporta male o bene: il problema è: chi è il prossimo?
Non conta la dimensione della città o la dimensione del territorio. Contano le azioni che si fanno per costruire delle relazioni sociali, altrimenti la città piccola dovrebbe necessariamente essere meglio di una città grande, visto che le relazioni sono più facili, ci si incontra più facilmente. Ma sappiamo che non è così. Per i mezzi di comunicazione è uguale. Nella società mediatica non contano le opportunità, non contano i minuti di esposizione, ma conta la qualità della relazione. Se si vuole che i media abbiano un peso minore, le relazioni interpersonali, compresa quella formativa, devono avere una maggiore qualità. Non possiamo non affrontare questa sfida.  
Fausto Colombo
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