Damiano Caravello sapeva che aveva poco tempo, è morto a 29 anni per una malattia rara al fegato. Scriveva: “Questo giogo è pesante ma solo finché non prende la forma delle tue spalle, poi non ne faresti più a meno. Allora potenzialmente diventi cuore di Dio nel cuore del mondo”.
di Annalisa Teggi, tratto da aleteia.org
Damiano Caravello sapeva che aveva poco tempo, è morto a 29 anni per una malattia rara al fegato. Scriveva: “Questo giogo è pesante ma solo finché non prende la forma delle tue spalle, poi non ne faresti più a meno. Allora potenzialmente diventi cuore di Dio nel cuore del mondo”.
«Questi sono i fiori che il Signore dona alla Chiesa di questo tempo», lo ha scritto e me lo ha ripetuto a voce Padre Giuseppe Pozzobon, del convento carmelitano di Treviso. E sono parole riferite a un ragazzo che conosceva e a cui voleva tanto bene, accanto a cui è rimasto fino alla notte della sua morte. Una notte di cui ora s’intravede già, qui e ora, un’alba dalla luce intensa.
Il cuore e l’anima pieni
Damiano Caravello era un ragazzo di 29 anni, al cui funerale celebrato lo scorso 14 agosto a Noale (VE) erano presenti più di mille persone, molti i giovani tra loro. Si è pianto molto, ma si è fatta soprattutto memoria di un seme che morendo sta dando molto frutto. Damiano era affetto da una malattia rara al fegato, era consapevole che la sua vita sarebbe stata breve. A soli 3 mesi dalla nascita era stato sottoposto a un’operazione chirurgica, che gli aveva permesso di condurre la propria vita in modo normale. Negli ultimi mesi la sua situazione era precipitata, rendendo necessario un trapianto. I medici dell’ospedale di Padova lo hanno fatto salire nella lista delle priorità e il 13 luglio è stato sottoposto ad un primo intervento, cui sono seguite delle complicazioni irrisolvibili. Si è proceduto ad un nuovo trapianto che però non è stato in grado di salvarlo.
Chi era Damiano? Possiamo cominciare a rispondere lasciando la parola a lui. Appena due ore prima dell’intervento, ha scritto di getto un testamento spirituale di cui condividiamo una parte:
«Sprechiamo la vita a rincorrere l’amore, a succhiarlo dove non c’è, io ho avuto la Grazia, il dono grande di poterlo incontrare e di viverlo nonostante me. Arrivo a questa notte con il cuore e l’anima pieni di questo, e quanto vorrei tu potessi anche solo assaggiarne un po’ per poi cercarlo dove davvero c’è.
Negli ultimi tempi ho vissuto con tutto me stesso quello che ho desiderato: vivere con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, con tutto il corpo, con tutto il cuore, con tutta l’anima. Ed è e spero sia così fino al mio ultimo giorno. “Non mi interessano posti di prestigio o di potere, ma servire quest’umanità, i cristiani bisognosi, i poveri”. “Desidero un posto ai piedi di Gesù” il resto viene molto più indietro.
La mia vita seppure in maniera disordinata a volte, seppure con fatica, è vita interiore, è vita di comunione con la Trinità, nella Chiesa. Con tanti fratelli e sorelle, il più possibile, voglio darti speranza perché in qualsiasi situazione o disordine tu ti trovi, una via d’uscita c’è. Voglio dirti di avere Carità, che io forse ho avuto poco, ma che stravolge la visione dell’altro, che passa da nemico a fratello. Voglio dirti e supplicarti di avere fede in Gesù Cristo che, ti sembrerà strano, ma è persona vera che se lasci entrare nella tua vita davvero ne fa un capolavoro. Mi affido e ti affido alla Vergine Maria, colei che ha permesso al Padre di cambiare la vita a tutti gli uomini rendendola eterna. Mi affido alla Chiesa, quindi anche a te, che ti porto con me.
Metti in circolo l’Amore» – Damiano Caravello
Nella parte iniziale di questo documento ringrazia la sua famiglia: papà Giovanni, mamma Silvana, i fratelli Chiara e Francesco. Ringrazia di essere vissuto nella terra che lo ha accolto, pienamente piantato nei rapporti personali costruiti e incontrati. Questo testamento, che arriva quando la vita terrena si spegne, parla di una storia in cui la malattia non è al centro dell’orizzonte, ma è la feritoia attraverso cui la mano di Dio entra e dona forza, umiltà, chiarezza.
Poco tempo, tanto da fare
Dal suo profilo social avevo intuito fosse profondamente cristiano e anche impegnato in politica, ho chiesto a Padre Giuseppe Pozzobon di tracciare con qualche pennellata il ritratto di Damiano:
Questi sono i fiori che il Signore dona alla Chiesa di questo tempo. Ho seguito Damiano fino alla notte della morte. Aveva una malattia rara al fegato, gli avevano detto alla nascita che poteva vivere 20 – 25 anni, è arrivato a 29. Negli ultimi mesi una grande maturità è cresciuta in lui esponenzialmente, aveva una consapevolezza pazzesca andando incontro alla morte. Era consapevole di avere poco tempo, quindi lo ha vissuto in modo intenso. Si è svegliato alla fede verso il 2008 -2009. Io l’ho conosciuto, o meglio riconosciuto, nel 2011 e da allora è cominciato a venire anche da noi al Carmelo di Treviso; organizziamo delle attività per i giovani e lui si era coinvolto, diventando anche uno dei responsabili. Ma la grande svolta nella fede per lui era avvenuta ad Assisi durante un corso vocazionale e lì ha scelto il suo padre spirituale, che è Vito D’Amato ed è il sacerdote che ha presieduto al suo funerale. Al mondo francescano è rimasto molto legato, anche se aveva un legame anche con il Monastero della Clarisse di Carpi; lì aveva una sorelle spirituale, che la sua ultima notte in ospedale ha avuto un permesso speciale per poterlo andare a trovare. Faceva parte anche dell’associazione OL3 fondata da Gigi De Palo. Lui, che non era sposato, si spendeva tantissimo per le famiglie. Incontrata la figura di Giorgio La Pira, si era identificato in lui: voleva essere un seguace di Cristo nel mondo.
Ascoltando Padre Giuseppe, trapela tutto lo slancio che Damiano manifestava nello stare al suo posto, non al centro di una grande scena virtuale – l’idolo a cui molti si aggrappano – ma dentro la trama quotidiana delle relazioni e degli eventi che viveva. L’energia era sua, ma non solo sua. Quando chiedo a Padre Pozzobon se la malattia permettesse a Damiano di svolgere i tanti impegni a cui si dedicava, ecco che nel racconto fa capolino la spinta di Chi riempie di senso ogni nostro frammento anche fragile:
Quando c’era un’idea, lui aveva lo slancio di metterla subito in opera. Ha avuto vari ricoveri, doveva curarsi molto ma non si fermava. Non metteva molto a tema la sua malattia, negli ultimi mesi la situazione era precipitata e fisicamente era evidente; ma lui non ne faceva il centro assoluto della sua vita. Era una persona semplice, non impositiva. Aveva il pallino della politica, andò da Gigi De Palo a chiedergli: “Come si fa a far politica da cristiani?”. Ha lavorato per il suo paese, era consigliere comunale di Noale. Era molto radicato nella sua terra, il Veneto, ed è stato un dono immenso per la diocesi. Aveva un suo lavoro, ma lavorava anche la terra con suo padre e mungeva le mucche. Non voglio esaltarlo a tutti i costi, aveva i suoi difetti come tutti. Ma ha detto il suo Sì a Dio, questo è sicuro. E Dio ha trovato un portone aperto ed è entrato a piedi uniti. Sono rimasto accanto a lui in ospedale e lui mi diceva: “Tu devi stare qui”, me lo diceva anche se alla fine faceva fatica a parlare e riusciva solo a dire: “Tu qui”. Ho pianto tutte le lacrime che avevo in questi giorni.
Stare e restare sono i verbi con cui spesso i Vangeli raccontano di Gesù. La vita semplice di Damiano era incarnata nel suo territorio, politicamente impegnato per il bene della sua città e anche con le mani all’opera nella fertile terra veneta. Colpisce questo suo scritto:
La vita nuova esiste, esiste eccome. Esiste prima dentro, e poi, se Dio vuole e così ha pensato, anche fuori. Allora potenzialmente diventi cuore di Dio nel cuore del mondo. Questo giogo è pesante ma solo finché non prende la forma delle tue spalle, poi non ne faresti più a meno. Il Regno dei Cieli è vicino.
La pia illusione del “Andrà tutto bene” non tiene
Eccoci dunque qui, a contemplare il paradosso di una giovane vita che trabocca di speranza, quando i dati alla mano sembravano consegnarci una trama di sconfitta. Sandra, David, Andrea, Carlotta sono molto amici di Damiano, in questo senso: anime così piene del mistero buono del Padre da rendere via per la felicità anche le obiezioni più grandi segnate nel loro corpo ferito. Torniamo perciò al funerale di Damiano, come ad un momento cruciale per la nostra coscienza che può guadagnare tanto dalla memoria di una vita che si è donata.
Ha celebrato la cerimonia Padre Vito D’Amato che era il padre spirituale di Damiano; nell’omelia, senza troppi giri di parole, ecco squadernato il vero punto di svolta di questa storia:
La prima cosa che ci viena da pensare è: “Che fine hanno fatto le nostre preghiere?”. Perché non ci ha ascoltati? C’era mezza Italia che pregava per Damiano. E quindi? La guarigione? Non ce l’ha data la guarigione il Signore? O sì? Ce l’ha data la guarigione, ce la sta dando, io penso. Io penso che le nostre sante preghiere ci stanno procurando la guarigione; noi siamo stati guariti. Per le sue piaghe noi siamo stati guariti. Grazie a Damiano ci siamo ritrovati a fare i conti con Dio, e questo è già il regno dei Cieli.
Ci si pensa sempre al singolare, “io sono io”. E così se ne deduce che la malattia appartenga solo al malato. Ciascuno ha la libertà di chiudersi dentro le proprie ferite e farne una stanza solo per sé; ma, con altrettanta libertà, si può decidere che la nostra sofferenza, messa in mano a Dio, possa essere offerta per guarire il mondo. Sto leggendo, proprio in questi giorni, un libro della badessa Maria Ignazia Angelini che è chiarissima nell’indicare la proposta più paradossale e umana che esiste, quella cristiana: «La relazione, la comunità, sono il punto cruciale della fede: Cristo si è completamente affidato non a una persona singola ma a una comunità. […] Non so tematizzare chi sono io al di fuori della relazione con gli altri, con la comunità, con le persone che incontro, con il Dio che cerco» (Da Mentre vi guardo, Einaudi). Fuori dall’angusta gabbia dell’egocentrismo, c’è un io che si scopre più se stesso in «comunione». Damiano era intessuto di questa relazione, e la guarigione che lo riguarda più personalmente è quella «nostra». Siamo noi come umanità il corpo malato che lui ha partecipato a guarire, come? Rinnovando il nostro sguardo verso Dio, che tutto porta a compimento. C’è infatti una grossa svista che dobbiamo curare e Padre Vito l’ha spiegata così:
Come ha affrontato, Damiano, questo trapianto e la sua malattia? Non con l’illusione che questo trapianto sarebbe andato sicuramente bene. “Andrà tutto bene” è una pia illusione psicologica quando le cose ci fanno un po’ paura. E Damiano non è andato incontro al trapianto con questo atteggiamento del “Andrà tutto bene” e neanche con la rassegnazione del “È la volontà di Dio, è così”. Questa è stata la svolta per lui e per noi: Damiano ha fatto un’offerta di questo trapianto e della malattia, si è messo nelle mani di Dio e si è fatto resuscitare così come Dio vuole.
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