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Due modi, anzi uno

Ci sono due modi di “vivere la vita” e uso l'espressione di proposito. Perché due modi ci sono per sentirsi viverla e per sentirla vivere: controllarla o servirla, dominarla o accoglierla, imprigionarla o amarla. E vale per tutti: dallo scienziato all'insegnante, dalla madre all'amico.


Due modi, anzi uno

da Quaderni Cannibali

del 24 febbraio 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 

          Ci sono due modi di “vivere la vita” e uso l’espressione di proposito. Perché due modi ci sono per sentirsi viverla e per sentirla vivere: controllarla o servirla, dominarla o accoglierla, imprigionarla o amarla. E vale per tutti: dallo scienziato all’insegnante, dalla madre all’amico. Nella recente commemorazione della Shoah ho riletto alcune parole di Appelfeld che amo molto: «Nel ghetto e nei campi di concentramento avevo visto la bassezza, ma anche la generosità degli uomini. La bassezza era tanta e la generosità poca, ma la mia memoria ha custodito proprio i momenti chiari e umani nei quali la vittima superava il suo meschino egoismo e si sacrificava per il prossimo. Questi pochi momenti non si limitavano a portare luce nell’oscurità: infondevano in me la fiducia che l’uomo non sia un insetto… Ho fatto un conto: ogni uomo che si è salvato durante la guerra si è salvato grazie ad una persona che, in un momento di grande pericolo, gli è venuta in aiuto. Nei campi di concentramento non abbiamo visto Dio ma abbiamo visto i giusti. L’antica leggenda ebraica, che dice che il mondo continua a esistere per merito di pochi giusti, era vera allora come oggi».

          Se ciò è stato vero nell’orrore nazista, vale in momenti della storia meno assurdi, anche se critici e carenti di speranza. La vita è un compito di fronte al quale siamo posti come esseri liberi, di fronte alla vita che emerge, in ogni sua forma, possiamo scegliere: o imprigionarla per usarne o ammirarla e farla fiorire, servendola. Di fronte ad un fiore blu in montagna, incastrato tra le rocce e il ghiaccio posso scegliere: coglierlo per me o incontrarlo, stupirne come un dono da lasciare intatto. Di fronte alla vita di uno studente posso scegliere il controllo perché faccia ciò che voglio, o cercare di capire che unicità è venuto a portare sulla terra e mettermi a fianco, proteggerla, difenderla, sfidarla. Da oggetto da modellare a soggetto ricco di potenzialità. Così faceva mia nonna con le piantine ancora deboli: piantava accanto un bastoncino che le aiutava a crescere dritte, verso la luce del sole. Più una pianta si slancia verso l’alto più rende profonde le radici. Quando le ha affondate nella terra che la nutre abbastanza in fondo da resistere alle intemperie, il bastone sparisce, altrimenti ne limiterebbe la crescita.

          Non è una forma di controllo, ma una forma di servizio. All’apparenza ruvido, ingiusto, forse, ma alla fine capace di restituire la pianta a sé stessa, al suo migliore slancio: «Perdonami se ti cerco così / goffamente, dentro / di te / È che da te voglio estrarre / il tuo migliore tu. / Quello che non / vedesti e che io vedo, / immerso nel tuo fondo, preziosissimo. / E afferrarlo / e tenerlo in alto come/ trattiene / l’albero l’ultima luce / che gli viene dal sole» (Pedro Salinas). Davanti a un malato il dottore può scegliere di estirpare o accogliere. Davanti all’embrione lo scienziato può scegliere se congelare o riservare il calore di un grembo. Davanti ad un feto la mamma può scegliere tra la sua vita e la propria vita, tra il controllo della vita del bambino o il dono della propria al bambino.

          Davanti alla propria vita un giovane può scegliere: controllare o donare, imprigionarla o servirla. Ma potrà farlo solo se gli adulti che ha vicino gliel’avranno messa sotto gli occhi come qualcosa di amabile e da servire, in sé e negli altri. Emily Dickinson diceva che «non sappiamo la nostra altezza sino a che non siamo chiamati ad alzarci in piedi». Da oggetti a soggetti. Ma avremo noi il coraggio di guardare la vita? Quella vita che tra le ombre emerge, si slancia verso l’alto, a cercare la luce. Avremo noi occhi capaci di vederla? E una volta vista, che cosa sceglieremo: imprigionarla per soddisfare i nostri desideri (che poi non sono altro che desiderio di divorare ciò che c’è aldilà del desiderio stesso), o chinarci a servirla, dovesse costarci la schiena? E la vita la perdiamo di più controllandola o donandola?

Lo sanno i giusti. Chiedilo a loro. O al chicco di grano.

Alessandro D'Avenia

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