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Dom Helder Camara: il vescovo delle favelas

Dom Helder confessò di avere un grande mal di testa. Clotilde gli portò un'aspirina e un bicchier d'acqua. Ne bevve un sorso. Cominciò a parlare ma guardava sempre quell'acqua. A un certo punto mi disse sottovoce: "Non ho più sete, ma quando penso alla sete della mia gente...". Prese il bicchiere e lo vuotò.


Dom Helder Camara: il vescovo delle favelas

da Testimoni della Fede

del 08 maggio 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 

'Liberaci, Signore. La maggiore e più grave delle imprudenze è la propria prudenza che si fida di sé, si trasforma in calcolo, e prescinde dalle follie di Dio'.

          Dom Helder Camara è morto il 28 agosto a 90 anni: arcivescovo di Recife, è stato per tutta la vita voce dei poveri, espressione della tenerezza di Dio.

          L'ultima volta che lo incontrai, sei anni fa, mi sembrò come rimpicciolito. Quei suoi immensi occhi, le grandi orecchie, la grande fronte lo facevano somigliare a una uistitì, una di quelle minuscole scimmiette brasiliane che tremano nelle mani dei loro venditori. Prima ci fu la messa che egli celebrava quasi cantando nella sua gioia di ministro del Signore; quando scese dall'altare per distribuire l'eucarestia, teneva la pisside accanto al cuore, come se fosse un bambino. Poi parlammo con lui nel piccolo patio del convento in cui viveva, ricordando lontani incontri romani; prima di andarcene ci chiese se volevamo fargli un regalo… Lo guardammo un po' sorpresi: 'Mi cantereste Quel mazzolin dei fiori? - domandò. Mi piace tanto'. Così in quell'angolo di città equatoriale le nostre voci incerte intonarono la più nota delle canzoni di montagna italiane; e un grande sorriso si distese sul volto dell'arcivescovo dei poveri.

          Erano passati trent'anni dalla prima volta che lo avevo visto. La nostra casa romana di via Gregorio VII era diventata una specie di succursale del vicino Pio Colegio Brasileiro e i nostri amici un giorno telefonarono: 'Questa sera viene a parlarci un grande vescovo, dom Helder Camara'.

          Cominciavamo a capire qualche parola brasiliana, ma dom Helder parlava a velocità supersonica e fu impossibile (per noi) seguirlo; tuttavia non ci annoiammo neppure per un istante: la sua mimica, la sua capacità di modulare la voce, il suo sorriso erano straordinari. Io, che lavoravo in Tv, pensai: 'Che meraviglioso comunicatore!'.

          Erano gli anni del Concilio e la nostra casa ogni sera si trasformava in una specie di 'salotto buono' di un gruppo di vescovi, teologi e sacerdoti che riflettevano su quella che si sarebbe chiamata 'la scelta preferenziale dei poveri', anticipo della 'teologia della liberazione'. Venne anche dom Helder. Confessò di avere un grande mal di testa. Clotilde gli portò un'aspirina e un bicchier d'acqua. Ne bevve un sorso. Cominciò a parlare ma guardava sempre quell'acqua. A un certo punto mi disse sottovoce: 'Non ho più sete, ma quando penso alla sete della mia gente...'. Prese il bicchiere e lo vuotò.

          La sua gente era quella del Pernambuco, Nordeste: detto 'il quadrilatero della fame'; terra di immense favelas, flagellata dalla siccità, e delle piantagioni di canna da zucchero in cui i braccianti vivono come schiavi. Da poco (nel 1964) dom Helder era diventato arcivescovo di Olinda e Recife. Olinda è una delle più antiche città brasiliane, Recife, nel suo prorompente sviluppo, forma con essa un solo immenso abitato. In questi due luoghi meravigliosi per architetture e spiagge e palmeti (e oggi fra i maggiori centri del turismo sessuale italiano) e nell'aridissimo interno pernambucano dom Helder giunse da Rio de Janeiro, ove era stato vescovo ausiliare. Vi giunse preceduto da una grande fama di predicatore ma soprattutto con una sensibilità per i drammi della miseria: era stato 'convertito', disse una volta, dal gesuita padre Lombardi, in Italia chiamato 'il microfono di Dio', il quale lo aveva spinto a visitare i quartieri più poveri della città. Nella nuova diocesi portò la parola - amabile e terribile - del Signore che amava i piccoli e cacciava i mercanti dal tempio.

          'Quando do da mangiare ai poveri', disse una volta dom Helder, 'mi battono le mani. Quando domando perché i poveri hanno fame, mi chiamano comunista'. Un famoso giornalista italiano ha scritto, in morte di dom Helder, che egli 'aveva idee confuse'. Quelle idee sui meccanismi di ingiustizia che producono la miseria (lo sfruttamento dei lavoratori da parte dei padroni, il latifondo, l'organizzazione multinazionale del capitalismo…) apparivano chiarissime ai capi della dittatura brasiliana, e agli 'squadroni della morte'. Dom Helder fu battezzato 'O bispo vermelho', il vescovo rosso, e si cercò in tutti i modi di piegarlo. Era troppo noto, ormai, perché si potesse assassinarlo ma scritte minacciose e scariche di mitra ornarono ben presto i muri della sua povera abitazione; il suo vicario per Olinda, dom Marcelo Carvalheira, fu imprigionato a lungo in uno dei più spaventosi carceri, in cui ogni giorno udiva le urla dei torturati; un segretario di dom Helder fu letteralmente fatto a pezzi; laici che collaboravano con l'arcivescovo furono sequestrati e scomparvero o tornarono a casa annientati da orrende sevizie.

          Dom Helder continuò per 21 anni la sua strada. Dal Vaticano gli giungevano consigli di prudenza ma a lui, rispettosissimo dell'autorità papale, premeva la fedeltà ai poveri, nei quali riconosceva il Cristo: 'Liberaci, Signore. La maggiore e più grave delle imprudenze è la propria prudenza che si fida di sé si trasforma in calcolo e prescinde dalle follie di Dio'.

          Così come in Concilio difese sempre la priorità dell'evangelizzare gli emarginati, di fare giustizia, di non consentire che la Chiesa potesse essere assimilata alle istituzioni mondane.L'amore per i poveri lo aveva spinto a moltiplicare istituti per la pastorale, per le ricerche, per la difesa dei diritti umani. Poeta di rara intensità, aveva scritto:

Non bastache i poveri ti conoscanoe ti chiamino per nome:è importanteche tu li conoscae ne sappia la storiae ne sappia il nome.

          Tutto è stato demolito dal suo successore. Ma nessuno potrà demolire il ricordo di un uomo così santo da avere, oltre a tutto, immensa comprensione per i nemici della sua utopia.Voglio salutare dom Helder con una sua poesia:

Grazie, Signore. Quando sentirai il tonfodi un frutto maturoche cade al suolo loda Dioin nome delle vite pienedei frutti ormai da raccoglieredei destini giunti a compimento.

L’ultima intervista. Un sacramento di Dio           Era dicembre, un caldo e umido pomeriggio brasiliano del 1998. Avevo faticato un po’ ad attraversare la città, Recife. Passando da un autobus all’altro, avevo finalmente raggiunto la sua casa, anzi, la sua chiesa. Dom Helder – così lo chiamavano le persone alle quali chiedevo informazioni – viveva sul retro della sacrestia che si trovava addossata alla chiesa di Rua Henrique Diaz. Lì riusciva più facilmente a pregare e a incontrare i suoi poveri. Dovetti ancora attendere qualche ora prima di poterlo avvicinare. Non stava bene, ma mi avrebbe certamente incontrato. Sapeva che venivo da lontano.           Da alcuni giornali avevo imparato a conoscerlo come il «vescovo delle favelas», da altri come il «vescovo rosso», da altri ancora come il «patrono» della teologia della liberazione; dagli uomini di Chiesa ne avevo sentito parlare con stima, accompagnata, non di rado, da qualche «distinguo»; dai suoi scritti avevo intercettato il respiro largo e profondo del poeta, innamorato di tutto ciò che è umano; dalle sue parole avevo potuto assaporare la magia del profeta, capace di parlare al cuore e di segnare la vita; dai suoi gesti avevo capito che non è possibile farsi pellegrini di giustizia e di pace senza affrontare i deserti dell’incomprensione e del travisamento.           Entrando nella sua piccola stanza, ho incontrato un corpo minuto, provato dal tempo e dalla malattia, debole, ma con lo sguardo profondo, fragile ma sorridente, infiacchito ma pronto ad allargare le braccia scarne in gesti instancabili di benedizione. Avevo mille domande nel cuore. Ma, ha cominciato lui a interrogare me.

Parlava piano. Mi guardava diritto negli occhi, non si spostava: «Cosa vedi? Guarda – insisteva –, che cosa vedi?».            Poi, quasi affidandomi una confidenza, invitandomi a farmi vicino, mi sussurrò: «Sai, i bambini sì che sanno stupirsi, sanno interrogarsi, sanno gioire. Anche i giovani dovrebbero imparare a farlo».            Ma come li si può aiutare? «Dà loro cose semplici e scopriranno la verità. Lègali all’essenziale e scopriranno l’entusiasmo. Tutto ciò che distrae, tutto ciò che è sensazionale, apparente, va eliminato. Dà loro linfa per vivere e conosceranno la speranza. Rendili liberi!».Cosa dobbiamo dire ai giovani? «... Che nessuno è così ricco da non poter ancora ricevere qualcosa, e nessuno è talmente povero da non avere niente da dare».           Dove cresce la speranza? «La speranza è un fiore. E può far fiorire perfino un deserto. Se uno coltiva dentro un sogno che non condivide con gli altri, il suo resta “solo un sogno”. Ma se molti hanno lo stesso sogno, allora lì comincia a nascere qualcosa di concreto, di vero, di reale».           E mentre mi parlava, le sue braccia si allungavano verso l’alto, quasi a indicare una direzione e a benedire un cammino riconosciuto, affascinante e impegnativo. «Chi si strappa a se stesso per mettersi in cammino, pellegrino della giustizia e della pace – continuò lui, quasi sillabando, per dare il giusto peso a ciascuna parola – deve prepararsi ad affrontare anche i deserti. Non basta solo fare qualcosa “per” gli altri. Ciò che piú conta è farlo “con” gli altri. Non basta dire che i poveri sono senza pane: bisogna dire “perché” sono senza pane».           Mi aspettavo un uomo forte: ho incontrato una canna incrinata. Indossava una tonaca usata. Stringeva tra le mani solo un piccolo crocifisso di legno. Abitava una stanza povera e spoglia. Non aveva molte parole, ma solo occhi lucidi e interroganti, mani pronte ad accogliere, braccia tese all’incontro: un sorriso capace solo di verità e di tenerezza.

Ettore Masina, Germano Bertin

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