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Dio parcheggiato in garage

Belle senz'anima... Povere o costose, le cattedrali moderne sono brutte e scostanti. Non è da beghine chiedersi come mai. Da cittadini del mondo, ci preoccupa un'epoca senza cielo. Le nuove chiese sono invivibili e noi non ne possiamo proprio più di Dio parcheggiato in garage...


Dio parcheggiato in garage

da Quaderni Cannibali

del 27 aprile 2006

   Non è un discorso estetico. Il bello è stretto parente del vero e del buono, l’aspetto dice molto di quello che siamo dentro. Ha ragione chi affermava che dopo i trent’anni si è responsabili del proprio volto: siamo tutti in qualche modo dei Dorian Gray, però il nostro vero ritratto orribile o grazioso lo portiamo in faccia.

È per questo che la faccenda delle chiese brutte è preoccupante. Se quarant’anni fa Étienne Gilson precisava che non è stata solo la fede a costruire le meravigliose cattedrali del Medioevo, ma anche la geometria, oggi dobbiamo chiederci se la geometria, da sola, basti per erigere una cattedrale.

Si direbbe di no. Si direbbe che le odierne cattedrali religiose tradiscano nella loro nuda materialità l’insufficienza e inadeguatezza dei loro costruttori. E se ciò potrebbe sembrare a qualcuno un segno di conquistata laicità, a noi pare invece una debolezza di cui risente tutto l’impianto della cultura contemporanea: si creda o no in un Dio superiore – e in definitiva la fede rimane sempre una questione personale –, è palese che una società che sa guardare al trascendente è più aperta di una società riduzionista e contenta delle apparenze materiali.

 

In Spagna dicono mirar de tejas abajo, guardare dai tetti in giù, per indicare che in certi casi occorre pragmatismo. Ma qui non è questione di pragmatismo. Siamo una società che s’è abituata a guardare soltanto dalle tegole in giù. Lo dimostriamo proprio quando dobbiamo rappresentare il cielo, costruendo edifici che, pur coperti da tetti, quel che dovrebbero è spalancare le altezze e non precluderle. Vorremmo fossero preoccupate, le gerarchie ecclesiastiche, dei riflessi artistici e architettonici di questo limite vistoso, che tutti possiamo constatare: un limite antropologico, che esprime l’incapacità a mettersi in rapporto reale con la trascendenza. La chiesa, come edificio, per i cattolici non è infatti soltanto il luogo dell’assemblea o delle relazioni: fosse così si potrebbe forse tollerare che le chiese odierne assomiglino sempre più smaccatamente a stadi e a teatri, quando non a garage o a stazioni del metrò. Magari a begli stadi o a bei garage, quando va bene (e non sempre va bene), ma non è un astratto concetto di proporzioni estetiche che rende bella una chiesa: la sua bellezza è in stretta connessione con ciò che una chiesa radicalmente è.

 

Diversamente da una moschea o una sinagoga o un edificio di culto protestante, una chiesa è anzitutto, il luogo della presenza fisica di Dio: la fede nell’Eucaristia fa sì – o dovrebbe, per i cattolici – che quanti entrano nello spazio sacro si trovino in un “cielo aperto”, una dimensione che è diversa da quella mondana ma non meno reale e fisica, oltre che spirituale.

Dovrebbero tenere a mente, i cattolici committenti e costruttori di cattedrali, un episodio narrato negli Atti degli apostoli: quando san Pietro viene trasportato in visione nella dimensione celeste perché Cristo vuol insegnargli il valore della materia. Pietro, da ebreo osservante, credeva che mangiare certe carni fosse impuro come ai tempi dell’alleanza ebraica; Cristo invece gli apre il cielo e gli mostra una folla di animali; li indica e gli dice «uccidi e mangia», liberamente, «e non considerare profano ciò che Dio ha purificato» (10, 10-16). Come dire che se si possiede una dimensione superiore, si giudica meglio di quelle inferiori. Se c’è qualcosa “oltre”, l’apparenza riceve nuovo spessore. È l’uomo materiale che trae vantaggio dalle altezze dello spirito.

 

Ma le chiese cattoliche, oggi, che spessore e che altezza hanno da offrire a uomini e donne che le guardano, vi entrano, le frequentano? Grigie, fredde, inospitali, tetre, disadorne; se “belle”, belle di una misura altera, distanziante. La risposta sconfortante all’interrogativo non ricade solo sugli architetti, ma investe anche committenti e fruitori: è vero che chi costruisce è miope, chi affida la costruzione non lo è meno e chi accetta di entrarvi senza disgusto sta a un livello analogamente deplorevole.

E se qui in Italia abbiamo la fortuna di custodire molti tesori architettonici di altre epoche, è anche vero che fermarci a quelli equivale a trasformare il senso religioso in archeologia: sotto questo profilo tra S. Pietro, S. Maria del Fiore e le piramidi la differenza si attenua assai.

La gente va sempre meno in chiesa. Ma non è la fede il primo problema. È il rapporto della fede con il reale, la sua incidenza nella vita privata e pubblica. Gli scalpellini che a Colonia, a Parigi, a Milano e a Burgos arabescavano la pietra in luoghi inaccessibili allo sguardo dei fedeli – le guglie e le capriate delle cattedrali gotiche non erano fatte per essere ammirate da occhio umano, specie in assenza di quell’energia elettrica che oggi aureola i monumenti da ogni prospettiva – attestavano davanti all’intera città dell’uomo che Dio ci guarda. E così intendevano coloro che li assoldavano per scolpirle.

 

Oggi s’insiste sulla morale e sui comportamenti: giusto, per carità, ma esiste un intero orizzonte di riferimenti oggettivi che ispira la condotta perché la precede, la fonda e l’accompagna. Chi mai si sente affascinato o intimorito da uno di quei casamenti sgraziati che affollano le nostre città moderne? Anche se li chiamiamo chiese, non lo sono. Chi ci abiterebbe, chi ne vorrebbe far casa propria? E tuttavia com’è possibile che si dedichi a Dio ciò che non si accetterebbe per sé? Domanda capitale che fa il paio con l’interrogativo sulla povertà dei materiali e degli arredi. Anche nelle case più umili il salotto dove si accolgono gli amici contiene il meglio che si è nella possibilità di racimolare. La tovaglia della festa, l’argenteria di famiglia, il vaso infiorato, il lume di candela. Il calore, l’accoglienza, la centralità dell’ospite rispettato. Esattamente il criterio che presiedeva all’architettura ecclesiastica fino a duecento anni fa. Da allora in avanti, invece, preti socievoli e alla mano affermano sbadatamente che è meglio darli ai poveri, i soldi che si spenderebbero per fare una chiesa accettabile. Senza rendersi conto che i poveri di tutto il mondo diverrebbero magari un po’ più ricchi in denaro, ma ancor più poveri in sostanza, perché le chiese brutte impoveriscono il mondo intero.

E, d’altra parte, chiese costosissime affidate ad architetti sordi allo spirito hanno dato risultati non migliori: garage di lusso multipiano anziché garage di borgata; dove sta la differenza?

 

Proponiamo un tentativo di decodifica culturale che dovrebbe interessare quanti sono coinvolti nella riflessione su ciò che implicano certe prevalenze simboliche e certe consuetudini perfino linguistiche. Se è vero che in altri tempi l’edificio più insigne era il tempio, e tutte le altre modalità di edificazione vi si richiamavano per analogia (la domus era la casa del dominus, degli déi, poi degli imperatori e poi degli uomini, signori questi in rapporto a quelli), se ne dovrebbe dedurre che essendo oggi gli edifici più rilevanti ed elaborati gli stadi e i megastore, è  al gioco e al mercato che riferiamo le nostre aspettative migliori: restando alla lingua di quei padri, panem et circenses. “I nuovi dèi si allenano qui”, recitava non per caso la pubblicità di una catena milanese di palestre poco tempo fa.

Si dice che Benedetto XVI voglia imprimere un giro di vite al rigore nella liturgia; ad attestarlo l’inattesa nomina, l’11 dicembre scorso, a segretario della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti dello srilankese monsignor Malcom Ranjith, uomo di primo piano.

Il papa fa e farà il suo dovere. E tuttavia la questione delle chiese va oltre il dovere: per costruirne di belle occorre bellezza. Cioè, per l’argomento di cui parliamo, uomini capaci di costruire tetti guardando anche dai tetti in su.

Giuseppe Romano

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