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Crisi e travaglio all'inizio del Terzo Millennio

Solennità dell'Ordinazione di Sant'Ambrogio vescovo e Dottore della Chiesa, Patrono della Santa Chiesa Ambrosiana e della città di Milano. Discorso del Cardinal Scola, Arcivescovo di Milano.


Crisi e travaglio all’inizio del Terzo Millennio

da Quaderni Cannibali

del 07 dicembre 2011

SOLENNITÀ dell’ORDINAZIONE DI SANT’AMBROGIO VESCOVO E DOTTORE DELLA CHIESA, PATRONO DELLA SANTA CHIESA AMBROSIANA E DELLA CITTÀ DI MILANO DISCORSO DEL CARDINALE ANGELO SCOLA, ARCIVESCOVO DI MILANO  

CRISI E TRAVAGLIO ALL'INIZIO DEL TERZO MILLENNIO  

 

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1.    1. Una feconda tradizione 

                Da più di cinquant’anni è tradizione che l’Arcivescovo di Milano, ai primi vespri della Solennità di Sant’Ambrogio, si rivolga alla città, rappresentata da tutte le sue autorità istituzionali, civili e militari, e a tutta la Diocesi, per proporre alcune considerazioni su aspetti particolarmente urgenti della vita comune. Inserendomi in questa tradizione ho trovato particolarmente efficace una preziosa riflessione che l’allora Cardinale Montini svolse in occasione di questa stessa festa il 6 dicembre 1962: «Siamo ormai così abituati noi moderni a considerare questa distinzione del profano dal sacro, che facilmente pensiamo i due campi non solo distinti, ma separati; e sovente non solo separati, ma ciascuno a sé sufficiente e dimentico della coessenzialità dell’uno e dell’altro nella formula integrale e reale della vita, quando per di più non avvenga che ci si consideri facilmente l’uno all’altro in contrasto per incomprensione delle rispettive competenze, per gelosia di potestà, per triste ricordo di antiche avversioni, per opposizioni di differenti e irriducibili ideologie. Ecco perché questo è per me, e spero lo sia per voi, Autorità e popolo di Milano, un momento felice; felice perché riconosce, non confonde, non oppone, le due società qui rappresentate e simboleggiate, e le mette davanti ad Ambrogio e alla religione che in lui qui si personifica nell’atteggiamento di tributarsi reciprocamente riverenza e stima, e di offrirsi collaborazione che non menoma la rispettiva libertà, ma la rispetta e la mette in azione per un fine comune, il bene dell’uomo».

          Mi sembrano parole di grande attualità, senza per questo voler sottovalutare i radicali cambiamenti verificatisi in questi cinquant’anni e quelli che tutti percepiamo ormai in atto, anche se fatichiamo a delinearne i contorni con sufficiente chiarezza. «Tributarsi riverenza e stima e offrirsi collaborazione in vista del bene dell’uomo»: un atteggiamento che l’Arcivescovo, a nome della Chiesa che è chiamato a presiedere, deve più che mai praticare nell’attuale impervio contesto di transizione in atto non solo a Milano e in Diocesi, ma a livello nazionale e globale. Nel rispetto della netta distinzione tra quanto tocca al Vescovo e ciò che spetta alle autorità civili della polis, sono ben consapevole dell’orizzonte in cui va posto ogni intervento del magistero ecclesiale. Tanto più che il dovere del Papa e dei Vescovi consiste soprattutto nel proporre ad ogni uomo e a tutta la famiglia umana l’avvenimento di Gesù Cristo. A questo scopo, senza avanzare pretese sulle questioni opinabili, il Vescovo è chiamato a porgere ai cristiani il suo insegnamento su quelle di principio che concernono il senso (significato e direzione) della vita umana. Questo suo dovere si presenta particolarmente arduo nelle cosiddette “questioni miste”, per usare un’efficace espressione di Maritain. Quelle cioè in cui talune scelte pratiche mettono in campo, in termini molto delicati e spesso controversi, i principi stessi (penso a quelli relativi al matrimonio e alla famiglia, alla nascita e alla morte, alla giustizia sociale). Né si può tacere, soprattutto se si vuol tener conto della storia delle nostre terre ma anche dell’intera Italia, che l’insegnamento dei Vescovi va oltre i confini della Chiesa e, se liberamente assunto, può favorire un utile confronto per tutta la polis, indipendentemente dalle diverse mondo-visioni che la abitano. È proprio la figura di Ambrogio a confermare, dopo sedici secoli, la solidità di una simile impostazione. Quel nobile romano, uomo di stato e di governo che pose le sue competenze al servizio della Chiesa, operò secondo gli studiosi in un’epoca di angoscia per i mutamenti radicali e continui, sotto la pressione dei popoli barbari, per le incertezze e per le difficoltà dell’economia a causa di carestie e guerre. Delicati e contrastati rapporti con imperatori e personaggi di spicco a quell’epoca non impedirono al grande santo di richiamare i fedeli alla lealtà verso l’autorità civile e l’autorità civile al dovere di garantire piena libertà ai cittadini. Con un elevato senso dello Stato, Ambrogio sprona tutti a concorrere insieme al bene pubblico, denuncia senza timore ingiustizie e soprusi (trattandolo come un fedele qualsiasi, vieta l’accesso in questa gloriosa basilica all’imperatore Teodosio perché aveva violato la legge morale e divina). Per questa sua autorevolezza egli veniva ascoltato da tutti, anche da eretici, ebrei e pagani. In questo quadro l’azione di Ambrogio è in grado di offrire preziose indicazioni per il delicato momento storico in cui versiamo.

          Ambrogio richiama con forza il senso autentico della proprietà privata: i beni ci sono dati in uso e in primis in funzione del bene comune. Fa sentire alto il suo monito contro la cupidigia e l’avidità, in particolare presso coloro che ricoprono cariche pubbliche. Da qui consegue l’attenzione ai poveri (soprattutto ai poveri “vergognosi”, che non avevano il coraggio di manifestare la propria situazione di indigenza), ai malati, ai condannati a morte, ai prigionieri, ai forestieri, agli affamati, alle vedove e agli orfani.... Tra le tante fragilità del suo tempo non dimentica nemmeno quella degli anziani trascurati e lasciati a se stessi e invita i figli ad assistere i genitori anziani. Particolarmente significativo il soccorso a chi affollava le città arrivando da fuori, soprattutto gli immigrati, in particolare i contadini, colpiti da carestie e guerre, e i profughi. Questa sua sensibilità e l’impegno sul piano sociale ed economico poggiano su una strenua difesa della verità, incurante di rischi e difficoltà, nella consapevolezza che la morale cristiana perfeziona quella naturale senza contraddirla. Ciò lo rende particolarmente attento all’etica matrimoniale e familiare. Alla ferma condanna dell’aborto fa seguire una decisa valorizzazione, profetica per il suo tempo, del ruolo della donna. Con lo sguardo orientato al nostro patrono intendo ora offrire qualche riflessione sul delicato frangente che stiamo attraversando.

 

2. La “crisi economica e finanziaria” nel presente travaglio  

 

          Entrare nei meandri della crisi economica e finanziaria è, per la stragrande maggioranza dei cittadini, un’impresa impervia. Qualsiasi analisi appena un po’ meno che generica diventa presto inintelligibile al profano. Così il discorso economico, e ancor più quello finanziario, si è fatto lontanissimo dalla possibilità di comprensione di coloro che pure ne sono i destinatari e gli attori finali, cioè tutti. È necessario che l’economia e la finanza, senza ovviamente prescindere dal loro livello specialistico, non rinuncino mai ad esplicitare quello elementare ed universale. Tutti debbono poter capire, almeno a grandi linee, la “cosa” con cui economia e finanza hanno a che fare. Ciò è necessario perché ognuno non solo possa difendere i propri diritti, ma sappia soprattutto assumersi consapevolmente le proprie responsabilità in riferimento alla costruzione del bene comune anche attraverso sacrifici e rinnovati impegni. Non si può inoltre accettare una riflessione e una pratica dell’economia che prescinda da una lettura culturale complessiva che inevitabilmente implica un’antropologia e un’etica. A questo proposito mi sembra decisiva la prospettiva con cui si sceglie di guardare all’odierna situazione. Parlare di crisi economico-finanziaria per descrivere l’attuale frangente di inizio del Terzo millennio non è sufficiente.

          A mio giudizio la crisi del momento presente chiede di essere letta e interpretata in termini di travaglio e di transizione. Questo tempo in cui la Provvidenza ci chiama più che mai ad agire da co-agonisti nel guidare la storia è simile a quello di un parto, una condizione di sofferenza anche acuta, ma con lo sguardo già rivolto alla vita nascente: «La donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo» (Gv 16, 21). Il travaglio del parto esige però dalla donna l’impegno di tutta la sua energia umana. Così anche noi, cittadini immersi nella crisi economico-finanziaria, siamo chiamati a metterci in gioco, impegnando tutta la nostra energia personale e comunitaria. Il domani avrà un volto nuovo se rifletterà la nostra speranza di oggi. Una “speranza affidabile” deve quindi guidare le nostre decisioni e la nostra operosità.

 

3.    Allargare la “ragione economica” e la “ragione politica” 

          Parlare di travaglio e non limitarsi a parlare di crisi economico-finanziaria, vuol dire non fermarsi alle pur necessarie misure tecniche per far fronte alle gravi difficoltà che stiamo attraversando. Secondo molti esperti la radice della cosiddetta crisi starebbe nel rovesciamento del rapporto tra sistema bancario-finanziario ed economia reale. Le banche sarebbero state spinte a dirottare molte risorse che avevano in gestione (e quindi anche il risparmio delle famiglie) verso forme di investimento di tipo puramente finanziario. Anche a proposito della nostra città si è potuto affermare: a Milano è rimasta solo la finanza. Non spetta a me confermare o meno tale diagnosi. Voglio, invece, far emergere un dato che reputo decisivo: nonostante l’ostinato tentativo di mettere tra parentesi la dimensione antropologica ed etica dell’attività economico-finanziaria, in questo momento di grave prova il peso della persona e delle sue relazioni torna testardamente a farsi sentire. Prima di offrire qualche suggerimento in vista della necessaria ricentratura antropologica ed etica dell’economia - domandata a ben vedere dalla stessa ragione economica - è giusto riconoscere, come da più parti si è fatto, che la radice patologica della crisi sta nella mancanza di fiducia e di coesione. Dalla crisi si esce solo insieme, ristabilendo la fiducia vicendevole. E questo perché un approccio individualistico non rende ragione dell’esperienza umana nella sua totalità. Ogni uomo, infatti, è sempre un “io-in-relazione”. Per scoprirlo basta osservarci in azione: ognuno di noi, fin dalla nascita, ha bisogno del riconoscimento degli altri. Quando siamo trattati umanamente, ci sentiamo pieni di gratitudine e il presente ci appare carico di promessa per il futuro. Con questo sguardo fiducioso diventiamo capaci di assumere compiti e di fare, se necessario, sacrifici.

          Da qui è bene ripartire per ricostruire un’idea di famiglia, di vicinato, di città, di paese, di Europa, di umanità intera, che riconosca questo dato di esperienza, comune - nella sua sostanziale semplicità - a tutti gli uomini. Non basta la competenza fatta di calcolo e di esperimento. Per affrontare la crisi economicofinanziaria occorre anche un serio ripensamento della ragione, sia economica che politica, come ripetutamente ci invita a fare il Papa. È davvero urgente liberare la ragione economico-finanziaria dalla gabbia di una razionalità tecnocratica e individualistica di cui, con la crisi, abbiamo potuto toccare con mano i limiti. Ed è altrettanto urgente liberare la ragione politica dalle secche di una realpolitik incapace di capire il cambiamento e coglierne le sfide. La politica, nell’attuale impasse nazionale e nel monco progetto europeo, ha bisogno di una rinnovata responsabilità creativa perché la società non può fare a meno del suo compito di impostazione e di guida. A questa assunzione di responsabilità da parte della politica deve corrispondere l’accettazione, da parte di tutti i cittadini, dei sacrifici che l’odierna situazione impone. Per sollevare la nazione è necessario il contributo di tutti, come succede in una famiglia: soprattutto in tempi di grave emergenza ogni membro è chiamato, secondo le sue possibilità, a dare di più. Chi ha il compito istituzionale di imporre sacrifici dovrà però farlo con criteri obiettivi di giustizia ed equità inserendoli in una prospettiva di sviluppo integrale (Caritas in veritate) che non si misura solo con la pur indicativa crescita del PIL. 

 

4.    Tre rilievi di carattere culturale

Mi permetto ora di offrire tre brevi indicazioni di carattere culturale necessarie all’allargamento della ragione economica e politica.

Ricchezza e felicità

          Se non vogliamo ricorrere al drastico ammonimento del Signore - «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell'abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede» (Lc 12,15) – sarà sufficiente ricordare che già Aristotele giudicava inaccettabile una vita che identificasse la felicità con la ricchezza, ovvero che scambiasse un mezzo con il fine. Non ci si può rassegnare di fronte ad una concezione dello “scambio” che non solo è diventata sempre più diffusa, ma che sembra governare l’intera macchina economica. Secondo questa visione il cittadino è (pessimisticamente) ridotto all’homo oeconomicus, preoccupato esclusivamente di massimizzare il profitto. Alla base dell’attività economica e finanziaria sembra infatti esservi solo l’assunto secondo cui l’aumento della ricchezza è in ogni caso e, meglio, quanto prima, un bene da perseguire. Recentemente il Santo Padre ha ricordato le conseguenze di una «una mentalità che è andata diffondendosi nel nostro tempo [e che], rinunciando a ogni riferimento al trascendente, si è dimostrata incapace di comprendere e preservare l’umano. La diffusione di questa mentalità ha generato la crisi che viviamo oggi, che è crisi di significato e di valori, prima che crisi economica e sociale. L’uomo che cerca di esistere soltanto positivisticamente, nel calcolabile e nel misurabile, alla fine rimane soffocato. In questo quadro, la questione di Dio è, in un certo senso, “la questione delle questioni”. Essa ci riporta alle domande di fondo dell’uomo, alle aspirazioni di verità, di felicità e di libertà insite nel suo cuore, che cercano una realizzazione. L’uomo che risveglia in sé la domanda su Dio si apre alla speranza, ad una speranza affidabile, per cui vale la pena di affrontare la fatica del cammino nel presente».

Secolarizzazione e mondo cattolico

          In secondo luogo merita di essere denunciato l’indebolimento di quelle “voci” che porterebbero a questo auspicato allargamento della ragione. Responsabile, in parte, di questo indebolimento è il variegato processo di secolarizzazione, che ha di fatto favorito l’affermarsi della mentalità positivistica denunciata da Benedetto XVI. È però doveroso in proposito notare che, anche in campo cattolico, un’ambiguità latente in certa interpretazione del principio dell’“autonomia delle realtà terrene”, ha giocato un suo ruolo. Il Concilio Vaticano II ha affermato il valore di tale principio se con esso «si vuol dire che le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l’uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare», perché «allora si tratta di un’esigenza d’autonomia legittima: non solamente essa è rivendicata dagli uomini del nostro tempo, ma è anche conforme al volere del Creatore» (Gaudium et spes, 36). Ma lo stesso Concilio precisa che «se invece con l’espressione “autonomia delle realtà temporali” si intende dire che le cose create non dipendono da Dio, e che l’uomo può adoperarle senza riferirle al Creatore, allora a nessuno che crede in Dio sfugge quanto false siano tali opinioni. La creatura, infatti, senza il Creatore svanisce» (Gaudium et spes, 36). Il principio dell’autonomia delle realtà terrene – se rettamente inteso – porta di conseguenza all’appropriato riconoscimento dell’autonomia dei fedeli laici nel campo “loro proprio” (cf. Apostolicam actuositatem, 7).

          Talvolta, però, il riferimento al principio dell’autonomia in questo ambito si è trasformato in una perniciosa rinuncia a far emergere la valenza antropologica ed etica necessaria per affrontare i contenuti concreti dell’azione sociale, politica ed economica. In tal modo, però, “autonomo” è diventato di fatto sinonimo di “indifferente” rispetto a tali sostanziali valenze. La stessa dottrina sociale della Chiesa ha rischiato, in questo quadro, di essere considerata più come una premessa di pie intenzioni che come un quadro organico e incisivo di riferimento. Insomma, c’è da chiedersi se il mondo cattolico, per sua natura chiamato a essere attento alle grandi sfide antropologiche ed etiche in gioco, non sia stato, da parte sua, corresponsabile, almeno per ingenuità o ritardo o scarsa attenzione, dell’attuale stato di cose. Gli autorevoli inviti ai fedeli laici a un più deciso impegno politico diretto domandano l’assunzione integrale della Dottrina sociale della Chiesa basata su princìpi di riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione e non alchimie partitiche.

'Peggio della cicala'

     C'è ancora un terzo fattore che merita di essere segnalato. Neppure la combinazione di congiunture tanto sfavorevoli avrebbe condotto all’odierna crisi economico-finanziaria se essa non avesse potuto attecchire sul terreno di un’irresponsabilità diffusa: quella che spinge a spendere sistematicamente per i propri consumi ciò che non si è ancora guadagnato. Un comportamento che fino a poco tempo fa sarebbe sembrato così folle da oltrepassare perfino il livello della qualifica morale (di fronte alla saggia formica, l’immorale cicala in fondo consumava soltanto ciò che aveva), ora è percepito sempre più come normale ed è sistematicamente provocato (fino a giungere alla pubblicità che senza vergogna incoraggia ad indebitarsi per fare una seconda vacanza). A comprova di questa deriva basti pensare a un certo modo di concepire i diritti nella nostra società. Negli scorsi decenni, anche in ragione di un considerevole benessere e senza fare i conti con le risorse veramente disponibili, si sono avanzate pretese eccessive in termini di diritti nei confronti dello Stato. Il risultato è stato il formarsi di una società sempre più disarticolata e scomposta. Tale processo ha oscurato un insieme di valori antropologici, etici e, quindi, pedagogici di primaria importanza: la capacità di attendere per la realizzazione di un desiderio; la limitazione dei propri bisogni e il controllo dell’avidità; la cura delle cose invece della loro compulsiva sostituzione; uno sguardo complessivo sulla durata della propria vita e il senso della vita eterna; la solidale condivisione, in nome della giustizia, dei bisogni altrui a cominciare da quelli degli ultimi. Si potrebbe quasi dire che l’odierna crisi ha manifestato una diffusa “oscenità”, nel suo significato etimologico di “cattivo auspicio”, nell’uso dei beni. Tutto questo impone un radicale mutamento degli stili di vita, tanto più che, come molti sottolineano, non sarà possibile e non è neppure auspicabile ritornare al modus vivendi precedente alla crisi.

 

5.    Favorire le pratiche virtuose già in atto

          Nel quadro delle considerazioni antropologiche, etiche e culturali accennate, è opportuno individuare percorsi esistenti in cui impegnarsi sia a livello personale che comunitario. Sono iniziative virtuose che, non a caso, ci stanno domandando un cambiamento degli stili di vita e delle politiche sociali ed economiche.

Lavoro, impresa e finanza I cambiamenti in atto nel mondo del lavoro, dell’impresa e della finanza esigono un ripensamento del significato del lavoro stesso e dello sviluppo e un’attenzione reale ai loro protagonisti. Il lavoro, nel suo senso profondo, dice l’interagire della persona con le cose, con gli altri, con il grande mistero di Dio, che non smette mai di agire nei confronti del creato, come non a caso Gesù dice del Padre (cf. Gv 5,17). Il lavoro remunerato, e il tanto non remunerato, deve essere difeso con opportune politiche che favoriscano la libera intrapresa. Anche un profano riesce a far proprie le indicazioni degli esperti in proposito. Occorre che obiettivo primario di queste politiche sia la rivalutazione della responsabilità personale tanto dei lavoratori quanto degli imprenditori, la creazione di nuovi servizi che favoriscano la crescita professionale e affianchino a percorsi di riqualificazione e formazione un sostegno economico e, infine, la valorizzazione e la creazione di spazi di partecipazione. Perché non riprendere in seria considerazione la proposta che tutti i lavoratori abbiano parte agli utili di impresa? Gli esperti insistono poi sulla necessità di politiche di sostegno al sistema che opera attorno all’impresa in modo che sia accresciuto il livello qualitativo dei prodotti, il rafforzamento dei patrimoni, la promozione dell’esportazione e il cosiddetto “welfare aziendale”. Si tratta di realtà già in atto nel nostro tessuto lombardo che chiedono di essere ulteriormente potenziate. Parlare di lavoro e impresa a Milano non significa solo riconoscere il consistente contributo all’economia “reale”, ossia alla produzione dei beni e dei servizi. Milano ha anche un determinante ruolo finanziario e quindi ha una speciale vocazione, oggi decisiva, per ripensare e rigenerare il lavoro nell’ambito della finanza. Sia l’economia reale, sia la finanza hanno bisogno del “ben fatto”, cioè del “bello”, del “buono”. Lo sapevano bene i nostri artigiani.

          Questo è il senso profondo del richiamo al gratuito - da non confondere col “gratis” - contenuto nella Caritas in veritate. Nel caso della finanza, in particolare, è davvero urgente che chi vi opera e chi la studia, chi la commenta e chi ne fruisce, maturino la consapevolezza che quello della finanza è – per sua natura – un patto potente e delicato, che serve realmente lo sviluppo quando crea relazioni solide e stabili nel tempo. L’appiattimento sul breve periodo dell’orizzonte di chi fa finanza e la spersonalizzazione dei rapporti finanziari, non “pagano” realmente. Anzi, l’esperienza ci insegna che hanno già ripetutamente portato il sistema a momenti critici. Il mercato non deve essere concepito come un moloch che non può essere scalfito: esso non è un fatto di natura, ma di cultura. Famiglia, giovani, anziani e crisi demografica 7 Ancora una volta gli esperti ci dicono che indicatori dell’impatto della crisi economico-finanziaria sulle famiglie sono l’andamento dei consumi, l’indebitamento e l’impoverimento dei nuclei già in condizione di difficoltà. A questi si aggiunge la sempre più preoccupante questione demografica, che porta inevitabilmente con sé quelle della procreazione e dello scambio intergenerazionale, con tutte le implicazioni sociali del caso. Basti pensare, a questo proposito, alla pesante mancanza di equità generazionale di cui il Rapporto-proposta “Il cambiamento demografico”, a cura del Comitato per il Progetto Culturale della Chiesa Italiana, dà chiaro conto a partire dall’invecchiamento della popolazione. Finora il rapporto tra le diverse generazioni all’interno di una stessa famiglia ha consentito, laddove la circolazione equa di risorse veniva interrotta a livello sociale, che essa si riattivasse attraverso il codice della reciprocità e della solidarietà delle reti familiari. La famiglia, in altri termini, ha sostenuto i costi prevalenti del ricambio generazionale: occorre domandarsi fino a quando potrà continuare a farlo ed agire, di conseguenza, in favore della famiglia e della crescita demografica attraverso decise e adeguate politiche specifiche. Un’attenzione del tutto particolare va riservata, quindi, alle giovani generazioni, le più colpite dall’odierna situazione economica. Nelle diverse occasioni di incontro che sempre ho avuto lungo il mio ministero con i giovani, ho toccato con mano la loro ricerca di senso e il loro desiderio di partecipazione alla vita comune, insieme ad un’inevitabile e, per certi versi, comprensibile incertezza. In questa prospettiva integrale è un’urgenza primaria favorire la formazione e il lavoro delle nuove generazioni, anche attraverso un’innovativa concezione delle istituzioni scolastiche ed universitarie, in modo che si promuova con realismo la possibilità di edificare nuovi nuclei familiari.

          Il compito delle parrocchie, degli oratori e delle aggregazioni di fedeli assume in proposito sempre maggior rilevanza. Ho spesso avuto modo di ricordare ai giovani, e voglio farlo anche oggi a tutti noi, che non potranno essere il futuro della nostra società - quante volte questa ovvietà è riproposta demagogicamente! - se non si impegnano fin da ora ad esserne il presente. Non voglio, inoltre, dimenticare la situazione degli anziani, soprattutto di quelli gravemente malati e di coloro che si trovano nell’ombra della morte: spesso mancano non solo degli adeguati mezzi di sostegno, ma anche di una solida compagnia umana che li accompagni nell’ultima, decisiva fase della loro vita.

Povertà ed emarginazione Per quanto riguarda l’impoverimento dei nuclei già in condizione di difficoltà, la capitale economica del Paese non è certo al riparo dai fenomeni di povertà e di esclusione sociale, talvolta estrema. Di fronte poi alle gravi forme di emarginazione presenti nel nostro territorio – penso al numero sempre crescente di coloro che vivono per strada, oppure alle pesanti condizioni in cui versa la popolazione rom o quella delle carceri - non possiamo disattendere l’appello che ci viene dai diversi enti di solidarietà, con la loro folla di volontari: sono in continuo aumento le realtà di volontariato che non riescono a gestire l’incremento delle domande di assistenza.

Immigrazione Per quanto riguarda la popolazione immigrata possiamo domandarci: che fare per rendere compatibile un’immigrazione di lavoratori in un sistema economico in cui il lavoro tende a diventare sempre più un bene prezioso? Una risposta efficace può muovere lungo due direzioni. Da un lato, si potrebbe perseguire l’idea di un’immigrazione sostenibile, cercando di definire quantità e caratteristiche dei flussi in grado di ricevere dignitosa accoglienza e adeguata integrazione nella nostra città; dall’altro ci si dovrebbe orientare verso una ben più decisa valorizzazione delle capacità e del desiderio “di fare” che la grande maggioranza degli immigrati esprime quotidianamente, anche se talvolta disordinatamente per carenza di mezzi e di opportunità. Magnanimità ed equilibrio non si escludono a vicenda, come insegna la grande tradizione di ospitalità che ha sempre fatto onore alla nostra Milano. Per la questione dell’immigrazione non si deve sottovalutare l’importanza del dialogo interreligioso e interculturale che domanda a tutte le confessioni cristiane un impegno deciso nei rapporti ecumenici e in quelli con il popolo eletto di Israele. 

 

6.    Vivere in pace il travaglio quotidiano

          Secondo il biografo, a Fritigil, regina dei Marcomanni convertitasi al cristianesimo, che gli chiedeva consigli sul «come dovesse credere», il vescovo Ambrogio rispose con una lettera in cui, tra l’altro, «la ammonì a convincere lo sposo a mantenere la pace con i Romani». Anche oggi il nostro grande patrono ci indica la via maestra per trovare personalmente e comunitariamente la pace vera in questo frangente di travaglio e di transizione: persuadere, attraverso una decisa autoesposizione, ogni nostro fratello uomo ad assumere un pensiero e una pratica di pace fin nei più piccoli comportamenti quotidiani. Ciascuno, rispettando o vivendo con responsabilità il compito che la storia gli assegna, darà il suo contributo a far sì che il travaglio in atto non esasperi conflitti, ma rappresenti una risorsa per il futuro. La dimensione globale della crisi può favorire la logica della pluriformità nell’unità che ben si addice sia alla vita della Chiesa sia a quella della società civile. [...]

          Sono infine lieto di comunicare che la Chiesa milanese sta elaborando le nuove linee per dare continuità e sviluppo all’importante progetto del Fondo Famiglia e Lavoro, tenacemente perseguito dal mio predecessore il Cardinale Dionigi Tettamanzi. Esse saranno approntate per l’inizio del nuovo anno.Affido queste riflessioni a tutti i fedeli e a tutti gli uomini di “buona volontà”.

 

Card. Angelo Scola

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