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Cosa spinge un uomo a sacrificare la propria vita? Onore a Masao Yoshida, eroe d...

Con una squadra di tecnici e volontari rimase nell'impianto di energia nucleare nonostante le radiazioni mortali. Su una lavagna fece scrivere i nomi di coloro che «rimasero lì a combattere fino alla fine».


Cosa spinge un uomo a sacrificare la propria vita? Onore a Masao Yoshida, eroe di Fukushima

 

È morto di cancro all’esofago, Masao Yoshida, 58 anni, ex direttore della centrale nucleare della Tepco a Fukushima. Quando nel 2011 il maremoto che colpì il Giappone mise fuori uso il sistema di raffreddamento dei 6 reattori della centrale, fu proprio Yoshida a guidare la squadra di 50 persone rimaste a guardia dell’impianto, fra tecnici, operai e ingegneri. Gli uomini da lui guidati riuscirono a evitare un disastro nucleare di incalcolabili proporzioni. Nonostante le radiazioni mortali e gli enormi danni che l’impianto subì, Yoshida e i tecnici della centrale (soprannominati dai media “Fukushima 50”) riuscirono, aiutati in seguito da centinaia di altri uomini, a raffreddare i reattori e a impedire che il nocciolo collassasse.

NON POTEVAMO SCAPPARE. Yoshida è un eroe che non ha mai voluto apparire tale. Non si è mai vantato di quel che ha fatto. Lo ha fatto e basta. Nella prima intervista concessa alla televisione, a un anno e mezzo dalla tragedia, l’ex direttore, già malato di cancro, spiegò di essere stato consapevole dei rischi che avrebbero corso, lui e i suoi colleghi, non abbandonando immediatamente la centrale. «La nostra principale preoccupazione era di trovare un modo per stabilizzare l’impianto». Ha detto così, come si dice quando si deve compiere un mestiere di routine, niente più.

 

Anzi, ha aggiunto solo una frase che rimanda solo al senso del dovere di un comune operaio: «Non potevamo andare via». Però, in mezzo a tutte queste dichiarazioni “normali”, c’era qualcosa che normale non era e di cui sia lui sia i suoi colleghi erano consapevoli: «I Reattori cinque e sei si sarebbero distrutti senza persone a controllarli». Il danno atomico sarebbe stato enorme. «I miei colleghi andavano continuamente all’esterno» della zona di isolamento della centrale «senza fermarsi», affermò Yoshida. Dovevano fermare il surriscaldamento dei reattori danneggiati. Riuscirono a farlo. Nonostante «il livello di radiazione sul suolo fosse terribile», «hanno dato tutto quello che avevano», commentò l’ex direttore della centrale.

 

LA LAVAGNA. Quando nei giorni successivi al maremoto, enormi esplosioni coinvolsero i reattori 1 e 3 e dall’impianto fuoriuscirono isotopi radioattivi, Yoshida credette che stesse per arrivare la fine. Chiese ai colleghi in sala di scrivere i loro nomi su una lavagna: un memoriale nel caso fossero rimasti uccisi. «Volevo registrare tutti i nomi di coloro che rimasero lì a combattere fino alla fine», spiegò il direttore della centrale: «All’epoca non sapevamo che erano esplosioni di idrogeno».

«Quando c’è stata la prima esplosione, ho creduto davvero che avremmo potuto morire», anche  se «sentivo che Buddha vegliava su di noi». Così, alla fine, spiegò Yoshida, «siamo stati in grado di tenere le cose sotto controllo».

Un video girato all’interno del bunker di comando a Fukushima, pubblicato l’anno scorso, dimostra che Yoshida durante le operazioni avesse anche creato una squadra suicida composta da se stesso e dai lavoratori più anziani che erano rimasti nell’impianto e che avrebbero portato avanti un estremo tentativo di raffreddare i reattori, nel caso la situazione fosse peggiorata.

 

 

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