Nessuno potrebbe salvarsi. E se, ad esempio, un'attività è svolta a titolo gratuito o dietro versamento di una retta «di importo simbolico», che non copra nemmeno le spese? Non ha alcuna importanza: «Tale criterio non sembra essere compatibile con il carattere non economico dell'attività». Quindi l'Imu andrebbe pagata comunque.
Un colpo inatteso e pesante: questo è il parere del Consiglio di Stato – Sezione consultiva per gli atti normativi – della riunione dell’8 novembre scorso, reso noto ieri sera. Sfrondato dai ghirigori del linguaggio giuridico e burocratico, il parere dice: tutti paghino l’Imu, se svolgono una qualche attività che la Ue cataloga come «economica», anche se l’attività stessa è di natura socio-assistenziale e senza fini di lucro.
Quindi potrebbe finire per pagare pure la mensa Caritas, che non ha finalità di lucro, ma svolge comunque «attività economica», anche se non si capisce a chi potrebbe fare «concorrenza sleale». Perché questo era il dubbio sollevato fin dal 2006 presso la Ue: le esenzioni Ici (oggi Imu) agli enti non commerciali che svolgono attività anche con modalità commerciali è forse concorrenza sleale a chi svolge attività uguali o analoghe for profit e, dunque, paga l’Ici (Imu)?
Venendo incontro alle precedenti eccezioni mosse dal Consiglio di Stato, di genere essenzialmente formale, il governo aveva provveduto a varare una norma che riscriveva quanto prima contenuto in un semplice regolamento. E stavolta l’apposita Sezione ha approvato la forma ma messo in crisi principi cardine del testo governativo.
Per i giudici del supremo tribunale amministrativo occorre inserire nel testo «il concetto di attività economica, inteso in senso comunitario». A loro parere, «per chiarire la distinzione tra attività economiche e non economiche, la giurisprudenza ha costantemente affermato che qualsiasi attività consistente nell’offrire beni e servizi in un mercato costituisce attività economica». Che questo si faccia senza fini di lucro sarebbe irrilevante. Perché enti "non commerciali", che svolgano attività assistenziale, sanitaria, didattica, ricettiva, culturale, ricreativa e sportiva, «possono, in taluni casi, trovarsi a svolgere attività economiche in concorrenza con analoghi servizi offerti da altri operatori economici». Per questo gli immobili in cui operano non possono essere esenti da Imu.
Nessuno potrebbe salvarsi. E se, ad esempio, un’attività è svolta a titolo gratuito o dietro versamento di una retta «di importo simbolico», che non copra nemmeno le spese? Non ha alcuna importanza: «Tale criterio non sembra essere compatibile con il carattere non economico dell’attività». Quindi l’Imu andrebbe pagata comunque.
Il parere è complesso e lungo, ma la sostanza appare chiara. Lo scollamento tra la posizione elaborata dal Governo e quella espressa dalla sezione del Consiglio di Stato che si è pronunciata è evidente e singolare. Sembra che in sede di giustizia amministrativa si vogliano far proprie le tesi più radicali nell’interpretazione del diritto della Ue, ignorando e penalizzano le peculiarità italiane, del nostro welfare sussidiario largamente basato sulle realtà non profit del Terzo Settore. Non riconoscendo una specificità disinteressata e di servizio sociale e sottoponendo a ulteriore tassazione «attività economiche» (sic) che non si sa a chi facciano «concorrenza sleale». Ma se parti importanti del Terzo Settore non riuscissero più a garantire i loro servizi, lo Stato in piena era di tagli alla spesa (e alla spesa sociale) sarebbe costretto a intervenire direttamente. Mortificate le iniziative della società civile, penalizzate le persone a cui garantiscono servizi, tendenzialmente aggravati i conti pubblici. Un bel risultato. La parola torna al Governo.
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