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Caro D'Avenia, i miei alunni sono così diversi dai suoi

Gentilissimo sig. D'Avenia, faccio solo una fatica tremenda a riconoscere nei giovani che lei descrive, i «giovani» che ho davanti a me tutti i giorni. Diciamola tutta: sono un docente di «serie B» che insegna in una scuola di «serie B» ...


Caro D'Avenia, i miei alunni sono così diversi dai suoi

da Quaderni Cannibali

del 12 dicembre 2011(function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk'));

          Gentilissimo sig. D’Avenia, ho molto apprezzato il suo bell’articolo di domenica scorsa su La Stampa e condivido gran parte delle sue considerazioni. Faccio solo una fatica tremenda a riconoscere nei giovani che lei descrive, i «giovani» che ho davanti a me tutti i giorni. Io insegno elettrotecnica in una scuola professionale. Diciamola tutta: sono un docente di «serie B» che insegna in una scuola di «serie B» e le assicuro che questo non è vittimismo, ma una semplice constatazione. Nelle nostre scuole, (almeno qui in provincia, nelle grandi città non saprei) non si iscrivono più i ragazzi che una volta ultimato il percorso dell’obbligo vogliono imparare un mestiere, ma coloro che per una ragione o per l’altra non riescono a fare nient’altro e sono obbligati a raggiungere i dieci anni di scolarità. Un tempo era diverso, lo so.

          Oggigiorno, quelli che davvero hanno «passione» per un lavoro pratico e si iscrivono a un percorso professionale, sono all’incirca il 30%. Gli altri vengono da noi, le ripeto, perché «è più facile», «non c’è tanto da studiare», «sa, mio figlio non ha voglia, per cui…». E noi ci ritroviamo in classe accozzaglie di ragazzi vuoti, demotivati, disinteressati, annoiati, nervosi, violenti, problematici in tutti i sensi e non abbiamo sufficienti risorse e aiuti per gestirli. Quest’anno io ho una media di 28 ore settimanali in 13 classi diverse. Ci sono classi dove ho paura ad entrare, nonostante il mio metro e 84 e i miei 45 anni. Abbiamo gruppi di 25-30 ragazzi stipati in spazi ridottissimi, fra i quali ci sono ragazzi che non sanno fare una moltiplicazione, non distinguono un angolo da 60° da uno di 90°, non hanno mai né materiali scolastici, né la minima intenzione di utilizzare il cervello per imparare qualcosa di diverso dell’arrotolarsi una cicca: semmai si cimentano nel trovare un nuovo insulto da dedicare alla mamma o alla sorella del compagno. O al loro sport preferito: dormire. Sono vecchi, morti dentro, sembra abbiano vissuto tutto e nulla possa più sorprenderli. Lo scoraggiamento arriva dopo che hai adoperato tutti i metodi possibili per incuriosirli, per far lezioni non noiose e hai usato computer, fantasia, «cooperative learning»… insomma tutto quel che i tuoi limiti ti consentono e ottieni in cambio soltanto maleducazione e menefreghismo. Ti arrendi e ti stupisci di come descrivono i giovani gli altri. Quelli che vedi tutti i giorni sono altra cosa.

          Sa… io ho due figli adolescenti, di 15 e 17 anni. Mi meraviglio che leggono, studiano, fanno sport, capiscono quello che dico e mi stanno ad ascoltare, mi lasciano perfino finire di parlare, prima di obiettare o di mandarmi a quel paese. Così dò loro la colpa di non avermi «allenato»: dovevano essere più problematici, sarei diventato un insegnante migliore. Perlomeno avrei condiviso un modo di «guardare» dentro ai giovani che mi piacerebbe poter fare, ma che non mi riesce. Una barriera invisibile mi divide dai «giovani» di tutti i giorni. Li sfoca. Come faccio a sognare un futuro con «giovani» così? Vorrei tanto essere Pennac…

Silvano B.

  

          «Caro Silvano, per me è un onore avere colleghi come lei: persone che nel silenzio lottano tutti i giorni in un contesto che sembra più una trincea e non restituisce nulla o quasi. Ma come racconti tu stesso (scusa se passo al tu, ma tra colleghi credo mi sia consentito) i tuoi figli sono diversi da quei ragazzi che trovi in classe. La differenza è lì e anche la speranza: e sta nel fatto che tu hai educato i tuoi figli. Se non c’è una famiglia alle spalle che cosa possiamo mai fare noi a scuola? A volte i genitori chiedono a noi miracoli che non possiamo né dobbiamo fare, o parcheggiano i figli tra le mura scolastiche delegando una educazione che non hanno dato in casa. Inoltre mi rattrista che non si faccia nulla per questo tipo di indirizzi scolastici, abbandonati da decenni e conservati come rifugio per chi non vuole far nulla, punta dell’iceberg di una scuola che è diventata solo un ammortizzatore sociale. Nell’articolo per questo parlo di ripartire da scuola e famiglia.

Senz’altro il mio osservatorio cittadino e liceale è diverso dal tuo e la motivazione di partenza dei ragazzi è diversa. Quindi non ho soluzioni sensate e adeguate.

          Le puoi avere solo tu, che conosci i tuoi colleghi e i tuoi ragazzi. E non si tratta di essere Pennac, ma di concentrarsi su quel 30% motivato di cui parli e farli diventare il traino per gli altri e la ragione dei tuoi sforzi. Sono stato in scuole come la tua in cui l’unità di intenti tra gli insegnanti e un dirigente come si deve riescono a fare miracoli, e non scherzo. Da te può partire questa piccola rivoluzione, ma insieme ai tuoi colleghi: a volte ne bastano due o tre (noi insegnanti, Silvano tu lo sai, moriamo di solitudine e di invidie).

          Ma se non lo fai tu, chi lo fa? A questo ti chiama una realtà difficile e quasi asfissiante, ma io sono sicuro che se li tiri su come i tuoi due figli qualcosa accadrà. Forse ne stanerai uno, due, magari tre. E questo è un futuro migliore che se fossero tutti abbandonati alla loro morte in vita.

          Grazie per quello che fai. Grazie per la tua lettera, che spero molti leggeranno: neo-ministro dell’Istruzione compreso. Magari un giorno gli eroi silenziosi della scuola come te verranno riconosciuti. Nel frattempo facciamo quel poco che ci è dato».

Alessandro D'Avenia

Alessandro D'Avenia

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