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Capitolo settimo. CON DIO NELLA PREGHIERA.

"La dimensione contemplativa si esprime nell'universo della liturgia, dell'ascolto della Parola, della preghiera; ed altro ancora."


Capitolo settimo. CON DIO NELLA PREGHIERA.

da Don Bosco

del 07 dicembre 2011

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          L'intensità della vita teologale dà la misura dell'intensità della vita spirituale. Quando essa diventasse languida nei discepoli di Cristo, la Chiesa, secondo S. Caterina da Siena, diventerebbe «tutta pallida». A sua volta, come la fede e la speranza, la carità, che unisce al Dio vivo in Cristo e nello Spirito Santo, per crescere e fruttificare ha bisogno di nutrirsi degli elementi e delle energie essenziali proprie della vita cristiana. Tra questi elementi, il Concilio Vaticano II insiste sull'«applicazione costante alla preghiera» (LG, n. 42). Perché, come scrive la Congregazione per i Religiosi e gli Istituti secolari, nel suo documento sulla Dimensione contemplativa della vita religiosa, «la preghiera è il respiro indispensabile di ogni dimensione contemplativa» (n. 5), che il Vaticano II definisce lo sforzo di «aderire a Dio con la mente e col cuore» (PC, n. 5).

La dimensione contemplativa si esprime nell'universo della liturgia, dell'ascolto della Parola, della preghiera; ed altro ancora.

Consideriamo ora la contemplazione orante di don Bosco: vogliamo dire la sua preghiera 'formale' o 'preghiera-esercizio', la quale comporta la rottura con ogni altra forma di attività - pregare così è non fare altro - e la sua preghiera 'diffusa' o di 'atteggiamento'.

Sulla preghiera in questi ultimi anni sono stati scritti libri a non finire, che occupano interi scaffali delle biblioteche ecclesiastiche. Non tutti ugualmente trasparenti; non tutti a proposito. Sull'essenza della preghiera del cristiano piace fare propria la densa formulazione di G. Gozzelino: «Lo specifico della preghiera cristiana si riassume nell'essere intieramente trinitaria ed ecclesiale perché cristologica: nel rispondere, nello Spirito e con la Chiesa, da figli nel Figlio incarnato, al Padre. Canone supremo della orazione credente è la dossologia conclusiva delle preghiere eucaristiche, proclamata dal celebrante a nome dell'intera assemblea e da essa ratificata: «Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a Te, Dio Padre onnipotente, nell'unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria, per tutti i secoli dei secoli. Amen». Consapevole o meno, il cristiano che prega non prega che così; e così pregava don Bosco. Ma vien fatto di domandarsi previamente:

 

Poteva pregare don Bosco?

La domanda non è retorica: scende direttamente da quanto abbiamo appena detto della sua attività multiforme e pressoché continua, la quale sembrava sequestrarlo a quella preghiera esplicita che si riscontra così ampia nella vita di tutti i santi. Fece scandalo in un tempo in cui non erano pochi quelli che consideravano il lavoro come un tempo tolto alla preghiera.

Effettivamente la sua causa di Beatificazione ha urtato contro la difficoltà della troppo esigua presenza della preghiera nella sua vita. La preghiera «esplicita» è infatti una modalità essenziale della vita cristiana, ed una modalità esigente. Si consideri la preghiera, sul piano soggettivo e psicologico, come 'elevazione a Dio', come 'ascolto', 'dialogo' o 'conversazione' con Lui, oppure la si consideri, sul piano oggettivo, come 'adesione' spirituale al piano salvifico ed al Regno di Dio già presente sulla terra, la (preghiera-pregata» reclama la sospensione da ogni attività esterna, concentrazione, raccoglimento, luogo e tempo adatti; tutte cose che in una vita dominata e come divorata dall'azione, come quella di don Bosco, sembravano impossibili.

Il Santo aveva pregato, certamente, ma, si obiettava, non a sufficienza. Dobbiamo riconoscere che non era facile giudicare don Bosco col parametro tradizionale. Nel suo modo di agire egli si dimostrava realmente molto diverso dagli altri santi. «È notorio - leggiamo in una testimonianza dei Processi - che il Servo di Dio domandava continuamente e da tutte le parti per avere i mezzi onde sviluppare le sue opere. In questo ritengo che il Servo di Dio si sia dimostrato ben diverso dall'agire degli altri santi, in quanto che gli altri avrebbero fatto miracoli per non ricevere eredità: così S. Filippo Neri. Egli ne avrebbe fatti per averne e ne ebbe per far fronte ai bisogni dell'Oratorio».

In pratica a don Bosco venivano mosse le seguenti imputazioni: «Per raggiungere i suoi scopi - obiettava la Censura - don Bosco contava molto sulla propria sagacia, iniziativa ed attività e usava in lungo e in largo di tutti i mezzi umani. Più che sull'aiuto divino cercava gli appoggi umani con inesplicabile sollecitudine giorno e notte, fino all'estremo delle forze («usque ad extremam fatigationem»), fino al punto di non essere più capace di attendere agli impegni della pietà».

Secondo un altro censore, l'orazione avrebbe avuto pressoché nessuna rilevanza nella vita di don Bosco: «In tema di orazione propriamente detta, della quale tutti i fondatori delle nuove congregazioni hanno fatto il massimo conto, trovo, si può dire, nulla: nihil vel fere nihil reperio». E concludeva: «Come si può dire eroico uno che è stato così carente nella pratica dell'orazione vocale? Poteritne heroicus in pietate dici qui adeo deficiens in oratione vocali apparet?

La situazione veniva aggravata dal fatto che don Bosco, sia pure a causa di un persistente male di occhi di cui soffriva fino dal 1843, ma anche in vista delle eccessive occupazioni, aveva ottenuta la dispensa dalla recita del breviario da Pio IX: prima a viva voce, poi con regolare rescritto della Sacra Penitenzieria (19.XI.1864).

Mai nella storia dei processi apostolici era accaduto una cosa simile: «numquam de aliis sanctis Viris auditum est!».

Dobbiamo convenire che l'ideale di santità che si è imposto alla coscienza cristiana - come si è visto - è qualcosa di così puro ed elevato che basta una accusa leggera per abbassarne l'aureola. L'idea che - dopo il Concilio di Trento e sotto l'influsso della scuola francese - si aveva del sacerdote era in prevalenza, come abbiamo ricordato, quella dell'uomo di culto e di preghiera. Don Bosco si scostava, incautamente, dal modello tradizionale degli altri santi, anche solo torinesi, come ad esempio dal Cafasso suo maestro e dallo stesso Murialdo, il quale impiegava anche quattro ore nel preparare la S. Messa, nel celebrarla e nel ringraziare.

E un fatto che invano si cercherebbero in don Bosco quelle manifestazioni esteriori di preghiera, che si trovano nei santi coevi, come nel Curato d'Ars, in S. Antonio M. Claret, grandissimi apostoli. Don Bosco - scrive don Ceda - «non dedicava lungo tempo, come fecero altri santi, alla meditazione».

Ma avere un proprio modo di preghiera non è lo stesso che non pregare o pregare troppo poco. Non fu, infatti, difficile superare questa difficoltà, sia verificando meglio le deposizioni dei testi citati, sia giudicando della sua preghiera nella sua globalità. Un contributo decisivo alla causa di don Bosco fu quello di don Filippo Rinaldi, il quale, in data 29 settembre 1926, scrivendo al Cardinale Prefetto della Congregazione dei Riti, attestava, tra l'altro: «E qui, Eminenza, mi permetta di aggiungere essere mia intima convinzione che il Venerabile fu proprio un uomo di Dio, continuamente unito a Dio nella preghiera. Negli ultimi anni, dopo le mattinate spese nel ricevere persone d'ogni ceto e condizione sociale che da ogni parte accorrevano a lui per consiglio, per riceverne la benedizione, ogni giorno soleva starsene ritirato in camera dalle 14 alle 15 e i Superiori non permettevano che in quell'ora fosse disturbato. Ma essendo io, dal 1883 alla morte del Servo di Dio, incaricato di una casa di formazione di aspiranti al sacerdozio ed avendomi egli detto che andassi a trovarlo ogni volta che ne avessi bisogno, forse con indiscrezione, certo per poterlo avvicinare con maggiore comodità, ruppi più volte la consegna, e non solo all'Oratorio, ma a Lanzo, a S. Benigno, dove si recava sovente, e a Mathi e nella casa di S. Giovanni Evangelista in Torino, più volte mi recai da lui proprio in quell'ora per parlargli. E a quell'ora, dappertutto e sempre, lo sorpresi ogni volta, raccolto, con le mani giunte, in meditazione».

 

Don Bosco «uomo di preghiera».

Quantitativamente e qualitativamente diversa da quella di altri santi, la preghiera di don Bosco risultava, però, non meno vera e profonda alla prova dei fatti. Le testimonianze hanno svelato via via in don Bosco una insospettata ed esaltante attività di preghiera. Mancavano le esteriorità, i grandi gesti, ma la preghiera irrompeva per ogni dove.

Di lui si poteva affermare ciò che fu rilevato nella vita di S. Bernardo: «sempre occupato in tanti affari: la periferia, in quella sua vita, non dava noia al centro e il centro non dava noia alla periferia. Periferia era l'attività esteriore, centro il mistico raccoglimento interno» (E. Cena).

Si può dire - ha dichiarato don Barberis - «che pregava sempre; io lo vidi, potrei dire, centinaia di volte salendo e scendendo le scale sempre in preghiera. Anche per via pregava. Nei viaggi, quando non correggeva bozze, lo vedevo sempre in preghiera». «In treno - era solito dire ai suoi figli - non si stia mai in ozio, ma si dica il breviario, si reciti la corona della Madonna, o si legga qualche buon libro».

In qualunque momento gli si domandassero consigli spirituali, li aveva pronti «come se uscisse in quel momento dal discorso con Dio».

Dispensato dalla recita del Breviario, lo diceva in realtà quasi sempre e con grande devozione; impedito da forza maggiore vi suppliva, come risulta da questa sua formale ed eroica promessa, «col non fare atto o pronunziar parola che non avesse di mira la gloria di Dio».

Testimonianze ineccepibili dicono che quando pregava «aveva dell'angelo». «Pregava in ginocchio con la testa leggermente china, aveva un'aria sorridente. Chi gli stava vicino non poteva fare a meno di pregare anche lui bene. Son vissuto - depose il Coadiutore P. Enria - con lui 35 anni e l'ho sempre veduto a pregare così».

Considerava la preghiera come la spartizione volontaria, da parte di Dio, della sua onnipotenza con la debolezza umana e le dava una precedenza assoluta: «La preghiera, ecco la prima cosa». «Non si comincia bene - diceva - se non dal cielo».

La preghiera era per lui un primum» assolutamente indispensabile, perché la preghiera «ottiene tutto e trionfa di tutto». Essa è ciò che è «l'acqua al pesce, l'aria all'uccello, la fonte al cervo, il calore al corpo», «al soldato la spada». «La preghiera fa violenza al cuore di Dio».

Predicando gli esercizi ai suoi giovani salesiani, raccomandava il detto dell'Apostolo: «Sine intermissione orate» (1iTs 5,17). Faceva volentieri propri gli alti elogi che la Tradizione cristiana ha sempre fatto della preghiera. «I Padri la chiamano la catena d'oro con cui ci leghiamo al cielo, il pane dell'anima, la chiave del paradiso». Non è possibile impegno cristiano senza preghiera: «Tutti quelli che si diedero al servizio del Signore fecero costantemente uso della preghiera».

Anche la veglia notturna doveva essere occasione di preghiera. «Venuta l'ora del riposo, coricarsi con le mani giunte sul petto. Pregare finché ci siamo addormentati, e, qualora nella notte ci svegliamo, ripigliare la preghiera; dir delle giaculatorie, baciare l'abitino, o il crocifisso, o la medaglia che si porta in dosso. Aver nella cella un poco di acqua benedetta: fare il segno della S. Croce con fede».

Si dirà che si tratta di gesti devoti superati dal tempo; eppure sono semplicemente atti radicati nella pietà cristiana, vivi nella vita e nella prassi di anime semplici anche oggi. Perché non lasciare allo Spirito la libertà di spirare come vuole e dove vuole?

La sua istituzione è fondata sulla preghiera: «Diedi il nome Oratorio a questa casa, per indicare ben chiaramente come la preghiera sia la sola potenza su cui possiamo fare affidamento».

A Valdocco la preghiera e lo spirito di preghiera si respiravano nell'aria. Si potevano leggere sul volto dei suoi abitanti, molti dei quali formeranno la prima generazione salesiana: «Noi - scrive E. Cena - li abbiamo conosciuti: uomini così differenti d'ingegno e di cultura, così diseguali nelle loro abitudini: in tutti però spiccavano certi comuni tratti caratteristici, che ne costituivano quasi i lineamenti di origine. Calma serena nel dire e nel fare; paternità buona di modi e di espressioni, ma particolarmente una pietà la quale ben si capiva essere nel loro concetto l'ubi consistam, il fulcro della vita salesiana. Pregavano molto, pregavano devotissimamente: ci tenevano tanto a che si pregasse e si pregasse bene; sembrava che non sapessero dire quattro parole in pubblico o in privato, senza farci entrare in qualche modo la preghiera. Eppure quegli uomini non mostravano di possedere grazie straordinarie d'orazione: infatti noi li vedevamo compiere con ingenua semplicità nulla più che le pratiche volute dalle regole o portate dalle nostre consuetudini».

La preghiera di don Bosco, che è preghiera di apostolo ed educatore, ha, in ogni modo, caratteristiche ed originalità proprie; autentica e completa nella sostanza, lineare e semplicissima nelle sue forme, popolare nei suoi contenuti, allegra e festiva nelle sue espressioni, è veramente una preghiera alla portata di tutti, dei fanciulli e degli umili in particolare.

È soprattutto la preghiera dei fedeli di vita attiva e degli apostoli, essendo intrinsecamente ordinata all'azione e vincolata ad essa. Una preghiera, perciò, che non è mai disimpegno e fuga dal mondo, da trasformare secondo il progetto di Dio, o dagli uomini, da conquistare a Cristo. L'espressione di don Bosco «Da mihi animas, caetera tolle», «O Signore, datemi anime e prendetevi tutte le altre cose», prima che il suo motto è sempre la sua più ardente preghiera. Una preghiera di natura apostolica, perché ogni forma di preghiera è marcata dalla vocazione e missione particolare.

Come nella vita di ogni autentico apostolo, l'orazione esplicita precede, accompagna - nelle forme adatte - e segue l'agire di don Bosco come un fattore irrinunciabile e necessario.

Lo precede, perché è nella preghiera che don Bosco pensa l'azione in Dio e secondo Dio, e la finalizza al suo volere e alla sua gloria. «Noi cominciamo le nostre opere con la certezza che Dio le vuole». Questa certezza si fondava sulla preghiera. Prima di assumersi la responsabilità di fondare l'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, le «preghiere comuni e private» di tutto il mese di maggio furono indirizzate da lui e dai suoi più diretti collaboratori a questo fine. Bene ha interpretato l'agire di don Bosco Pio XI quando ha detto: «È con la preghiera e col sacrificio che si prepara l'azione».

L'accompagna, nelle brevi pause meditative, come domanda di grazia, come implorazione di aiuto nell'ora della stanchezza e della prova: «Non abbattiamoci d'animo nei pericoli e nelle difficoltà, preghiamo con fiducia e Dio ci darà il suo aiuto». La preghiera - asseriva - «è una potente cooperazione», e soggiungeva: «Se assolutamente non possediamo nulla [per fare elemosina] vi è l'opera delle opere: la preghiera». Sono espressioni sulle quali non si può passare sopra a cuore leggero: posso no solo venire da chi vive l'incessante unione con Dio e ha fatto della preghiera il respiro della propria vita.

Lo segue come rendimento di grazie: «Quanto è buono il Signore!»; «Dio fa le sue opere con magnificenza».

La preghiera di don Bosco non vive nel limbo delle buone intenzioni: prende corpo in quelle che egli chiama «pratiche di pietà». Scrive A. Caviglia: «Don Bosco non ha creato nessuna forma speciale di pratica o di preghiera o devozione come la Salve Regina, il Rosario, gli Esercizi, la Via Crucis e via dicendo. Egli è indifferente alle formule e, in certo senso, anche alle forme; è realista e semplificatore e bada alla sostanza».

Anche come fondatore non sente il bisogno d'imporre ai suoi discepoli altre pratiche comunitarie che non siano quelle del «buon cristiano» e del «buon prete», se si tratta di preti.

Dal prete esigeva, essenzialmente, quanto si praticava in Convitto: celebrazione devota della S. Messa, Ore liturgiche, meditazione, lettura spirituale non disgiunta dalle 'pratiche' e 'devozioni' del buon cristiano. Quali fossero le (pratiche del buon cristiano» non è difficile dire. Sono le preghiere e gli atti di pietà - ma anche la recita di formule che preghiere non sono, come ad esempio, le sette opere di misericordia corporale e spirituale, i dieci comandamenti, ecc. - riportate nel catechismo della diocesi, che resta invariato nel tempo di don Bosco, o contenute nei «regolamenti di vita» proposti da autori spirituali. A questo andavano unite le altre pratiche quotidiane, settimanali, mensili, annuali, vive nel tessuto del costume cristiano, come: la frequente confessione e comunione, le visite al SS.mo Sacramento, il ritiro mensile della Buona morte, gli Esercizi spirituali annuali, rifioriti a Torino all'inizio del secolo.

In queste pratiche devozionali, che lussureggiavano nell'ottocento accanto all'azione liturgica e spesso entro la stessa liturgia - si pensi al modo con cui si partecipava alla S. Messa - don Bosco vedeva il tracciato concreto, e possiamo dire anche ideale, della vita di preghiera degli umili. Era infatti l'itinerario di preghiera proposto dalla Chiesa, e la Chiesa non propone mai mezzi inadeguati di santità.

Puntando sui «doveri generali del buon cristiano» don Bosco puntava dunque in alto. Quantitativamente, perché offriva all'iniziativa personale la possibilità di fare un numero grande di 'pratiche' o di 'esercizi': basta scorrere il Giovane Provveduto, che è il manuale di preghiera proposto dal Santo ai giovani, per rendersene conto. Qualitativamente, perché don Bosco sapeva inoculare nei suoi giovani il 'gusto' della preghiera e quello «spirito di nobile precisione» di cui parlava Pio XI.

«Si facciano bene - insisteva - le genuflessioni e i segni di croce per invogliare alla preghiera». Se poi don Bosco, in sintonia con lo spirito del suo secolo, enfatizza le pratiche devozionali, va anche detto che non tollera esagerazioni o intimismi pericolosi. Il criterio che lo guida è pratico e autenticamente soprannaturale.

Non possiamo dimenticare che la sua scuola di preghiera ha espresso giovani santi ed eroici. Non gli faremo neppure il torto di aver prospettato la vita di preghiera in funzione prevalentemente ascetica, come allora si usava. La «Laus Deo», la «dimensione misterica della liturgia» erano pur sempre i pilastri della vita cristiana. Il cristiano si trova immerso nella preghiera e nell'azione liturgica della Chiesa, che riattualizza nell'anno i misteri della vita di Cristo, misteri-per-noi. È impensabile che don Bosco non vibrasse con la preghiera liturgica, per quanto povera, perché imperava il devozionismo; ma non è detto che il devozionismo non producesse buoni frutti. Le pratiche devote, diceva don Bosco, «sono il cibo, il sostegno, il balsamo della virtù».

Possiamo però dire, con assoluta certezza, che egli, così fedele alle disposizioni della Chiesa e del Papa, accoglierebbe oggi con entusiasmo gli indirizzi e le linee di rinnovamento liturgico proposti dal Vaticano II. Non dimentichiamo che, a suo modo e al suo tempo, è apparso un innovatore della liturgia giovanile. La voleva infatti ricca di partecipazione e di coinvolgimento, ricca di spontaneità e di iniziativa, varia e festosa, aderente alla vita e rivolta all'eternità.

 

Le «preghiere brevi»

«La vita attiva cui tende la nostra Congregazione - leggiamo già nella primitiva redazione delle Costituzioni (1858-1859) - fa che i suoi membri non possono avere comodità di far molte pratiche in comune». Questa espressione insinua, implicitamente, che sono possibili e raccomandabili molte altre forme di preghiera personale. Tra queste don Bosco, seguendo l'insegnamento del Convitto, ha sempre dato grande importanza alle giaculatorie.

L'«oratio iaculatoria», (furtiva», è l'orazione (pura» e «breve» della tradizione monastica, che prolunga nella giornata la preghiera del coro. Gli antichi la consideravano il frutto più bello della «lectio divina» e della «meditatio». S. Agostino ne parla come di «rapidi messaggi che partono all'indirizzo di Dio». S. Francesco di Sales le definisce «brevi, ma ardenti slanci del cuore» a Dio, e soggiunge: in esse «consiste la grande opera della devozione». «È l'inveramento più realistico della preghiera respiro dell'anima» (G. Gozzelino). Alterna momenti ravvicinati e più intensi ad altri più virtuali ed impliciti.

Non altrimenti pensava don Bosco, il quale vedeva nelle «giaculatorie» come un concentrato dell'orazione vocale e mentale del mattino: «Le giaculatorie - diceva - raccolgono in breve l'orazione vocale e mentale partono dal cuore e vanno a Dio. Sono dardi infuocati che mandano a Dio gli affetti del cuore e feriscono i nemici dell'anima, le tentazioni, i vizi».

Per il Santo, in caso di necessità, esse potevano sostituire la meditazione impedita. «Ogni giorno ciascuno, oltre alle orazioni vocali, attenderà per non meno di mezz'ora all'orazione mentale, se non ne sia impedito dall'esercizio del ministero, nel qual caso vi supplirà con la maggior frequenza di giaculatorie e indirizzando a Dio con maggior intensità di affetto quei lavori che gli impediscono degli stabili esercizi di pietà». Chiamava questa supplenza meditaione dei mercanti: «Raccomando l'orazione mentale. Chi non potesse fare la meditazione metodica a cagione di viaggi o di qualche impegno o affare che non permetta dilazione, faccia almeno la meditaione che io dico dei mercanti. Questi pensano a comprare le merci, a rivenderle col loro profitto, alla perdita che potrebbero fare, a quelle fatte e come ripararvi, ai guadagni realizzati e quelli maggiori che potrebbero conseguire e via dicendo».

È quanto S. Francesco di Sales - con un'immagine più familiare ai suoi destinatari - afferma nella sua Filotea, non ignota a don Bosco: «Come coloro che sono presi da un amore umano e naturale hanno quasi di continuo il pensiero rivolto all'essere amato, il cuore colmo di affetto verso di quello, la bocca piena delle sue lodi allo stesso modo coloro che amano Dio non possono fare a meno di pensare a Lui».

Le aspirazioni, le giaculatorie appunto, preghiera quanto mai facile, essenziale, segreta, sempre alla portata di mano, servivano al Santo dei giovani meravigliosamente per mantenere desto il pensiero a Dio. Il fervore con il quale prorompevano dal suo cuore nell'età avanzata dimostra quanto questa preghiera fosse radicata nella sua vita.

 

Preghiera-atteggiamento.

Gli «Esercizi di pietà», le «preghiere brevi» (preghiera-esercizio) non sono tutta la preghiera di don Bosco. Un'altra forma, prevalente o pressoché continua, è quella che sotto diverse connotazioni presenta significati affini: preghiera 'generale', 'implicita', 'virtuale', 'diffusa'. Oggi si preferisce dirla «preghiera di vita», «preghiera in situazione», «preghiera-atteggiamento». È, presenza ed attenzione consapevole a Dio nelle sequenze della vita quotidiana.

È preghiera vera - lode, adorazione, offerta, ecc. - perché è un camminare con Cristo dentro le realtà umane e un vivere in Lui, con Lui e per Lui. Vera, direbbe Leonzio di Grandmaison, in senso generale, perché «ci unisce a Dio, ci rende flessibili e docili alle sue ispirazioni, ci intona con la sua volontà di preferenza e di beneplacito, perché, pur supponendo un certo numero di atti positivi, persevera anche dopo, per molto tempo, e informa la nostra vita ben al di là dei pochi momenti consacrati a tali atti». È lo stile cristiano dell'esistenza, la Liturgia della vita, con cui i fedeli «si offrono in servizio di amore a Dio e agli uomini aderendo all'azione di Cristo» (Costituzione Apostolica Laudis Canticum, sulla Liturgia delle Ore, n. 8). È il modo pratico di realizzare la parola del Vangelo: «Pregate sempre».

Da Origene in poi, la tradizione cristiana applica queste parole anche alla preghiera esplicita o delle «buone opere» o della «buona vita». Prega sempre chi prega ogni giorno e nel tempo di agire non fa che opere buone, conformi alla volontà di Dio.

S. Agostino afferma: «Non tantum lingua canta sed etiam assumpto bonorum operum psalterio»: «canta a Dio non soltanto con la lingua, ma pigliando anche in mano il salterio delle buone opere». Guidato dallo Spirito, don Bosco si muove perfettamente in questo orizzonte.

È molto significante il fatto che egli, stilando le Costituzioni per i suoi salesiani, metta nel capitolo delle «Pratiche di pietà» questi due articoli, che si riferiscono più alle «buone opere» che alla preghiera propriamente detta: «La vita attiva cui tende la nostra Congregazione fa che i suoi membri non possano aver comodità di fare molte pratiche in comune; procureranno di supplire col vicendevole buon esempio e col perfetto adempimento dei doveri generali dei cristiani». «La compostezza della persona, la pronunzia chiara, devota, distinta delle parole dei divini uffizi, la modestia nel parlare, vedere, camminare in casa e fuori di casa, devono essere cose caratteristiche dei nostri congregati».

Siamo in linea con l'insegnamento di S. Paolo: «Quello che fate in parole ed opere, tutto si compia nel nome di Gesù, come canto di grazie al Padre per mezzo di Lui» (('of 3,17). L'Apostolo è ancora più chiaro: «Sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fatelo per la gloria di Dio» (1Cor 10,31).

Il linguaggio della preghiera viene usato a proposito del modo cristiano di vivere, Si preghi o si lavori è possibile il rapporto reale e l'unione indistruttibile con Dio. Così pensava don Bosco quando esortava - «e lo faceva migliaia e migliaia di volte» (Card. Cagliero) - a lavorare per la «gloria di Dio», aderendo profondamente alla sua volontà.

È l'amore di carità, vetta della vita teologale, che dà consistenza ed unità alla vita. Lavoro e preghiera non sono che due momenti dello stesso amore.

In questo senso, ma solo in questo senso, si può dire che lavoro è preghiera. E questo, secondo don Cena, è stato il grande segreto di don Bosco, il tratto più caratteristico: «La differenza specifica della pietà salesiana è nel saper fare del lavoro preghiera». Pio XI ne ha dato solenne conferma: «Questa, infatti, era una delle più belle caratteristiche di lui, quella cioè di essere presente a tutto, affaccendato in una ressa continua, assillante di affanni, tra una folla di richieste e consultazioni, e avere lo spirito sempre altrove, sempre in alto, dove il sereno era imperturbato sempre, dove la calma era sempre dominatrice e sovrana, così che in lui il lavoro era proprio effettiva preghiera, e si avverava il grande principio della vita cristiana: qui laborat orat..

Non ci sono santi senza orazione straordinaria e tale fu quella di don Bosco. Una preghiera intima, sentita, senza incrinature, nascosta sotto un viso sereno ed un fare spontaneo, che bisognava però sapere scoprire.

E stato un lavoratore formidabile, ma anche un grande orante. Pregava molto da solo silenziosamente, e quasi furtivamente, perché gli ripugnava farsi notare; pregava con i suoi giovani «sempre», fin quando le sue occupazioni glielo permisero; pregava prima di predicare, prima di esercitare il ministero, prima di avvicinare personaggi importanti, prima di affrontare situazioni delicate e difficili; pregava più intensamente nell'ora delle prove durissime che attraversarono la sua vita. Come educatore non si stancò di instillare nell'animo dei giovani l'amore per la preghiera, che sapeva rendere gradita, fatta a misura di giovane. Ma la voleva sincera, fervorosa, piena di fede: «Le preghiere devono essere manifestazione di fede che inviti gli astanti a lodare Dio».

Don P. Albera, profondo conoscitore del suo spirito, afferma: «Le stesse opere di pietà voleva che fossero più spontanee che prescritte». Quando vedeva, lungo il giorno, un buon numero di giovani recarsi in chiesa spontaneamente per pregare, trasaliva di gioia: «Questa è per me la massima delle consolazioni».

Delicatissimo di coscienza sentì il bisogno di lasciare queste righe nel suo Testamento spirituale, che non ha nessuna parentela, ad esempio, con quello più intensamente ricco di S. Leonardo Murialdo, tanto il suo è semplice, familiare, pratico e tenero insieme. «Debbo pure scusarmi se taluno osservò che più volte feci troppo breve preparazione o troppo breve ringraziamento alla S. Messa. Io ero in certo modo a ciò costretto per la folla di persone che mi attorniavano in sacrestia e mi toglievano la possibilità di pregare sia prima, sia dopo la S. Messa».

Questa umile confessione dice da sola l'importanza che egli attribuiva alla preghiera. Non senza ragione la Chiesa lo propone, oggi come ieri, a modello di orazione a tutti i fedeli tentati, nella loro vita di preghiera, dal materialismo secolarista, dall'apparente silenzio di Dio nella storia, dalla febbre dell'azione per l'azione e del successo, senza anima, senza ideali propositivi.

 

 

Pietro Brocardo

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