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Capitolo quinto. TAUMATURGO CHE NON FA PAURA.

"Un taumaturgo, si vede, che ha tutta l'aria di non esserlo, che sa abilmente occultarsi."


Capitolo quinto. TAUMATURGO CHE NON FA PAURA.

da Don Bosco

del 07 dicembre 2011

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          Negli ultimi lustri della sua vita don Bosco ebbe fama di 'taumaturgo' dalle risonanze più che europee. In realtà la convinzione che sotto apparenze ordinarie nel santo si celassero virtù e fatti straordinari si era già imposta ai suoi collaboratori più fedeli, i quali avevano creato, nel 1861, un'apposita Commissione, incaricata di annotare le parole e i fatti più significativi del loro padre e fondatore. Il cronista Domenico Ruttino ci ha tramandato il verbale della prima seduta: «Le doti grandi e luminose - egli scrive - che avvennero in lui e tuttodì ammiriamo, il suo modo singolare di condurre i giovanetti, i grandi disegni che egli dimostra di rivolgere in capo intorno all'avvenire, ci rivelano in lui qualcosa di sovrannaturale. Tutto ciò impone a noi l'obbligo di impedire che nulla di quello che si appartiene a don Bosco cada nell'oblio». Seguono le firme dei nomi più prestigiosi delle origini della Congregazione: Alasonatti, Rua, Cagliero, Durando, Francesia, Cerruti, Ruttino, Bonetti, ecc. Ora, dai loro scritti, dalle loro testimonianze e, poi, da quelle innumerevoli, raccolte nel progredire del tempo, emerge con prepotenza anche il profilo di don Bosco taumaturgo. È infatti il prete che legge i segreti delle coscienze, divina il corso di una vita, ha sogni o visioni misteriose, fa profezie, opera a distanza, ha il dono delle guarigioni e dei miracoli, sperimenta la vessazione diabolica, ha, sul finire della vita, fenomeni mistici.

Anche se un certo alone di leggenda può aver amplificato certi episodi, anche se altri racconti non sono sufficientemente accertati, nessuno può mettere in dubbio la soverchiante mole di fatti preternaturali criticamente sicuri, di cui abbonda la vita di don Bosco.

Aggiungiamo che la moderna agiografia valorizza in pieno quel tanto o quel poco di 'leggendario' che fiorisce attorno alle figure dei grandi santi. In loro, infatti, «Dio manifesta vividamente agli uomini la sua presenza e il suo volto» (LG, n. 50). E questa irradiazione dall'alto determina nel sentimento religioso individuale e collettivo sensi di stupore, di venerazione, di stima che possono trascendere il dato obiettivo e sfociare in amplificazioni più o meno leggendarie, di cui l'agiografo deve tener conto per lo spessore spirituale che la leggenda veicola. «L'approccio positivista delle vite e dei miracoli dei santi, che si limitasse a rompere il guscio per estrarre il nucleo delle informazioni 'storiche' - scrive A. Vauchez - lasciando cadere, agli occhi degli specialisti, la retorica agiografica, con i suoi luoghi comuni e le sue iperboli e le interpretazioni a posteriori dei loro meriti e dei loro atti, si rivela a questo riguardo particolarmente dannosa e riduttiva».

La conseguenza che scende immediatamente da questa premessa è chiara: la vita ed il meraviglioso dei santi, la lettura dei testi che la tramandano, hanno una loro specificità: «Non si possono trattare come fonti documentarie - diplomi, testi - attenendosi alla problematica del vero e del falso, dell'autentico e dell'apocrifo». Perché è in gioco una dinamica spirituale superiore che la supera, anche se un'agiografia che si rispetti non potrà disattendere i canoni della critica storica. La scienza umana è chiamata a svolgere un compito molto alto. «E pure - scrive il Guardini - non la si può considerare più di quanto valga. Non ci si può lasciare intimidire da essa là dove non le spetta nessun diritto».

Anche questo forte pensatore cristiano aveva già sottolineato che l'orientamento intimo del santo, come tutta la sua condotta conseguente, esercita un effetto anche sugli avvenimenti in quanto strumento delle disposizioni divine. «Di qui - egli notava - l'impressione che gli avvenimenti fanno nella vita dei santi e che la leggenda poi interpreta volentieri con il concetto del prodigio, anche quando nel caso singolo non esisteva. Ma essa vuol significare qualche cosa che è giusto: cioè che nella vita dell'uomo che si dà tutto a Dio, le cose vanno in un altro modo che non nella vita di colui che vive la volontà propria».

Il fatto pertanto che l'uomo di oggi, a differenza di quello del Medio Evo, sia eccessivamente sospettoso di fronte a quanto ha sentore di straordinario, non è una buona ragione per non parlarne. Tra la credulità ingenua e l'incredulità sistematica c'è spazio per la verifica rispettosa. «Se la Chiesa - ha detto Paolo VI - spesso si mostra cauta e diffidente verso le possibili illusioni spirituali di chi prospetta fenomeni singolari, ella è e vuole essere estremamente rispettosa delle esperienze soprannaturali concesse ad alcune anime, o dei fatti prodigiosi, che talvolta Iddio si degna miracolosamente inserire nella trama delle naturali vicende».

Non sarebbe quindi giustificata la diffidenza aprioristica verso il 'meraviglioso' che trabocca nella vita di don Bosco. Certamente né i miracoli, né le profezie, né altri fatti straordinari si possono confondere con la santità, che è dinamismo eroico della vita teologale e fatto tutto interiore. Questi doni, essenzialmente funzionali al bene della Chiesa, possono però manifestarla e stimolarla.

Ora il taumaturgo è un santo che incute, generalmente, riverenza e persino paura, per la sua vicinanza con Dio, per il potere divino che attraversa la sua persona; un santo, per lo più, ieratico e grave. Questo tipo di rappresentazione non si addice assolutamente a don Bosco, «taumaturgo che non fa paura».

 

Straordinario di pi√π mite splendore.

La potenza divina, che irrompe silenziosamente e quasi nascostamente, nella vita di don Bosco è tale che non tutti l'avvertono. Egli manifestava lo straordinario - scrive G.B. Lemoyne - «con tanta semplicità che parve quasi di più mite splendore, meno astruso alla nostra povera natura».

Se, ad esempio, le ostie consacrate si moltiplicano nelle sue mani, è lui solo a saperlo. Se moltiplica, a centinaia, le pagnottelle della colazione, il solo ad accorgersene è Francesco Dalmazzo che si era nascosto dietro il Santo sospettando il prodigio. Se, per rendere felici i suoi figli, moltiplica le castagne o le nocciole - manicaretti di allora - lo fa con la naturale disinvoltura dell'antico prestigiatore che tira fuori dal suo bussolotto una cosa dopo l'altra. E, quando si diffonde la notizia del fatto straordinario, o qualche giovane, con disinvolta semplicità, gli domanda come ha fatto, il Santo, tra il serio e il faceto, butta là una parola di scherzo e svia il discorso.

Se possiede, in misura non comune, il «dono delle guarigioni», gli riesce facile convincere che la vera operatrice dei prodigi è unicamente Maria. «È Lei - dichiara - la taumaturga, l'operatrice delle grazie e dei miracoli per l'alto potere che ha ottenuto dal suo divin Figlio». Ne è così convinto che non esita a far pubblicare le grazie ottenute nel suo nome.

Non pochi fatti, per loro natura, erano destinati a rimanere avvolti nell'oblio: si pensi alla manifestazione dei peccati, alla lettura dei pensieri occulti, a certe profezie destinate a singole persone. Si poteva così vivere per anni accanto a don Bosco e non averne notizia. E il caso di Angelo Savio, professo dal 1860, il quale ha dichiarato ai processi: «Alcuni miei confratelli mi assicurano che don Bosco aveva doni speciali da Dio, la scrutazione dei cuori, il dono delle profezie: io non sono in grado di pronunziarmi su questi fatti».

Mons. Bertagna afferma la stessa cosa: «Io non ho mai avuto argomento fermo per credere vere queste cose».

Don Bosco era dotato di penetrantissima intuizione psicologica; non era perciò sempre facile tracciare una linea di confine tra carisma e natura. Nella sorprendente affermazione fatta al Dott. Giuseppe Albertotti: «Mi si dia un giovane al di sotto di quattordici anni ed io ne faccio ciò che voglio», c'è da chiedersi se parli il carismatico oppure parli l'uomo. Probabilmente l'uno e l'altro.

Una sottolineatura a parte meritano i suoi 'sogni'. Si sa, il sogno è il regno della fantasia sbrigliata, il prodotto dell'inconscio. Il sogno è essenziale alla vita totale dell'uomo: non è possibile vivere senza sognare. Come tutti don Bosco sognava ogni notte, ma alcuni sogni si distinguevano dai sogni ordinari.

Talora - lo afferma egli stesso - si «fabbricavano» nella sua mente «favole» o «storie» o «apologhi» che raccontava volentieri ai giovani e ai salesiani, per il loro contenuto moraleggiante e formativo. «Anche la storiella che sono per narrarvi ci insegnerà qualche cosa».

Altri sogni si caratterizzavano non solo per la logica perfetta, ma anticipavano eventi futuri, illuminavano il suo destino di fondatore, erano preannunci di morti imminenti e così via. Sul principio «non vi prestava fede», li esorcizzava come sottili insidie del maligno, ma alla fine dovette arrendersi, perché questi sogni si rivelavano veri. Nella maturità non esiterà a qualificarli come 'soprannaturali'.

Sogni-visione, dunque, la cui tavolozza attinge al retroterra della sua vita contadina, poi all'esperienza di Valdocco; sogni dalle rappresentazioni strane, ma sempre a denso contenuto morale e spirituale, di cui il santo educatore si è abilmente servito per tenere lontano dalla sua casa l'offesa di Dio, per esaltare la bellezza della vita di grazia e dell'amicizia con Dio, per accendere di entusiasmo quanti avevano creduto alla sua parola sul divenire glorioso della sua opera.

Accanto a questi sogni che potremmo dire minori perché riguardano prevalentemente la vita dell'Oratorio, sono da ricordare i grandi affreschi dei sogni maggiori relativi all'origine e allo sviluppo della Congregazione, come il sogno dei «nove anni» nelle sue diverse versioni, quelli riguardanti le missioni, il carisma e lo spirito salesiano, come il sogno del pergolato di rose», quello dei «dieci diamanti», il sogno dei «diavoli a congres per escogitare il mezzo più adatto per distruggere l'opera salesiana e so» così via. Questi sogni maggiori non sono molti, ma la loro importanza è difficilmente calcolabile, perché sono, sotto il velo del simbolo e della visione, veri concentrati di ascetica e di spirito salesiano. La tradizione non ha mai cessato di riferirsi ad essi come a fonte di primaria importanza.

I circa cento 'sogni' di don Bosco riportati nelle Memorie Biografiche - ma sono di più - fanno blocco con la sua vita, con il suo magistero, con la sua spiritualità, con il suo apostolato. Non hanno riscontro nelle biografie dei santi piemontesi a lui coevi. Sono un lineamento tipico della sua esistenza con il quale ogni studioso di salesianità è chiamato a misurarsi, forse, senza mai raggiungere il 'segreto di Dio', che in essi si cela, e quello dell'uomo che li racconta.

È però singolare il fatto che, mentre don Bosco per un verso annette la massima importanza ai suoi sogni in generale, per altra parte sembra, ancora una volta, ricorrere all'immagine del sogno per celare i suoi carismi. Sembra dire, e di fatto dice, «i sogni si fanno dormendo», sono solo 'sogni'; tuttavia possono insegnare molte cose. «Non fate di questo sogno altro caso di quello che può meritarsi simile materia». «Questo il mio sogno: ognuno lo interpreti come vuole, ma sappia sempre dargli il peso che si merita un sogno».

Un taumaturgo, si vede, che ha tutta l'aria di non esserlo, che sa abilmente occultarsi.

 

Valutazione corretta.

Lo straordinario, il preternaturale occupa, come è riportato, un ampio spazio nella vita di don Bosco. Si tratta di valutarlo correttamente: non esagerarlo, non sottovalutarlo. Non esagerarlo perché don Bosco, come si esprime A. Caviglia, «non è un santo a cui i miracoli scappino di mano come a S. Giuseppe da Copertino o a Francesco da Paola, né un Cottolengo, che, fidato nella Provvidenza, segue il suo cuore caso per caso».

Ciò che più conta nella sua vita non sono i miracoli, le profezie, le visioni, ma l'eroismo della sua virtù, la dura quotidiana fatica intesa ad elevare di grado, sia sul piano umano che spirituale, schiere innumerevoli di giovani poveri e l'umile gente; l'impegno, mai rimesso, per l'avvento del Regno e quel suo continuo industriarsi come se tutto dipendesse da lui, pur contando unicamente su Dio, convinto come era che la Provvidenza vuole essere aiutata dagli immensi nostri sforzi».

Non va sottovalutato. «Lo straordinario ha impregnato la religiosità di don Bosco e del suo ambiente ed è stato stimolo a un tipo di ascetica e di azione apostolica» (P. Stella). Ha soprattutto marcato significativamente la sua opera di fondatore.

Quando, ad esempio, l'approvazione delle Costituzioni salesiane cozza, a Roma, contro difficoltà insormontabili, don Bosco opera due guarigioni istantanee, umanamente inspiegabili. Guarisce il nipote del Card. Berardi, guarisce il Card. Antonelli inchiodato su una sedia da gravi malanni. L'intervento di questi due prelati è determinante per la sua buona causa.

«Ditemi voi - confidava un giorno ai suoi figli - che cosa poteva fare il povero don Bosco se dal cielo non veniva ogni momento qualche speciale aiuto?».

Guardando al successo delle sue imprese diceva: «Qui si vede che vi è il dito di Dio, la protezione della Madonna». Era talmente convinto di vivere sotto una particolare pressione del divino da affermare: «Non diede passo la Congregazione, senza che qualche fatto soprannaturale lo consigliasse; non mutamento o perfezionamento o ingrandimento che non sia stato preceduto da un ordine del Signore».

Possiamo domandarci: quale è stata la reazione interiore di fronte al soprannaturale che attraversò la sua vita? Una reazione adorante, profondamente umile. Quella del servo fedele che si sente strumento, solo strumento, nelle mani di Dio, unico eroe dei suoi prodigi: «Di queste opere io non sono che l'umile strumento». «È nostro Signore che fa tutto. Se avesse trovato nell'archidiocesi di Torino un sacerdote più povero, più meschino, più sprovvisto di qualità - confidava al P. Felice Giordano degli Oblati di Maria Vergine - quello e non altri avrebbe scelto a strumento di quelle opere di cui mi parla; ed il povero don Bosco l'avrebbe lasciato da parte».

Nelle pagine del suo Testamento spirituale troviamo questa significativa dichiarazione: «Io raccomando caldamente a tutti i miei figli di vegliare sia nel parlare, sia nello scrivere di non mai né raccontare né asserire che don Bosco abbia ottenuto grazie da Dio od abbia in qualsiasi maniera operato miracoli. Egli commetterebbe un dannoso errore. Sebbene la bontà di Dio sia stata in misura generosa verso di me, tuttavia io non ho mai preteso di conoscere od operare cose soprannaturali».

Il contraccolpo del meraviglioso nella sua vita personale ha determinato un doppio movimento. Quello del profeta sgomento di fronte alla potenza divina che lo investe: «Queste cose fanno crescere in modo spaventoso la responsabilità di don Bosco davanti a Dio». «Quando penso alla mia responsabilità per la posizione in cui mi trovo tremo tutto. Le cose che vedo accadere sono tali che caricano sopra di me una responsabilità immensa».

E quello di Maria che magnifica il Signore per i prodigi che si sono compiuti in Lei. Nella cerchia dei suoi intimi o dei suoi benefattori, infatti, don Bosco non esita a raccontare, con umiltà, gli eventi straordinari che punteggiano la sua vita di educatore e di fondatore guidato dal principio: «È necessario che le opere di Dio si manifestino». Sentiva che la sua vita era inestirpabilmente unita a quella della Congregazione, perciò ne parlava: «Vedo che la vita di don Bosco è tutta confusa nella vita della Congregazione: e perciò parliamone. C'è bisogno per la maggior gloria di Dio, per la salvezza delle anime e del maggior incremento della Congregazione che molte cose siano conosciute».

Le cose che vanno 'conosciute' sono i magnalia Dei: i segni straordinari, i sogni profetici, le guarigioni prodigiose che accompagnano la sua vita di educatore e fondatore, che gli strappavano espressioni colme di fiducia e di abbandono in Dio: «Dio è con noi!»; «È opera sua quanto si è fatto e si fa»; «Dio fa le sue opere con magnificenza»; «La nostra Congregazione è condotta da Dio e protetta da Maria Ausiliatrice».

 

Pietro Brocardo

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