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Capitolo quinto. L'ASCESI DELLA TEMPERANZA E DELLA MORTIFICAZIONE.

"Il lavoro - e lo abbiamo visto - è già in se stesso la continua ascesi di don Bosco;"


Capitolo quinto. L'ASCESI DELLA TEMPERANZA E DELLA MORTIFICAZIONE.

da Don Bosco

del 07 dicembre 2011

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          Il rigetto dell'ascesi cristiana nell'attuale società edonistica e permissiva, in nome della libertà assoluta che rifiuta ogni obbligo, dello spontaneismo della natura, di ideologie che la ritengono una nevrosi alienante, è conseguenza del rigetto di Dio. Se l'ascesi cristiana, infatti, ha un senso, una giustificazione, una fecondità, essa non può trovarla che nella fedeltà al mistero della morte e risurrezione di Cristo, entro l'orizzonte del peccato e del giudizio divino su di esso, in una parola, nella partecipazione all'ascesi del Signore e al mistero della sua croce. L'ascesi entra come elemento ineludibile nel piano della salvezza e segue il cristiano come l'ombra segue l'uomo.

Le sue manifestazioni esteriori, commisurate ai diversi contesti socio-culturali, non sono però univoche: variano da un'epoca all'altra, come insegna la storia. Non è perciò lecito gettare il discredito sulle forme di penitenza praticate nei secoli passati o sullo stile rude e spartano di vita vissuto da don Bosco in pieno ottocento.

«Ciò che giustifica un'epoca della storia in faccia ad un'altra - scrive R. Guardini - non sta nel fatto che essa sia migliore, ma che essa viene nel suo tempo».

Immutabile nella sua sostanza, l'ascesi di oggi deve adeguarsi, come in passato, al nuovo contesto culturale. E questo significa che deve «tenere conto del concetto più approfondito dell'uomo, delle scoperte acquisite dalle scienze antropologiche - specialmente dalla psicologia -, delle caratteristiche della nostra realtà somatica, del valore profondo della sessualità, del processo di personalizzazione, della situazione di pluralismo, dell'importanza della dimensione comunitaria, delle esigenze della socializzazione» (E. Viganò).

Dunque un'ascesi che tenga conto dell'integrazione armonica tra anima e corpo, che non è dono di natura; che apra la persona all'amore oblativo, alla disponibilità verso gli altri; un'ascesi capace di affrontare cristianamente le alienazioni alle quali costringe la vita moderna, come: la nervosità, la monotonia della ripetitività del lavoro, gli stress della vita moderna, la superficialità delle relazioni e della convivenza; un'ascesi del silenzio nella «civiltà del rumore» per non smarrire se stessi, per comprendere meglio, per non dire se non ciò che significa qualche cosa; un'ascesi che sappia disciplinare l'uso dei mezzi di informazione, oggi smisuratamente sviluppati da internet, comunicazione virtuale, ecc.

La Chiesa, tenendo conto del trapasso culturale in atto, ha mitigato certe penitenze del passato, come il digiuno, ma non ha messo il silenziatore sul rigore dell'ascesi tradizionale, reso più urgente dalle accresciute esigenze della carità. Perché, come bene si esprime P. Plé, «la fecondità delle mortificazioni non si misura dalla sofferenza della rinunzia o dall'intensità dello sforzo, ma dalla sua efficacia, cioè, nella prospettiva evangelica, dal progresso nella carità da essa favorito, tanto per mezzo della 'imitazione di Cristo', quanto per l'allontanamento di ciò che impedisce la crescita nella carità».

La rimeditazione dell'esperienza ascetica di don Bosco presenta indubbiamente aspetti superati dal tempo, modalità espressive non più attuali. Tuttavia quando, al di là delle contingenze della storia, si va alla radice delle cose, allo spirito evangelico che lo anima, a certe lucide intuizioni precorritrici, che ne fanno un nostro contemporaneo, si deve convenire che anche oggi l'ascesi insegnata e vissuta dal Santo ha sempre molto da dire al nostro senso cristiano. È quanto vogliamo costata- re brevemente.

 

Temperanza.

L'ascesi di don Bosco si è sempre espressa nel binomio inscindibile: lavoro e temperanza. Questa è l'eredità lasciata ai suoi figli: «Lavoro e temperanza faranno fiorire la Congregazione salesiana»; «sono due armi con cui noi riusciremo a vincere tutto e tutti». Sono i due diamanti che danno smalto al suo volto simpatico e sorridente.

Il lavoro - e lo abbiamo visto - è già in se stesso la continua ascesi di don Bosco; ma all'ascesi del lavoro egli ha sempre associato volutamente quella ampia e specifica della temperanza, della mortificazione, del senso austero della vita.

Nella vita del cristiano la temperanza è, di certo, custodia di sé, moderazione delle inclinazioni e delle passioni, cura del ragionevole, una certa fuga dal mondo, ma, più profondamente, essa è un 'atteggiamento di fondo', un 'cardine esistenziale' che comporta la presenza di parecchie altre virtù satelliti. «La temperanza è la prima e la principale tra le virtù moderatrici, che girano come satelliti intorno ad essa: la continenza contro le tendenze della lussuria, l'umiltà contro le tendenze della superbia, la mansuetudine contro gli scatti dell'ira, la clemenza contro le inclinazioni alla vendetta, la modestia contro la vanità dell'esibizione del corpo, la sobrietà e l’astinenza contro gli eccessi della bevanda e del cibo, l'economia e la semplicità contro la libertà dello sperpero e del lusso, l'austerità nel tenore di vita contro le tentazioni di comodismo» (E. Viganò).

Questa temperanza, ossia questo insieme di virtù, è vista e vissuta da don Bosco soprattutto in funzione della carità pastorale e pedagogica e della crescita nell'amore, che non si limita ad amare, ma, cosa assai più difficile, «sa farsi amare». Chi ha pratica di educazione di giovani conosce per esperienza quale e quanto dominio di sé sia necessario, a tutti i livelli della persona, perché trionfino atteggiamenti e comportamenti improntati a bontà, a giustizia e rettitudine.

L'esempio di don Bosco è paradigmatico. È un educatore che ama profondissimamente e sa «farsi amare» praticando, in grado eroico, la temperanza. Fermo nei principi, li applica però con ragionevolezza e buon senso; compone le esigenze dell'autorità con quelle della libertà e spontaneità dei giovani in giusto equilibrio; sa adattarsi alle esigenze della «mobilità giovanile» senza cadere nel permissivismo; si dà conto di tutto, ma sa anche prudentemente e con santa furbizia dissimulare; frena l'impeto delle passioni per custodire intatto il suo cuore, che modella e rimodella sulla carità pastorale di Cristo. Frutto di temperanza interiore sono ancora il costante atteggiamento di conversione, la signoria di sé, la mansuetudine e la amabilità che gli guadagnano i cuori.

La temperanza cristiana è poi la difesa dei grandi valori teologali della fede, della speranza, della carità, nei quali si fonda. E don Bosco lo ricorda ai suoi figli: «Il demonio tenta di preferenza gli intemperanti». Voleva temperanza e moderazione in tutto, anche nel lavoro apostolico, che pure gli stava immensamente a cuore: «Lavorate, lavorate molto - diceva - ma fate anche in maniera di poter lavorare a lungo».

Raccomandava ai missionari: «Abbiatevi cura della sanità. Lavorate, ma solo quanto le proprie forze lo consentono».

Nel pensiero di don Bosco e della tradizione salesiana la temperanza non è, primariamente, la somma delle rinunzie (mortificazione), ma la «crescita nella prassi della carità pastorale e pedagogica». Lo afferma autorevolmente E. Viganò, settimo successore di don Bosco: «Prima e più in là della mortificazione, la temperanza è una disciplina metodologica di educazione al dono di sé nell'amore. Ci insegna ad allenarci ad amare e a farci amare, non primariamente a castigarci. Non è il momento della potatura, anche se arriverà il tempo per farla. E il momento dello sviluppo dell'amore: se io mi dono a Dio, devo cercare di far crescere in me la capacità di donazione, sapendo frenare tutto ciò che può essere occulta ripresa del dono».

In altre parole la temperanza per don Bosco è prima di tutto e sempre in funzione della mistica del Da mihi animar. Signore, fammi salvare la gioventù con il dono della temperanza. Per questo non si è stancato di ripetere: «La Congregazione durerà fino a che i soci ameranno il lavoro e la temperanza».

 

Sobrietà e astinenza.

Queste due virtù satelliti della temperanza - contro gli eccessi della bevanda, del cibo, degli impulsi disordinati -, intesa come atteggiamento esistenziale di base, brillano di una luce particolare in don Bosco. La sua sobrietà nell'uso dei cibi e delle vivande era proverbiale. Come tutti i sacerdoti usciti dal Convitto, osservava con rigore le astinenze prescritte dalla Chiesa, digiunava un giorno la settimana, prima il sabato, poi il venerdì, ma nulla di eccezionale si notava in lui.

Tutte le testimonianze concordano nell'affermare che non si notavano in lui digiuni o penitenze straordinarie: tutte sottolineano però la sua non comune sobrietà e temperanza abituale. Nei primi tempi dell'Oratorio la mensa era frugalissima, non dissimile da quella dell'umile gente contadina ed operaia. Pane e minestra, una pietanza di legumi, ma non sempre; un po' di vino annacquato: era tutto. «Nella temperanza - attesta Mons. Bertagna - fu di raro esempio; in casa sua non ricercò mai agiatezza; anzi pare che si sarebbe potuto permettere per sé e per gli altri un qualche miglioramento».

Più tardi il vitto migliorò, perché non tutti quelli che si decidevano a «stare» con lui avrebbero potuto adattarsi alla sua tavola. Il suo naturale buon senso gli suggeriva che il primitivo rigore andava temperato, ma nel cuore rimase sempre un segreto rimpianto dell'antica prassi. Disse più volte: «Pensavo che nella mia casa tutti si sarebbero accontentati di sola minestra e pane, e al più di una pietanza di legumi. Vedo però che mi sono ingannato. Mille cause mi spinsero poco a poco a seguire l'esempio di tutti gli altri Ordini religiosi. Eppure anche adesso mi sembra che si potrebbe vivere come io viveva nei primi tempi dell'Oratorio».

Pur adattandosi ai necessari miglioramenti, egli rimase tuttavia fedele al suo antico ideale. Fino a quando la salute glielo permise si attenne sempre al vitto comune; non mangiava fuori pasto, si dimostrava indifferente a tutto; nessuno seppe mai quali fossero i suoi gusti preferiti.

Per ottenere aiuti doveva accettare pranzi in suo onore, offerti dai benefattori: vi partecipava con semplicità, ma, si sarebbe detto, quasi non si accorgeva dei cibi che gli venivano offerti, intento come era a tenere desta l'attenzione dei commensali con le sue battute lepide, i suoi discorsi edificanti.

Dopo la malattia di Varazze (1871-1872), che lo ridusse in fin di vita, per ordine dei medici dovette far uso di un po' di vino schietto, che la Duchessa di Montmorency gli inviava ogni mese. Lo beveva con tale parsimonia, che una bottiglia gli serviva per tutta la settimana, mentre le rimanenti si accumulavano nella cantina e servirono a lungo dopo la sua morte. Ne offriva volentieri agli amici e ai benefattori quando li invitava alla sua mensa: «Stiamo allegri - diceva - beviamo il vino ducale!».

Voleva che i suoi figli fossero, come lui, modello di sobrietà e temperanza. «Fuggi l'ozio, le questioni; grande sobrietà nei cibi, nelle bevande e nel riposo». «Non vi dico che digiuniate; però una cosa vi raccomando: la temperanza». Ammoniva: «Quando cominceranno tra noi le comodità e le agiatezze, la nostra Società avrà compiuto il suo corso». Soleva ripetere: «Nel cibo sobrietà; mai più del bisogno, perché oltre la sanità del corpo si possa conservare anche quella dell'anima».

Con gli asceti di tutti i tempi, anche egli ha sottolineato il nesso indissolubile che corre tra mortificazione corporale e preghiera: «Chi non mortifica il corpo non è nemmeno capace di fare buone preghiere».

La sobrietà e la temperanza tengono un vasto posto nella sua pedagogia. «Datemi - diceva spesso - un giovanetto che sia temperante nel mangiare, nel bere e nel dormire, e voi lo vedrete virtuoso, assiduo nei suoi doveri, pronto sempre quando si tratta di far del bene e amante di tutte le virtù. Al contrario se un giovane è goloso, amante del vino, dormiglione, a poco a poco avrà tutti i vizi».

 

Mortificazione.

È voce che nella letteratura spirituale contemporanea tende ad essere assorbita dal capitolo dedicato all'ascetica, considerata sia come sforzo metodico verso la perfezione, che come la serie dei processi intesi a dominare, orientare, correggere le tendenze naturali, per sé buone, ma che, abbandonate a se stesse, spingono il battezzato al male, a comportamenti devianti. A sua volta l'ascesi è sempre più inglobata nella dialettica morte-risurrezione del Mistero Pasquale, centro e sintesi dell'esistenza cristiana, dove la suprema sofferenza della croce è inestirpabilmente legata al supremo gesto di amore: «Nessuno ha un amore più grande di questo: morire per i propri amici» (Gv 15,13).

«La croce e la risurrezione rappresentano i due poli, negativo e positivo, della morte e vita dell'esistenza cristiana. L'esigenza evangelica della 'rinunzia totale' (Lc 14,26) è la replica diretta ed immediata dell'amore totale» (F. Ruiz). La morte battesimale e la risurrezione sono reali, ma «un residuo considerevole di vetustà, un 'uomo vecchio' che la grazia non ha mutato in nuovo, un 'uomo esteriore' ricopre ancora 'l'uomo interiore'» (F.X. Durrwell).

Di qui la necessità dello sforzo, della mortificazione: «Portiamo sempre in noi la mortificazione di Cristo» (2Cor 4,10). Altri passi della Sacra Scrittura parlano di abnegazione (Lc 9,23), spogliamento (Col 3,9), crocifissione (Cl 5,24), morte (Col 3,3), ecc. Parole grandi e severe che nel loro contesto puntuale stanno a significare che la totalità dell'esistenza cristiana è segnata dal mistero della croce, dalla necessaria mortificazione (preventiva, riparatrice anche volontaria, ecc.).

Ma la vita del cristiano non si risolve in essa. Le scienze dell'uomo insistono giustamente sulla promozione delle qualità umane e delle tendenze positive, più che sulla repressione. Il Vangelo è un «lieto messaggio» di salvezza. Tuttavia la mortificazione non è solo morte al peccato e a tutte le sue conseguenze, bensì anche, come dimostra l'esempio dei santi, «rinunzia delle cose lecite ma per noi inutili e la cui preoccupazione ci assorbirebbe dalla nostra unione col Signore»; ciò che la natura stenta a comprendere. La mortificazione, che non è mai volontà di dolorismo o fine a se stessa, ma raffinata espressione dell'amore infuso, è, nell'incredibile varietà delle forme assunte lungo le epoche storiche - aldilà delle deviazioni patologiche - un patrimonio immenso della spiritualità cristiana, del Corpo Mistico di Cristo che è la Chiesa, sempre associata al suo mistero di morte e risurrezione.

Sarebbe ingiusto e acritico giudicare certe forme di mortificazione validissime nel passato - pensiamo alla spartana e rude forma di vita del primo Valdocco - con la mentalità di oggi. La vera difficoltà consiste nell'integrare, armonizzare nella forma dovuta, morte e risurrezione, sofferenza e amore, natura e grazia. Anche in questo don Bosco si rivela modello e guida.

Abbiamo detto di lui che è un santo allegro e simpatico, capace di amare e di «farsi amare»; sempre in attività, sempre in mezzo alla gioventù, primavera e gioia del mondo. Ma non possiamo dimenticare che, come la temperanza, anche la mortificazione, che don Bosco definisce «l'ABC della perfezione», è considerata prevalentemente in prospettiva pedagogica e pastorale. Chi guardava don Bosco da lontano poteva anche credere che il cammino da lui percorso fosse un cammino di facilitazione. Eppure la sua strada, come ha scritto E. Cena nelle belle pagine di Don Bosco con Dio, fu tutta seminata dalle spine della mortificazione. Spine in famiglia: la povertà e l'opposizione, che prima gli sbarrarono, poi gli resero aspra la via del sacerdozio, obbligandolo a dure e umilianti fatiche. Spine nel fondare l'Oratorio: da ogni parte gli si gridava la croce addosso, da privati, da parroci, da autorità municipali, scolastiche, politiche. Spine e peggio per causa delle sue Letture Cattoliche. Spine per mancanza di mezzi: avere sulle braccia tanti giovani e tante opere e non avere mezzi sicuri di sussistenza. Spine dal suo stesso personale: sacrifici per formarselo e diserzioni dolorose. Triboli e spine per via dell'autorità diocesana: malintesi, opposizioni, contrarietà senza fine. Un calvario la fondazione della Società salesiana.

Spine di altra natura, ma non meno pungenti, quelle dovute a malattie e disturbi di salute. Don Bosco era di costituzione sana e di vigoria fisica non comune. Discendeva da un ceppo di contadini robusti e da antenati longevi. Non si spiegherebbero altrimenti la sua resistenza al lavoro e come abbia potuto sopravvivere a tre malattie mortali. Eppure l'elenco delle infermità, che lo travagliarono lungo l'intero arco della sua vita, è incredibilmente lungo: sputi sanguigni, persistente male di occhi e perdita, in ultimo, di quello destro; enfiagione alle gambe e ai piedi - la sua «croce quotidiana» come egli la chiamava -, cefalee persistenti, digestioni laboriose, febbri intermittenti con eruzioni cutanee, verso la fine della vita indebolimento della schiena con difficoltà di respiro, ed altro ancora. Pio XI ha definito la sua esistenza «un vero, proprio e grande martirio. Un vero e continuo martirio nelle durezze della vita mortificata, fragile, che sembrava frutto di un continuo digiunare».

Martirio accettato per amore di Cristo crocifisso e delle anime. «Se sapessi - fu sentito dire - che una sola giaculatoria bastasse a farmi guarire non la direi»; martirio dissimulato dalla pace imperturbabile e dalla letizia, che sembrava diventare più radiosa - secondo attendibili testimonianze - quanto più pesanti erano le croci che lo affliggevano. Solo un'anima profondamente radicata in Dio poteva giungere a tanto.

La vita di don Bosco è realmente caratterizzata da enormi ed ininterrotti sforzi ascetici. Ma il suo ascetismo non è quello classico spettacolare di altri santi. E l'ascetismo del quotidiano, delle piccole cose, delle mortificazioni non meno dure e continue imposte dall'adempimento del proprio dovere, del proprio lavoro, delle situazioni concrete, della convivenza umana. Per «ricopiare» in sé i patimenti di Nostro Signore «i mezzi non mancano - diceva -: il caldo, il freddo, le malattie, le cose, le persone, gli avvenimenti. Ce ne sono di mezzi per vivere mortificati!».

«Non vi raccomando - leggiamo nel suo Testamento - penitenze o mortificazioni particolari; voi vi farete gran merito se saprete sopportare vicendevolmente le pene e i dispiaceri della vita con cristiana rassegnazione».

«Le tue mortificazioni - è il consiglio che dà ad ogni direttore - siano nella diligenza dei tuoi doveri e nel sopportare le molestie altrui».

Non sottovalutava l'importanza delle mortificazioni volontarie, ma preferiva quelle imposte dall'ubbidienza. «Invece di fare opere di penitenza fate quelle dell'ubbidienza». «Guardate, vale di più una buona colazione fatta per obbedienza che qualunque mortificazione fatta di proprio capriccio».

Anche per don Bosco la motivazione fondamentale della mortificazione è, ovviamente, l'esigenza della sequela Christi, vittima dei nostri peccati, e della partecipazione, con coscienza di fede, al mistero della sua morte e della sua croce: «Il Signore ci invita a rinnegare noi stessi, a metterci in collo la croce»; «Chi non vuole patire con Gesù Cristo in terra, non potrà godere con Gesù Cristo in cielo».

Ripeteva: «Ovunque ci sono amarezze da soffrire, che si chiamano mortificazione dei sensi; e da queste usciremo vittoriosi dando un'occhiata a Gesù Crocifisso».

Gli era cara la divozione a Gesù Crocifisso. Quando mamma Margherita, contrariata e stanca, aveva deciso di ritornare ai Becchi, don Bosco non disse nulla, ma indicò il Crocifisso appeso alla parete. Quando si voleva mettere all'Indice un suo volumetto delle Letture Cattoliche ne sofferse da morire. Guardando il Crocifisso fu sentito esclamare: «O mio Gesù! Tu sai che ho scritto questo libro con buon fine_ Sia fatta la tua volontà!».

Sapeva troppo bene che la carità che salva le anime è la carità crocifissa, quella carità che parte dalla croce: «O Signore, dateci pure croci, spine e persecuzioni di ogni genere, purché possiamo salvare anime e fra le altre salvare la nostra».

 

 

Pietro Brocardo

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