Don Bosco e l'Esposizione nazionale di Torino.
del 07 dicembre 2006
IL   26 aprile 1884 Torino era in festa. I Sovrani d'Italia con intervento di tutta la famiglia reale, del corpo diplomatico e dei dignitari dello Stato v'inauguravano solennemente una Esposizione nazionale dell'industria, della scienza e dell'arte. Al Comitato d'onore presiedeva il prin­cipe Amedeo, fratello del Re, e al Comitato esecutivo il deputato Tommaso Villa. Gli edifizi delle mostre sorgevano sulla riva sinistra del Po nell'amenissimo parco che circonda il castello del Valentino.
Don Bosco aveva divisato di farvi comparire soltanto la tipografia salesiana, esponendone la già ricca produzione. Avanzatane domanda nel maggio 1883, il 16 luglio successivo ottenne lettera d'ammissione, che gli assegnava un posto conveniente nella galleria (così dicevasi allora più comunemente invece di padiglione) per la didattica e la libraria, dove figuravano i prodotti delle arti grafiche. Ivi dunque fece trasportare mille volumi d'ogni sesto e qualità: scientifici, letterari, storici, didattici, religiosi; edizioni illustrate; il Bollettino Salesiano in tre lingue: italiana, francese, spagnuola;  inoltre saggi di disegno e di quanto si riferisse a scuole, elementari, tecniche, ginnasiali. Il tutto venne disposto in scansie di elegante struttura, dove spiccavano assai bene svariate e preziose legature, Questo era già in ordine, quando si celebrò l'inaugurazione .
Ma in appresso il disegno primitivo aveva assunto più vaste proporzioni. L'onorevole Villa trovandosi in Svizzera l'autunno precedente per visitare l'Esposizione di Zurigo, erasi recato a vedere uno dei più riputati opifici della città e gli aveva fatto impressione una superba macchina che si stava costruendo per la fabbricazione della carta. Chiesto per chi la sì costruisse e udito che per il signor Bosco d'Italia: - Dite pure per Don Bosco, soggiunse egli, perchè questo uomo è noto a tutti. - E realmente Don Bosco aveva ordinato quella nuova macchina per la sua cartiera di Mathi torinese. Il Villa, tornato a Torino, fece istanza, affinchè la stupenda macchina adornasse le gallerie dell'Esposizione. Don Bosco senza esitare un nomento acconsentì, solo ponendo la condizione che gli si assegnasse una galleria intera, nella quale avrebbe collocato e messo in azione anche le macchine necessarie alla produzione del libro. Se parve sulle prime soverchia la sua esigenza, non fu più così, quand'ebbe spiegato bene tutto il suo grandioso disegno; anzi il Comitato deliberò di costruire una galleria apposita in un cortile fiancheggiato dall'immensa galleria dei lavoro. Detta nuova galleria misurava 55 metri di lunghezza per 20 di larghezza. Sulla porta d'ingresso si leggeva:
 
 
DON BOSCO
 
FABBRICA DI CARTA, TIPOGRAFIA, FONDERIA, LEGATORIA
E LIBRERIA SALESIANA
 
Aveva detto bene il Villa, che Don Bosco era conosciuto; tuttavia per quei tempi un prete espositore in una Esposizione nazionale e nella sezione del lavoro sembrava un vero anacronismo. Onde non pochi, passando di là e leggendo quella scritta, sorridevano, immaginandosi di dovervi trovare oggetti di sacrestia, che non li interessassero punto. Se invece, superate le prevenzioni, si decidevano a entrare, rimanevano subito colpiti da due novità: dal lavoro e dai lavoratori. Questi, tutti giovani di varia età, si attiravano le simpatie dei riguardanti a motivo dell'applicazione, compostezza e serenità con cui attendevano ognuno a far bene la parte sua. Il lavoro poi incatenava dal principio alla fine la generale attenzione. Cosicchè quel reparto costituì per il pubblico tino dei richiami più interessanti nella grande mostra.
Intendimento di Don Bosco era stato di dare una dimostrazione pratica del molteplice lavoro richiesto dalla produzione materiale del libro. Ora qui la curiosità del pubblico assisteva al graduale processo, per cui da un mucchio di sudici cenci si arriva a veder uscire, per esempio, un elegante volume di versi. Non vi mancavano, come abbiamo accennato, i preliminari più realistici: divisione e scelta dei cenci; loro spolveramento, liscivia e riduzione in pasta . Seguiva quindi tutta una complessa azione meccanica: cilindri raffinatori della pasta, tino con gli accessori per l'introduzione di questa nell'ingranaggio, apparecchio da carta continua, tagliacarta per ridurre i fogli nel formato voluto; calandra, pressa e tutto l'occorrente per disporre la carta in pacchi e in risme. Vedere quella pasta lattea purificarsi a grado a grado da ogni sedimento, epurarsi delle ultime parti fibrose, liberarsi dall'acqua, comporsi a forma di tessuto, rassodarsi, e asciugata, lisciata, rasata, arrotolarsi e rigarsi, offriva uno spettacolo, che quasi nessuno aveva mai avuto occasione di contemplare. Un giornale chiamò questa la regina delle macchine che si trovavano nell'Esposizione . La chiamò così un mese prima che vi fosse esposta; ma altri giornali si appropriarono la denominazione, quando la si vide in opera, il che fu al 21 di giugno. Don Bosco assistette personalmente all'inaugurazione, accompagnato dal teologo Margotti e da, Don Durando e ricevette i rallegramenti più entusiastici da molti ragguardevoli signori, che gli furono là presentati.
Accanto alla calandra della cartiera stava esposta una pressa a quattro colonne con indicatore dinamico, doppia invenzione di Don Ghivarello. Venivano immediatamente dopo due macchinette per la fusione dei caratteri: belle e pulite se ne vedevano scaturire le lettere da consegnarsi alle vicine casse dei compositori. Seguivano quindi una grande macchina tipografica in attività (stampava la Fabiola e il piccolo catechismo), poi tutti gli utensili per legare e infine lo spaccio del libro .
Due sinistri incidenti minacciarono di funestare l'esposi­zione di Don Bosco subito nei primi giorni; bisognò render grazie a Maria Ausiliatrice, se due lutti furono risparmiati.
Il 30 giugno un giovane sedicenne per nome Harziano Bertotti da Tortona, mandato a far pulizia nel lungo e largo fosso sotto la macchina della carta, stanco di lavorare, si riposò un istante, guardando verso il centro della galleria. Distratto com'era, appoggiò la destra sur un grosso cilindro in moto Lo fece senz'avvedersi, nè, quando s'accorse del pericolo, ebbe tempo di ritrarre la mano, poichè il cilindro girando gliela portò sotto a un secondo cilindro. Tra l'uno e l'altro poteva passare appena un foglio di carta. La povera mano, stretta fra quei due solidi arnesi, fu in un attimo spellata e schiacciata, e il braccio ne seguiva la sorte, mentre la manica della camicia del braccio sinistro, col quale il giovane aveva tentato di soccorrere il destro, veniva presa dalle stesse morse e tirata. Egli ebbe tanta presenza di spirito da non gridare per non ispaventar la gente, ma per l'eccesso del dolore diede in un profondo sospiro. Questo bastò per richiamare l'attenzione del macchinista uomo pratico, che provvidenzialmente si trovava allora presso il luogo del pericolo. Costui con molta destrezza tolse la correggia che metteva in movimento i due cilindri, facendoli subito fermare. Portato nel posto del pronto soccorso e giudicato in gravi condizioni, il giovane fu condotto con una vettura all'ospedale di S. Giovanni, dove ricevette prontamente le cure del caso. Grazie al cielo in pochi giorni scomparvero i sintomi allarmanti, sicchè, tornato all'Oratorio, dopo un mese era perfettamente guarito.
La seconda disgrazia toccò il 3 luglio ad Egidio Franzioni da Milano, giovane sui quindici anni. Badava alla macchina tagliatrice della carta. Quel giorno il feltro non andava bene e non gettava al loro posto i fogli tagliati. Il ragazzo volle, stendendo il braccio, prendere i fogli che non scendevano a dovere; ma non colse il momento giusto e il coltello gli portò via l'indice della destra. Il ricordo dell'infortunio occorso tre giorni prima al suo compagno, fece sì che neppure lui gridasse a sfogo del dolore, ma, dati alcuni colpi dei piedi in terra, volò all'assistenza medica, donde fasciato venne condotto all'Oratorio. Egli pure dopo alcune settimane non aveva più alcun male, tranne la perdita del dito. Era figlio di una commediante. Già prima che si aprisse l'Esposizione aveva ricevuto una bella grazia. Ridotto agli estremi da una febbre tifoidea, si era confessato e con molta divozione preparato a ricevere l'Olio santo, perchè, come disse poi, temeva seriamente di morire. Invece, dopo l'ultimo sacramento, aveva cominciato a migliorare, tanto che la dimane il medico, pieno di meraviglia, lo dichiarava prossimo alla convalescenza, e pochi giorni dopo lo trovò in perfetta salute.
Concorrendo in una forma così grandiosa all'Esposizione, Don Bosco si riprometteva due vantaggi di ordine religioso e morale, far vedere cioè che il clero amava le arti e il loro progresso e dare un buon esempio con la santificazione dei giorni festivi. Per questa obbedienza al precetto della Chiesa i giornali di parte avversa masticarono amaro, sebbene, per una più o meno tacita intesa a fine di non danneggiare l'Esposizione, evitassero di menare scalpore. Il Fischietto, per esempio, che in altri tempi non avrebbe avuto peli sulla lingua, con certa malizietta immaginava una domanda e risposta fra un visitatore e uno del Comitato. Il primo diceva: - Come va questa faccenda? Le macchine di Don Bosco stanno ferme, mentre tutte le altre sono in moto. La sua esposizione non fa parte della Galleria del lavoro?
- Certamente, rispondeva l'altro. Ma, veda, oggi è domenica; nella Galleria del lavoro Don Bosco rappresenta il riposo festivo.
- Felice chi ha le rendite per poterlo fare! conchiudeva con un vecchio epifonema il visitatore.
Non si creda però che a Don Bosco sia stato agevole far accettare tale condizione. Se non che da un lato egli tenne fermo a ripetere che non voleva profanare i giorni del Signore, e dall'altro il Comitato esecutivo ci teneva a non lasciarsi sfuggire la splendida macchina, e così questo cedette ed egli ne usci con la sua.
Anche nell'Esposizione Don Bosco si trovò fra' piedi i protestanti. Costoro alla porta d'entrata distribuivano in regalo foglietti, che fornivano gl'indirizzi dei loro correligionari di Torino, Caserta, Civitavecchia, Firenze, Genova, Livorno, Napoli, Roma, Tivoli e insieme spacciavano opuscoli e volumi di propaganda. Un opuscolo e un volume particolarmente c'interessano.
L'opuscolo s'intitolava: Lettera rispettosa di C. P. Meille, pastore della chiesa evangelica valdese a Sua Eminenza Reverendissima il Cardinale Alimonda, Arcivescovo di Torino. L'evangelico pastore sfruttava un caso avvenuto di fresco nella città.
Un finto dottore Augusto dei Baroni di Meyer, oriundo di Ginevra, aveva con la moglie abiurato i propri errori davanti a Sua Eminenza, presenti cento e più sacerdoti, nella chiesa dell'Episcopio. Ora il Meille svelava non essere colui altri che un tal Cesare Augusto Bufacchi romano, il quale aveva già apostatato tre volte e tre volte aveva fatto abiura per uccel­lare alla generosità dei cattolici turlupinandoli. La truffa in­degna serviva al valdese per dimostrare come i cattolici fos­sero corrivi a pigliar per vero il falso anche nelle loro apologie contro i protestatiti. C'era di più: il poco scrupoloso ministro mirava a screditare dinanzi al pubblico l'Arcivescovo, che nella venuta dei Reali a Torino per l'Esposizione era stato fatto segno a onori insoliti da parte delle loro Maestà e del Duca di Genova. Per più versi spiacque a Don Bosco la brutta manovra; onde commise a Don Bonetti di elaborare e lanciare una risposta. Don Bonetti che in questo genere di letteratura si sentiva nel suo elemento, rispose per le rime con un opu­scolo intitolato: Verità e truffe. Leggendolo però, vi si avverte una tal quale temperatezza di idee e di espressioni, che non dovette essere spontanea, ma ispirata e voluta da Don Bosco.
Senza risposta al contrario fu lasciato un volume di 34-J pagine fitte fitte, scritto da un altro valdese, questa volta anonimo e venduto fuori dell'Esposizione per una liretta. È dal principio alla fine una diatriba contro il Giovane provveduto di Don Bosco . La stranezza del titolo viene spiegata così dall'autore nell'Avvertenza che fa da prefazione: “ Presi dal nostro dialetto la parola boccia e suoi derivati, perchè nel vocabolario italiano trovavasene difficilmente un'altra che racchiudesse -una più popolare e viva sintesi del libro di Don Bosco: difatti siccome qui in Piemonte boccia non altro significa che una delle nove grosse palle di legno componenti il giuoco delle bocce; così i continui cambiamenti dogmatici
della Chiesa Romana rappresentata oggidì dall'edificatore Don Bosco rassomigliano a boccie sempre rotolanti sul suolo che si urtano e respingono a vicenda, nei popolari, chiassosi divertimenti: epperciò formano un doloroso ed audacissimo contrapposto alle immutabili, serie, consolanti, e non mai contraddittorie dottrine evangeliche. Giammai si edificò una casa con boccie od altri materiali rotondi ”. Cominciando dal ritratto dì S. Luigi, con cui il caro manuale di pietà si apre, il discepolo di Valdo rivede pagina per pagina il libro di Don Bosco, segnalando errori, contraddizioni, pazze teorie, cavilli, menzogne, dottrine ereticali. La tesi e insieme lo scopo di questo vero “polpettone ” (usiamo il termine con cui è squalificato il Giovane Provveduto) si può arguire dalla seguente apostrofe di pagina 66: “ 0 giovinotti, lasciate le silique di questo dottore tenebroso e contraddicente, e ricevete ciò che la viva fonte, la fonte saliente, il vero Maestro vi dice ”. Ossia abbandonate l'insegnamento cattolico e abbracciate il Vangelo secondo Pietro Valdo. Un frutto del Vangelo valdese com'è questo libro, basta da solo a far conoscere la natura della pianta che l'ha prodotto; lo stesso linguaggio impertinente contro Don Bosco sarà molto valdese, ma non è niente evangelico.
Un buon opuscoletto su Don Bosco e le sue opere fu pubblicato e divulgato da un sacerdote del Trentino, che imparò a conoscere il Santo nell'Esposizione torinese. Gliene venne l'idea da quello che lesse in una Guida dell'Esposizione, dove, descrivendosi la Galleria del lavoro, si diceva: “ Il famoso Don Bosco, un clericale la cui attività auguriamo a tutti i liberali, ha occupato all'Esposizione un cortile intero a destra ” . L'autore presentava così il Servo di Dio: “ Chi è mai questo prete che è giunto ad imporsi ai liberali stessi? Se aveste a vederlo, nulla scorgereste che vi riveli un genio sublime; è un prete alla buona, il quale, sebbene abbia solo da poco oltrepassato il sessantesimo nono anno di età, all'aspetto vi appare più che settuagenario. Fissate un istante sii di lui i vostri sguardi e voi leggerete a chiare note sulla sua fronte il soffio dello spirito divino che lo anima e che lo ha prescelto ministro di opere sì stupende; miratelo un istante e vi sarà impossibile non sentirvi compresi di venerazione e d'amore per questo canuto vegliardo. Franca è la stia accoglienza, acuto il suo sguardo, incantevole il suo sorriso, lepida la sua conversazione, dalla stia fisionomia e da tutta la stia persona traspira un non so che di bontà tale che vi ammalia e v'innamora ”. Dalla visita fattagli a Valdocco l'autore riportò dì lui queste parole: “Nella mia casa c'è pane, gli disse, e questo ce lo manda giorno per giorno la Provvidenza, c'è lavoro, ognuno deve faticare per tre; e c'è Paradiso, perchè chi mangia e lavora per Iddio, ha diritto ad un cantuccio di Paradiso ”. Stampate a vistosi caratteri, quelle tredici facciate sì divorano d'un fiato e dovettero servire in molti casi per chiudere la bocca a mal informati detrattori.
Le esposizioni, si sa, danno occasione a trattenimenti e a festini di vario genere. Nella Galleria del lavoro, esponeva i suoi prodotti un Giuseppe Torretta, fabbricante di torroni e conterraneo di Don Bosco, ch'ei si vantava di conoscere fin dall'Infanzia. Dandosi dalla Commissione espositrice di quella sezione un gran pranzo ai suoi espositori, previo il versamento della quota di venticinque lire, il Torretta ricevette l'incarico d'invitare Don Bosco a sottoscriversi; gli scrisse dunque una lettera piena di preghiere e di esortazioni. Ma Don Bosco, consideratis, considerandis, conchiuse che Don Rua rimettesse le venticinque lire e che a causa della lontananza scusasse la sua assenza. Egli soggiornava allora a Pinerolo .
L'incontrate Don Bosco fra gli espositori era per chi poco o punto lo conoscesse, una sorpresa e una rivelazione mentre per chi già ne aveva notizia, era un motivo di più all'ammirazione. Così un reduce da Torino manifestò il suo stupore in un periodico popolare di Reggio Emilia e da lui sappiamo che la Galleria di Don Bosco era una delle poche, dove si affollavano i visitatori, e che in quel continuo andirivieni si notavano si i volti i segni evidenti della soddisfazione e della meraviglia .
Approssimandosi il termine del l'Esposizione, bisognava assegnare agli espositori le ricompense. Le varie sezioni avevano nominato le loro giurie, che nella seconda metà dì settembre procedettero ai relativi esami, finiti i quali, fu costituita la giuria di revisione che doveva esaminare i reclami contro i verdetti formulati, ma non ancora definitivi. Don Bosco, presa conoscenza del verdetto che lo riguardava, trovò esserglisi aggiudicato un premio troppo inferiore al merito. Della cartiera non si teneva conto particolare, perchè la macchina non era di fabbrica italiana, e per i prodotti dell'arte tipografica in genere gli si concedeva la semplice medaglia d'argento. Veramente il lavorio per deprezzare l'attività editoriale di Don Bosco era cominciato in antecedenza; infatti il Giornale ufficiale dell'Esposizione aveva pubblicato che nella Galleria di Don Bosco non si stampavano che “opere comuni, anzi comunissime ”. Si fece ben osservare subito la falsità di quel giudizio, contraddetto anche dal fatto che si stava là stesso precisamente stampando un'opera elegante, illustrata con cento incisioni, la Fabiola; ma non si volle smentire l'errore. Il giurì dunque premiò semplicemente la Tipografia Salesiana con medaglia d'argento “ per la sua grande diffusione di stampe in tutto il globo, per la mitezza dei prezzi, nonchè pel grandioso impianto della special Galleria con cui dallo straccio alla carta, da questa alla stampa e alla legatura ottiensi il libro ”.
Don Bosco a tutela de' suoi diritti inoltrò prima al Comitato esecutivo le sue rimostranze; appresso ripresentò le sue proteste per la Giuria di revisione, aggiungendo che, ove il verdetto non fosse ne' suoi riguardi riformato, egli avrebbe rinunziato a qualsiasi riconoscimento ufficiale, pago del plauso, di cui eragli stato largo il pubblico. Ecco la sua lettera.
 
Onorevol.mo Comitato Esecutivo,
 
(Ufficio Giuria di revisione).
 
Addì 23 del corrente mese, a nome mio veniva scritta a cotesto Onorevole Comitato lettera, nella quale gli si facevano alcune osservazioni intorno al Verdetto della Giuria ed al premio della Medaglia d'argento che sarebbe stata aggiudicata alle molteplici opere delle mie Tipografie ed esposte nella Galleria della Didattica alla Mostra Italiana.
Ritornando sull'argomento mi fo' lecito di aggiungere, per norma della Giuria medesima, alcune osservazioni, quali sono: la mensuale pubblicazione dei Classici Italiani purgati ad uso della gioventù e scientificamente annotati, che nel corso di 16 anni si va facendo dalla mia Tipografia di Torino, i cui esemplari sorpassano già la cifra di 3oo.ooo; la mensuale pubblicazione delle nostre Letture popolari in edizione economica, che dalla sua origine raggiunse l'anno 330 ed i cui esemplari sorpassano già la cifra dì due milioni; la 100° ristampa del Giovane Provveduto, i cui esemplari raggiunsero i sei milioni, e con altre operette di minor mole della stessa natura, la cui diffusione è incalcolabile; i Classici Latini e Greci annotati ad uso delle scuole secondarie, la cui pubblicazione diffusissima corre pure da 20 anni a questa parte; i Dizionarii Latini, Italiani e Greci colle relative Grammatiche, composti da Professori dei miei Istituti, apprezzati e lodati da uomini competenti ed universalmente accolti, come ne sono prova le copiose e frequenti edizioni fatte. Più altre opere di Storia, Pedagogia, Geografia, Aritmetica, apprezzate e diffusissime, i prezzi delle quali modicissimi, che sono alla portata di tutte le condizioni e si prestano alla grande diffusione; un discreto numero d'edizioni dì varii formati e mole, illustrate da incisioni o senza, ma sempre eleganti nella carta e nella stampa; molte altre produzioni che per brevità tralascio di accennate, mi paiono motivi sufficienti per interessare la Giuria incaricata dell'esame, e indurla ad aggiudicare un premio non inferiore a quelli conferiti ad Espositori, le cui produzioni, e per qualità e per quantità sono inferiori alle mie.
Fo' anche notare alla Giuria che i lavori sovr'accennati sono fatti in tutte le mie Tipografie da poveri giovani raccolti ne' miei Istituti, ed avviati per tal modo a guadagnarsi in seguito ed onoratamente il pane della vita; e ciò nondimeno l'esecuzione dei lavori non è inferiore (a giudizio degli intelligenti nell'arte) ad altre opere esposte da varii Editori, i quali ottennero un premio, non che eguale, ma, secondo che mi venne riferito, superiore al mio.
Non debbo ommettere eziandio, come le Opere mie non furono dalla Giuria appositamente visitate e confrontate, epperciò mi pare che il suo giudizio non abbia potuto emettersi con piena conoscenza di causa circa il loro merito, come alcuni esperti editori si espressero nella disamina dei nostri cogli altrui libri, non che degli stampati eleganti eseguiti nella Galleria della mia Cartiera e sotto l'occhio del pubblico.
In quanto alla mia Cartiera, se fu, ben colta la espressione, mi verrebbe semplicemente offerto un Attestato di benemerenza, escludendomi così dal novero dei concorrenti e dei premiati. Posto anche che non abbiasi a tener conto della macchina da carta perchè estera mi pare nondimeno che si debba aver riguardo al lavoro perfezionato della medesima ed alla industria dell'acquisitore sottoscritto, che per tal modo, con ingente suo scapito di lavoro, nell'odierna Mostra Italiana, promuove in Italia l'arte ed il lavoro con più vasta produzione.
Mi fa poi anche sorpresa che non si abbia avuto alcun pensiero dalla Giuria intorno alla mia Fonderia tipografica, alla composizione e stampa dei libri ed alla relativa legatura, le cui arti sono appieno rappresentate in azione di lavoro costante nella Galleria stessa, e mediante le quali si pose sott'occhio del pubblico la ingegnosa operazione con cui dallo straccio, alla carta, al carattere, alla stampa ed alla legatura ottiensi il libro.
Per tutte queste ragioni fu unanime il giudizio favorevole del pubblico, il quale dovrebbe pur pesare sulla bilancia, usata dalla Giuria nello assegnare i premi.
Prego pertanto l'Onorevole Comitato che per mezzo della Giuria di Revisione voglia venire ad un Verdetto il quale sia pi√π conforme al merito delle Opere sopra accennate e non lasci alcun motivo al pubblico di emettere giudizii sfavorevoli a questo proposito.
Spero che si prenderanno in considerazione questi miei appunti. Che se ciò non fosse io fin d'ora rinunzio a qualsiasi premio od attestato, ingiungendo che da cotesto Comitato si impartiscano gli ordini opportuni, affinchè non venga fatto alcun cenno per le stampe, nè del verdetto, nè del premio ed attestato medesimo.
In questo caso a me basta di aver potuto concorrere coll'Opera mia alla Grandiosa Mostra dell'ingegno e industria italiana, e dì aver dimostrato col fatto la premura che nel corso di oltre 40 anni mi sono sempre dato, a fine di promuovere in un col benessere morale e materiale della gioventù povera ed abbandonata, il vero progresso eziandio delle scienze e delle arti.
Mi sono premio sufficiente gli apprezzamenti del pubblico, che ebbe occasione di accertarsi coi proprii occhi dell'indole dell'Opera mia e de' miei collaboratori.
Colgo questa propizia occasione per augurare all'Onorevole Comitato ed alla spettabile Giuria ogni bene da Dio e professarmi con pienezza di stima.
Delle Signorie loro Ill.me
 
Torino, 25 ottobre 1884.
Obbl.mo servitore
Sac. GIO. BOSCO.
 
Ma la Giuria di revisione non degnò dì un'occhiata le ragioni qui addotte; soltanto alla medaglia d'argento per la produzione tipografica aggiunse per la cartiera un irrisorio attestato di benemerenza, equivalente a un puro e magro segno dì ringraziamento, quale si rilasciava a tutti gli espositori della Galleria del lavoro. Contro la mostruosa ingiustizia si levò la stampa cattolica ; ma con tanti massoni che facevano parte dei Comitati, delle Commissioni e delle Giurie, necessariamente l'insulso spirito anticlericale dell'ottocento doveva imprimere carattere partigiano a un'opera intrapresa nella capitale del Piemonte sotto i migliori auspici di comune gioia e concordia. “ Uomini dì senno e di intelligenza, scrisse il Corriere di Torino, affermavano Don Bosco degno del Diploma d'onore ”; ma “ecco la grande colpa del venerando sacerdote, spiegava l'Eco d'Italia: egli contrasta e impedisce potentemente la propaganda radicale e repubblicana nella gioventù, e lavora indefessamente e con splendidi successi alla soluzione cristiana (cioè la sola possibile) della tremenda questione sociale ”
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