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Capitolo 6

Gran parte delle chiese d'Italia Prive dei loro Vescovi - Don Bosco desidera trovar rimedio a tanti danni - Lettera di Pio IX a Vittorio Emanuele per provvedere alle diocesi - Risoluzioni concilianti del Ministero Italiano - Don Bosco e il Ministro Lanza - Si chiede a D. Bosco come possa dar pane a tanti giovani - Missione dell'Avv. Vegezzi a Roma - Tumulti settarii per impedire ogni accordo col Papa - Il Ministero rompe le trattative - Fatti e progetti a danno della Chiesa.


Capitolo 6

da Memorie Biografiche

del 04 dicembre 2006

 A questo punto delle nostre Memorie dobbiamo necessariamente illustrare un fatto che servirà d'introduzione a un'epoca fra le più gloriose della vita di D. Bosco.

In tutta l'Italia cento otto sedi Vescovili erano vacanti, nel tempo che maggiore diveniva il bisogno di guida e di conforto ai fedeli. Quarantacinque Vescovi erano stati mandati in esilio; a diciasette eletti dal Papa il Governo non aveva permesso di entrare nelle loro Diocesi: delle altre sedi erano morti i titolari. Negli antichi stati del Piemonte, diciotto Vescovi, chi per l'età avanzata, chi perchè logoro dalle fatiche e dalle pene, erano scesi nella tomba senza che fosse dato loro un successore.

I ministri del Regno non se ne prendevano pensieri, perchè stava ne' loro disegni il ridurre il numero delle diocesi; e al Papa non era possibile provvedere, finchè durava l'asprezza nelle relazioni tra la Chiesa e il Governo. Erano passati pochi mesi dalla pubblicazione del Sillabo, che aveva fatto andare sulle furie i settarii di tutto il mondo.

D. Bosco gemeva vedendo le cose religiose volgere in così misero stato; e dopo aver molto pregato e fatto pregare da' suoi alunni, preso consiglio da persone autorevoli, deliberò di iniziare pratiche presso gli uomini del Governo per indurli a por fine ad una condizione di cose, cotanto pregiudizievoli alla Chiesa e alla stessa civile società. Egli non riputava impossibili a superarsi gli ostacoli posti dai faziosi. Avevano detto le mille volte di volere che la Chiesa fosse libera e di essere contenti che il Papa si occupasse dei negozii strettamente religiosi ed ecclesiastici, esclusa ogni questione territoriale. Non era dunque il caso di appellarsi alla lealtà delle loro proteste?

D'altra parte non tutti gli uomini di Stato erano mossi da odio contro la Chiesa, ma venivano strascinati dalla rivoluzione, benchè ripugnanti. Gli uni per una politica, nota a D. Bosco perfettamente propendevano a mostrarsi arrendevoli in certe proposte parziali a vantaggio della Chiesa, altri con qualche concessione si sforzavano di attutire i rimorsi della loro coscienza col lusingarsi di aver fatto anche un po' di bene; ve n'erano poi di quelli i quali per motivi personali, per riguardi verso famiglie di grande importanza, professavano opinioni moderate.

D. Bosco li aveva già avvicinati, colla solita sua prudenza, per affari dell'Oratorio, per sfatare certe accuse che i maligni avevan mosse contro certi Vescovi, per togliere impedimenti a qualche collazione di benefici, o per ottenere una sovvenzione o una dotazione a qualche parrocchia.

Non è quindi a stupire che si accingesse a perorare la causa delle diocesi italiane, e che, a più riprese, per circa dieci anni perseverasse in questa nobilissima difesa. Aveva incominciato, col mezzo di alcune sue alte attinenze ad investigare le disposizioni di animo di alcuni ministri, dopo di aver chiesto in cosa di tanta importanza l'approvazione del Sommo Pontefice. Da qualche tempo uno scambio di lettere avveniva tra lui e Pio IX, come consta dalle nostre Memorie del mese di febbraio 1865, delle quali però non si conobbe il contenuto. Il Venerabile stesso deve averle distrutte. D. Emiliano Manacorda fu il fidato intermediario di questa corrispondenza.

Intanto il Re Vittorio Emanuele era stato avvisato che il Papa gli avrebbe scritto una lettera.

Pio IX infatti, guardando solo al bene delle anime, di propria iniziativa aveva deliberato di porgere ai nemici della Chiesa Cattolica un'occasione opportuna di corrispondere agli inviti della grazia divina. Il 6 marzo scriveva una lettera al Re, piena di benevoli espressioni, nella quale lo pregava di tergere almeno qualche lagrima alla travagliata Chiesa in Italia, venendo seco lui ad intelligenze per provvedere ai Vescovati; e gli proponeva di mandare a Roma una persona laica di sua confidenza, per trattare sul modo di porre un termine a quelle vacanze.

La lettera, perchè non fosse intercettata da chi poteva averne l'interesse, fu consegnata al commendatore Adorno, di Firenze, il quale la presentò al Re. Questi, a cui erano stati sempre incresciosi i dissidii col Papa, accolse con piacere l'invito e disse all'Adorno:

- Sono sette mesi che aspettavo questa lettera del Papa!

E rispose dal palazzo Pitti al Pontefice, con dichiarazioni di ossequio, promettendogli di spedire a Roma un inviato per entrare in trattative.

La proposta del Papa fu tosto trasmessa al Ministero e questo si dimostrò propenso a secondarla, senza però assumere impegni che fossero per sconcertare i disegni politici di un'Italia una e indipendente.

Si formularono quindi le seguenti istruzioni per chi sarebbe stato inviato a Roma:

1°Ammesso in generale il ritorno dei Vescovi assenti, con restrizioni ed eccezioni riconosciute di comune accordo opportune.

2° Ammesso il riconoscimento de' Vescovi preconizzati, salve eccezioni che per considerazioni speciali la Santa Sede non escludeva interamente.

3° Le nomine ai Vescovati, sprovvisti di titolari, limitate alle sedi episcopali che dovrebbero essere conservate in una revisione ulteriore delle circoscrizioni diocesane.

4° Le prerogative regie dell'exequatur e del giuramento, attualmente mantenute senza distinzione per tutti i nuovi Vescovi, ma applicate in forme che non possano nè eccitare le suscettibilità legittime della Corte di Roma, nè implicare questioni politiche.

Fra quelli che si mostravano più inclinati a far sì che le pratiche avessero un esito conforme al desiderio del Santo Padre, era Lanza, ministro per gli affari interni. Questi avrebbe voluto che nella nomina dei Vescovi si accordassero alla Santa Sede tutte quelle maggiori larghezze che non fossero pericolose alla sicurezza dello Stato; e che il principio di “libera Chiesa in libero Stato ” incominciasse a passare allo stadio dei fatti. Insisteva che alla libertà più ampia s'informassero tutti gli atti del Governo; e desiderava che l'Italia, anche nelle materie religiose, abbandonasse le restrizioni d'altri tempi, lasciando la maggior libertà possibile d'esplicazione a tutte le religioni, e anche alla Cattolica.

Sotto l'aspetto pratico poi, il Lanza, come altri ministri, partiva dal concetto che la “ Convenzione di settembre ”, riservando soltanto i casi eccezionali, obbligava il Governo Italiano a rinunziare ai mezzi violenti per acquistarsi Roma. Sperava che con quelle concessioni si sarebbe aperta la via ad altri accordi col Papa, specialmente in materie commerciali, e si sarebbe giunti ad accomunare talmente gli interessi del piccolo Stato Pontificio con quelli della rimanente Italia, da riuscire a sostituire in tutto l'influenza di questa a quella dì potenze straniere, e a raggiungere le scioglimento della questione romana, sopra il terreno pacifico della conciliazione e della libertà della Chiesa.

D. Bosco non divideva certamente le idee di questi signori, ma più volte parlando della nomina dei Vescovi (e noi l'abbiamo udito) sosteneva essere di interesse del Governo, di mostrarsi leale nell'osservanza della “ Convenzione di settembre ”, dar prova all'Europa delle sue benevoli disposizioni verso gli interessi spirituali della Chiesa, e contentare le popolazioni facendo sicuro assegnamento sul loro buon senso, il quale non avrebbe permesse dimostrazioni imbarazzanti. Ciò D. Bosco aveva ripetuto e dimostrato in certi convegni frequentati anche da uomini politici. Ed ecco giungergli il seguente invito da parte del Ministro Lanza:

 

Ministero dell'Interno.                                        

Torino, 17 marzo, 65.

 

Il sottoscritto, d'ordine del Ministro, avrebbe d'uopo di conferire colla S. V. Rev. ed Onorevolissima.

Se così le piace, potrebbe venire da me in ora di ufficio a suo piacimento.

Di V. S.

Dev.mo Servo

Veglio.

 

Il Servo di Dio non mancò di recarsi al Ministero e tornato all'Oratorio, avendogli chiesto qualcuno di quali cose si trattasse, rispose:

- Un affare di altissima importanza!

Dopo questo primo abboccamento, D. Bosco fu chiamato pi√π volte dal Ministro dell'Interno. Infatti egli era l'uomo che poteva in quel momento conoscere meglio di ogni altro le disposizioni degli animi nella Corte Romana; prevedere quale inviato tornerebbe pi√π gradito al Papa ed ai Cardinali; suggerire chi avrebbe potuto far buoni uffizi in Roma per l'esito delle trattative. Di questo delicatissimo incarico pi√π tardi egli ci fece qualche cenno, ma sul principio s'imponeva la segretezza.

Fra l'altro Don Bosco ci narrò il modo famigliare col quale avealo trattato il Lanza. Un giorno, essendo presente qualche altro Ministro, questi gli diceva:

-Ma Lei, D. Bosco, mi dica un poco, come fa a far tante spese? dove prende tanto danaro per mantenere tanti giovani? questo è un segreto ed un mistero.

-Signor Ministro, rispose D. Bosco, io faccio come fa la macchina a vapore.

- Ma come? si spieghi!... io non intendo questo gergo.

- Vado avanti, riprese D. Bosco: facendo: puf, puf, puf, puf

- Questo s'intende, mio caro abate, disse il Lanza; ma questi puf bisogna pur soddisfarli, ed è qui dove sta nascosto il suo segreto.

- Veda, signor Ministro, le dirò che entro la macchina ci vuole del fuoco; perchè vada avanti e proceda bene, ha bisogno di alimento...

- Ma di che fuoco intende lei parlare?... lo interruppe il Ministro.

- Del fuoco della Fede in Dio, rispose D. Bosco; senza di questo cadono gli imperi, rovinano i regni e l'opera dell'uomo è nulla!

Queste parole pronunziate come alcune volte soleva pronunziarle il Servo di Dio, resero pensoso l'interlocutore.

Il Ministero aveva pensato di mandare a Roma il Senatore Michelangelo Castelli, ma infine prescelse il deputato Comm. Saverio Vegezzi, un uomo attempato, onesto e leale, sommo giurista ed espertissimo negli affari: ma gli fu messo a fianco, per le solite diffidenze, l'avvocato Giovanni Maurizio genovese, il quale però fu sempre un ammiratore e anche un amico di D. Bosco. Le istruzioni date a voce al Vegezzi erano assai larghe e rivelavano nel Governo la speranza di un accordo e il proponimento di abbondare nelle concessioni. Si sarebbe andato sino alla soppressione dell'Apostolica Legazia nelle provincie meridionali, concessione che doveva tornar cara al Papa e che d'altronde era conforme alla massima di libera Chiesa.

L'Avvocato Vegezzi partì col suo compagno, avendo carattere meramente confidenziale, il 14 aprile Venerdì santo; ed ebbe cortesi accoglienze dal Papa che gli parlò coll'espansione consueta.

Tenne pure varie conferenze col Card. Antonelli, il quale era stato informato da Torino; e, trattando sempre in forma confidenziale, convennero che anzi tutto si lasciasse da parte ogni questione politica. E, si venne in quest'accordo: per le diocesi vacanti nel Piemonte il Re avrebbe presentato i candidati a norma del Concordato esistente; quelli delle Provincie di cui erano scomparsi i principi, li nominerebbe il Papa direttamente, facendone conoscere al Re i nomi prima di preconizzarli; i vescovi assenti potrebbero ritornare, eccetto alcuni per speciali circostanze personali o locali; si conserverebbero intatti i beni delle mense.

Roma non mostrossi aliena dal riformare alcune circoscrizioni diocesane: ma non ammise l'exequatur per le Bolle Pontificie ed il giuramento; e l'inviato del Governo d'Italia riconobbe che Essa era dalla parte della giustizia, quando, per formalità ormai viete, non voleva avvilupparsi in una questione che compromettesse i suoi principii politici e economici. Il Vegezzi l'aveva riconosciuto con tanta lealtà, che nel cuore del Santo Padre si dovè far luogo alla speranza di poter finalmente provvedere in qualche modo a tanta diletta parte del suo gregge.

Però appena si ebbe contezza nel pubblico della lettera scritta dal Sommo Pontefice al Re Vittorio Emanuele e trapelò che questi gli aveva manifestato la propensione sua a secondarne i voti, la setta si pose in agitazione.

Fin nel Parlamento, il 25 aprile, alcuni deputati con mala fede e slealtà rinfacciarono al Governo la missione data al Vegezzi accusandolo di venire a patti col Pontefice e sostenendo che la vacanza delle diocesi non era di alcun danno. Nello stesso tempo il giornalismo settario si levava furiosamente e con minacce per impedire il proseguimento delle trattative. Anche le logge massoniche si convocavano e prendevano deliberazioni contro qualsivoglia accordo colla Santa Sede, e in tutte le città d'Italia adunavansi assemblee tumultuose nelle piazze, nelle osterie e nei teatri per protestare contro quella iniziativa con bestemmie orrende ed empietà inaudite. Con queste dimostrazioni i settari ebbero in pugno l'arma della così detta pubblica opinione, di cui abbisognavano per attraversare efficacemente i desiderii del Santo Padre ed impedire ogni effetto delle buone disposizioni per parte del Re.

Per tal guisa, mentre parea ornai vicino un accordo col Papa, profondi e palesi dissidii erano sorti fra i ministri, che attraversavano fortemente per varie guise i disegni del Vegezzi. I moderati si sarebbero contentati di una semplice formola di registro in quanto all'exequatur; sì mostravano arrendevoli quanto al ritorno incondizionato ai Vescovi esigliati; non insistevano sopra la diminuzione delle Diocesi. Invece il Ministro Vacca, guardasigilli, gettava sempre nuovi impacci tra i piedi dei colleghi in modo da riuscire insopportabile.

Vegezzi aveva notificato al Regio Governo i preliminari delle trattative e poichè il Ministero, che aveagli ristrette le facoltà, o non rispondeva, o rispondeva inadeguatamente, si recava egli stesso a Firenze il 5 maggio, per meglio chiarire la condizione delle cose e ricevere personalmente le definitive istruzioni; ma vide presto dileguarsi le concepite speranze.

Nei Ministri che avevano presa stabile dimora nella nuova capitale trovò durezza, in alcuni per rancori personali, in altri per tenacità ai diritti regii, nel Natoli principalmente per decisa avversione ad ogni principio cristiano. Le proposte di Roma furono definitivamente discusse nel consiglio dei Ministri; Natoli, Vacca, Petitti e Sella non vollero transigere sul giuramento e sul regio exequatur; e prevalsero.

Loro scopo evidente era di estorcere per indiretto dalla Santa Sede un riconoscimento formale del nuovo regno, comprese le Provincie Papali annesse, oppure di rompere le pratiche. In quanto ai Vescovi assenti, pel ritorno alle loro diocesi, s'imponeva ne facessero domanda al Re o al Ministro di Grazia e di Giustizia, e scrivessero una lettera pastorale in cui promettessero di osservare le leggi.

Il Vegezzi il 2 giugno porto a Roma queste condizioni che egli stesso confessò al Cardinale Antonelli non essere accettabili; e tale fu pure il giudizio di una speciale Commissione di Cardinali. La Santa Sede tuttavia propose ancora che si venisse alla nomina dei soli Vescovi del regno Sardo, e al ritorno di quelli esiliati. Il Vegezzi rispose che ne avrebbe informato il suo Governo; e il 22 giugno vi fu l'ultimo incontro del Comm. Vegezzi col Cardinale, cui il Commendatore ebbe a dire che gli risultava, dalle risposte ricevute da Firenze, come il Governo Italiano persistesse nelle sue ultime proposte e che aveva solamente acconsentito al ritorno dei Vescovi esiliati, tranne alcuni. Così cadde ogni trattativa. Quando il 23 giugno il Vegezzi domandò udienza di congedo, il Santo Padre volle che fosse ricevuto cogli onori della sua anticamera; gli diede lunga udienza; e poichè il Vegezzi gli diceva:

- Spero che le trattative siano non rotte, ma solo interrotte!

-Dipende dal vostro Governo, rispose il Papa; le mie basi ora sono note, e non posso allontanarmi da esse; basta che il vostro Governo le accetti. Vegezzi, fatto senatore, dopo il 1870 non mise pi√π piede in Senato.

Intanto i giornali della rivoluzione annunciavano che gli intrighi del partito fanatico avevano mandato ogni cosa a male, malgrado le generosissime offerte e concessioni fatte al Papa dal Governo. In questo senso fu redatta la relazione al Re sull'esito della Missione Vegezzi, ma il Lanza, addolorato e sdegnato si rifiutò di firmarla e fu in procinto di ritirasi dal Ministero. Allora, affinchè non si venisse a conoscere chi fosse il Ministro che non si trovava d'accordo co' suoi colleghi, fu deciso che il solo La Marmora l'avesse a firmare.

D. Bosco era stato informato di tutte le fasi di queste trattative ed aveva provato una pena grande nel vedere variate e distrutte le primitive basi, sulle quali eransi fondate tante speranze. Tuttavia non si perdette di coraggio e noi vedremo più tardi come egli si adoperasse perchè le trattative fossero riprese.

Intanto continuava a manifestarsi l'odio inflessibile contro la Chiesa che bruciava l'anima di certi settari Tanucciani.

Il 1° luglio la Gazzetta Ufficiale del Regno pubblicava il decreto con cui si promulgava il nuovo codice civile e si istituiva legalmente il matrimonio civile. Il Senato, il 29 marzo, aveva passata questa legge con 70 voti favorevoli sopra 104 votanti.

A Ferrara il 30 luglio le Teresiane adoratrici perpetue erano scacciate dal loro monastero, per stabilire in questo un ospedale militare. Era intimato alle monache di sgombrare entro un giorno.

A Bologna nel pomeriggio del 14 agosto le Suore Salesiane, in numero di 50, ricevevano l'ingiunzione di sgombrare dal Convento ed educatorio prima di sera. Non si accordò loro nemmeno la proroga di 12 ore che avevano chiesta.

Il 25 agosto il Ministro dell'Istruzione Pubblica Natoli, fatta compilare una statistica degli Istituti e dei collegi-convitti de' corpi religiosi di ambo i sessi, la presentava al Re con una sua relazione proponendogli di abolirli tutti in un colpo. L'istruzione data nei medesimi, egli affermava, più non consuona colle idee che l'età nostra ha adottato in materia d'insegnamento. E i collegi ed istituti dei quali domandava l'abolizione erano nientemeno 1112.

Il 30 agosto i Cardinali Arcivescovi di Benevento e di Napoli, gli Arcivescovi di Sorrento e Reggio, i Vescovi di Anglona e Tursi, di Aquila, di Nuoro e Patti, scrivevano una stupenda lettera al Re, chiedendo di poter ritornare nelle loro diocesi, dalle quali erano stati espulsi, per assistere le loro popolazioni flagellate o minacciate dal colera. Il Re non rispose e Paolo Cortese, Ministro di grazia e giustizia, scrisse ai Procuratori generali ordinando severamente che si proibisse a quei Vescovi, sotto qualunque pretesto, il ritorno alle loro diocesi, finchè non fossero compiute le elezioni. La stessa proibizione venne fatta ai Vescovi di Ascoli e di Aversa, e a quello di Foggia, relegato a Como dopo due anni di prigionia.

Il Natoli, che era divenuto anche Ministro degli affari interni, per aver il Lanza date le sue dimissioni, imponeva ai Vescovi condizioni impossibili riguardo le scuole secondarie dei Seminarii, per costringerli a chiuderle da sè o trar pretesto dal loro diniego per chiuderle egli stesso. Difatti così venne a capo di chiudere 58 seminarii. Ei pensava, dopo averne occupati i locali, di riaprirli, laicizzati e affidati ai municipi, con due terzi delle rendite confiscate; e comunicava il suo progetto ai Prefetti del Regno il 15 settembre.

Il 19 settembre il Guardasigilli Paolo Cortese vietava con una circolare le sacre processioni, rimettendo all'arbitrio dei Prefetti il darne la licenza, e sul fine dello stesso mese proibiva ai Vescovi di Caserta e di Gaeta di fare la visita pastorale.

Questo stesso Ministro preparava un nuovo colpo contro i diritti della Gerarchia Cattolica, cioè una nuova circoscrizione delle Diocesi nell'intento manifesto di scemare il numero dei Vescovi, e di incamerare i beni delle Sedi abolite. Le diocesi che erano 231, dovevano essere ridotte a 59, e il 3 novembre chiedeva a questo fine informazioni ai Prefetti del regno.

Il 28 novembre il Natoli rendeva conto al Re del risultato di una inquisizione sui Seminarii, dato anche alle stampe. Le diocesi possedevano, prima del 1860, 263 seminarii; 82 erano già stati aboliti, e 122 proponevasi che lo fossero egualmente, sicchè soli 59 fossero conservati, cioè uno per diocesi secondo il progetto Cortese.

Il 18 novembre aveva luogo a Firenze la solenne apertura del nuovo Parlamento, nel salone de' Cinquecento. Giorni prima Vittorio Emanuele aveva detto ai membri del Municipio e a varie deputazioni venute ad ossequiarlo:

- A Roma andremo e andremo a Venezia: per quella siamo in via, per questa ci vuol sangue.

E nel discorso della Corona, messogli tra le mani dal Ministero, fra le altre cose leggeva: “ Nel chiudersi dell'ultima legislatura, per ossequio al Capo della Chiesa, e nel desiderio di soddisfare agli interessi religiosi delle maggioranze, il mio Governo accolse proposte di negoziati colla Sede Pontificia; ma li dovette troncare quando ne potevano restare offesi i diritti della mia corona e della nazione (applausi). La pienezza dei tempi e la forza ineluttabile degli eventi scioglieranno le vertenze tra il regno d'Italia e il Papato. A noi intanto incombe di serbar fede alla Convenzione del 15 settembre, cui la Francia darà pure, nel tempo stabilito, esecuzione completa ”.

E in novembre le truppe francesi sgombravano dalle provincie meridionali degli Stati della Chiesa e una brigata del Corpo di occupazione ritornava in Francia. In Roma e su quel di Viterbo e di Civitavecchia rimanevano ancora circa 10.000 soldati francesi.

Con questi accenni abbiam dovuto dipingere l'ambiente, nel quale lavorò tanto anche D. Bosco, per far meglio comprendere di qual forza di volontà e di quale serenità di mente lo avesse fornito il Signore per compiere tutta la sua missione.

 

 

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