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Capitolo 49

D. Bosco risolve di dar principio alla Pia Società di S. Francesco di Sales - Tempi difficili per aver vocazioni - Scelta di quattro giovanetti popolani dell'oratorio - Don Bosco incomincia ad iniziarli nella grammatica italiana e latina: rapidi progressi. Scuola continua ai Becchi - Due lettere di D. Bosco scritte da Morialdo al Teol. Borel - Indirizzi al Governo perchè sia richiamato l'Arcivescovo in Torino - Un assassino convertito e confessato.


Capitolo 49

da Memorie Biografiche

del 15 novembre 2006

 L’idea fissa di D. Bosco era di aver col tempo sacerdoti suoi coadiutori per gli oratori festivi, e per altri suoi vasti progetti. Sovente il giovane Michele Rua l'udì esclamare: - Oh se avessi dodici sacerdoti a mia disposizione, quanto bene si potrebbe fare! Vorrei mandarli a predicare le verità di nostra santa religione non solo nelle chiese, ma persino nelle piazze! - E gettando talora gli sguardi su qualche carta del mappamondo, sospirava nel vedere come tante regioni ancora giacessero nell'ombra della morte, e mostrava ardente desiderio di poter un giorno portar la luce del Vangelo in luoghi non raggiunti da altri missionari.

Fin dal Convitto di S. Francesco di Assisi aveva fatto scuola a giovani da lui giudicati atti a coadiuvarlo. I primi furono quattro: Piola, Occhiena, Boarelli e Genta. Aveva concepite le più belle speranze; ma costoro vicini ad essere chierici, lo abbandonarono. Due altre volte ritentava la prova, e dopo aver consumato tempo e fatica la prova falliva; perchè i giovani, o distolti dalla famiglia, o altrimenti dissuasi lasciavano gli studi e spesso anche l'Oratorio. Cercò di radunare i preti che venivano pel catechismo, propose loro di far vita comune; di questa dimostrò i vantaggi pel bene delle anime, ma le sue esortazioni approdarono a nulla.

Come fare dunque per raggiungere il suo scopo? Se avesse fatto appello alle persone di buona volontà che sono nel mondo non avrebbe trovato chi gli rispondesse, poichè egli, obbedendo alla sua missione, voleva fondare una congregazione religiosa e in tempi nei quali tutto cospirava contro il suo disegno. I governi si accingevano a guerra spietata contro gli ordini religiosi, alla confisca dei loro beni, alla loro soppressione. Qualche congregazione era già stata dispersa. Teatri, romanzi, fogliacci, colle calunnie più infami ed atroci, e col ridicolo sparso a piene mani facevano aborrire dal popolo la vita del chiostro. La società era imbevuta di pregiudizi: in pubblico sovente si manifestava il dispregio per i religiosi. La parola frate suonava vilipendio presso di tutti. Lo stesso clero secolare in gran parte era ostile alle tuniche e alle cocolle, chi per interesse, chi per gelosia. Molti fra gli stessi religiosi malvolentieri portavano il giogo della regola, e sembravano dar ragione alle critiche e alle invettive degli empi, dei giornalisti e dei romanzieri. Tutto queste cause rendevano difficilissimo trovare anche poche vocazioni a così nobile stato.

Eppure D. Bosco doveva rintracciarle, doveva radunare le pietre di un grande edificio spirituale, doveva formarsi un popolo di religiosi. Era questa la sua missione, e lo spirito del Signore gli fece intendere il mistero del sogno, nel quale le belve si erano mutate in agnelli e un numero di questi in pastori. Bisognava dunque che si rivolgesse a quella classe di giovani che gli era stata indicata. Ma prevedeva che questi eziandio gli avrebbero voltate le spalle se sul bel principio avesse chiaramente detto di volerli fare religiosi. Perciò avrebbe dovuto procedere con grande cautela e guadagnar terreno passo a passo nei loro cuori senza che se ne accorgessero.

La sua impresa era delle più ardue. I fondatori di tutti gli altri ordini religiosi avevano trovati, tra coloro che per i primi si aggregarono alla loro società, uomini maturi per virtù, scienza, esperienza di cose di mondo e di spirito. Erano vocazioni formate, che bisognava e si potevano provare, anche mettendole a duro cimento. Il mondo allora faceva plauso a chi si consacrava a Dio.

Per D. Bosco la cosa non andava così. Egli doveva fondare una congregazione senza averne, umanamente parlando, gli elementi. Non si trattava di provare le vocazioni, sebbene di crearle. Se voleva cooperatori pii e dotti, egli stesso avrebbe dovuto formarseli. Neanche a parlare d'esperienza o di cose di spirito o di cose di mondo. D. Bosco stesso avrebbe dovuto infonderla in coloro che si sarebbero messi alla sua sequela.

Da solo, senza mezzi o appoggi umani, doveva togliere di mezzo ad una strada, da un'officina, qualche giovane fra i mille che frequentavano l'oratorio: aiutarlo a riformare la sua condotta morale, avviandolo alla frequenza dei sacramenti; insegnargli il catechismo e i primi elementi della grammatica italiana e latina; provvederlo di letto, vestito e vitto; procurargli i mezzi dì andare innanzi nelle classi superiori; quando fosse sufficientemente istruito mettergli la veste clericale, e preporlo per maestro agli altri compagni che fossero sopravvenuti, mentre avrebbe nello stesso tempo studiata la filosofia e la teologia fino ad essere prete: ecco il suo progetto che, suggerito dalla Madonna e maturato da lui per molto tempo, doveva dargli a poco a poco il personale necessario al suo divisamento. Egli dunque a S. Ignazio sopra Lanzo Torinese aveva deciso risolutamente di metter mano a questa impresa.

Perciò aveva preparati col Teol. Vola quegli esercizi spirituali dei quali abbiamo più sopra parlato. A questi in due riprese radunò settantun giovani, scelti fra le centinaia dei due oratori. In quei giorni li studiò particolarmente, per scoprire se in alcuno di essi si manifestasse qualche segno di vocazione allo stato sacerdotale. Di tanti ne prescelse tre fra i migliori: Giuseppe Buzzetti, Carlo Gastini e Giacomo Bellia, nei quali aveva scorto assai felici attitudini, e nei quali l'intelligenza, il buon volere e la singolare pietà davano speranza di felice riuscita. Ne aggiungeva un quarto, ed era Felice Reviglio, il quale essendo infermo non aveva potuto recarsi cogli altri a quel ritiro spirituale. Questi D. Bosco aveva stabilito di farli cessare dal lavoro manuale, esperimentarli per alcuni mesi, sottoponendoli a varie prove, specialmente con l'obbedienza, per conoscere da quale spirito fossero animati, e quindi avviarli agli studi. Ma fra tutti e quattro il solo Bellia aveva frequentate le scuole elementari sino a corso completo; gli altri, giunti, a così dire, a forza di spinte a far bene o male il loro nome, non erano andati più oltre, essendo occupati nel loro mestiere.

In un giorno dei mese di luglio D. Bosco chiamava a sè Buzzetti, Gastini, Bellia e Reviglio e con un tono singolare di voce disse loro: - Ho bisogno di raccogliere giovanetti che mi vogliano seguitare nelle imprese dell'oratorio. Accettereste voi di essere i miei aiutanti?

 - E in che cosa potremo aiutarla?

 - Comincerò a farvi un po' di scuola elementare, vi insegnerò i primi rudimenti della lingua latina, e se tale fosse la volontà di Dio, chi sa che a suo tempo possiate essere suoi sacerdoti.

 - Sì, sì, - risposero tutti e quattro ad una voce.      

 - Ma perchè possiate giungere fino a quel punto ci vogliono molte cose, e principalmente che vi rassegniate ad essere nelle mie mani come questo fazzoletto.  In così dire trasse di tasca la sua pezzuola e si diede a sfilacciarla sotto i loro occhi; indi soggiunse: - Come mi avete veduto fare a questo fazzoletto, così bisognerebbe che lo potessi fare di voi; cioè lo vorrei vedervi obbedienti in tutto, qualunque fossero i miei desideri. - I giovani promisero, accettarono quanto loro aveva proposto, e seco restarono convenuti in quanto alla scuola.

D. Bosco intanto faceva affiggere qua e là alle pareti dell'oratorio molti cartelli con l'iscrizione: - Ogni momento di tempo è un tesoro. - Benchè egli desiderasse far presto, considerando che l'ignoranza dei suoi allievi non era punto minore della loro buona volontà, riflettè che per gente ignara di ogni altro lavoro che non fosse dell'officina era come trovarsi in un mondo nuovo; e volle che in questo fossero introdotti passo a passo. Quindi nell'agosto 1849 assegnò loro per maestro dei primi rudimenti della grammatica italiana il Teologo Chiaves, ed essi andavano alle sue lezioni in casa sua presso S. Agostino. Dopo un mese di prova, riuscita felicemente, D. Bosco stesso incominciò a dar loro con una pazienza ammirabile le prime nozioni della lingua latina.

Mediante il continuo suo insegnamento, dato non solo ad ore prefisse, ma talora eziandio durante il tempo della ricreazione e della sua refezione, riusciva a far loro imparare, nello spazio di un altro mese, le cinque declinazioni, le quattro coniugazioni, e ad esercitarli nelle prime traduzioni dette volgarmente latinetti.

Alla metà di settembre ei condusse i suoi allievi alla casa paterna dei Becchi, perchè potessero prendere un po' di riposo e di svago. Giunto a Morialdo, scriveva la seguente lettera al Teol. Borel che in sua assenza assumeva sempre la direzione dell'Oratorio di Valdocco.

 

Carissimo Sig. Teologo,

 Stimo far cosa grata alla S. V. Car.ma il dare un ragguaglio sul nostro viaggio.

Partiti col vapore alle sei del mattino da Torino, andammo felicemente fino a Valdichiesa, dove siamo smontati. Giunti alle cascine dei Savi, dovetti essere testimonio di un tetro spettacolo. Era la sepoltura di un fratello ucciso da un'altro fratello. Il fatto era avvenuto così. Fra le buone e fra gli alterchi questi due fratelli si erano già divisa la paterna eredità; rimaneva solo un po' di concime. Le parole e le villanie giunsero a tal segno, che, non potendo più in alcun modo accordarsi, nell'eccesso di furore il maggiore s'avventò sopra il minore e con un coltello lo trapassò. L'ucciso è nubile, d'anni 18: l'uccisore è padre di famiglia d'anni 24. Oh! Maledetti alterchi. Un altro caso anche strano: fu un uomo trovato morto in un bosco, di qui poco distante, e già putrefatto per metà. Questi era di Chieri, e si dice che vaneggiasse alquanto.

Lunedì e martedì fui assai male in salute. Ieri ed oggi mi sento di gran lunga meglio; di giorno in giorno spero grande acquisto di sanità.

Giudico di grande vantaggio la partita che abbiamo ideata, cioè che Lei col Teol. Carpano, col Teol. Vola vengano a fare una gita fin qui. Valdichiesa, Croce grande, Morialdo ossia casa di D. Bosco sono l'itinerario.

Quivi stanno tutti bene; solo a Gastini continuano le febbri.

Io, mia madre, tutti i figliuoli salutano Lei, il Sig. Don Pacchiotti, T. Bosio, il D. Vola ecc., e mi creda sempre, quale di tutto cuore mi dichiaro nel Signore di Lei car.mo

 

Castelnuovo d'Asti, 20 Settembre 1849.

 

aff.mo amico

Sac. Bosco Giov. capo de' biricchini

 

P. S. - Può affidare i divertimenti al suo Agostino, che giudico capace di averne cura, specialmente unendosi con Arnaud.

 

 

Mentre D. Bosco era a Castelnuovo, si sentiva in Torino sempre più il bisogno di riavere l'Arcivescovo, ormai da troppo tempo tenuto lontano dal regno. I Canonici della metropolitana avevano domandato al Governo che lo richiamasse e lo proteggesse. Il cavaliere Edoardo della Marmora, amico di D. Bosco e che frequentava l'Oratorio di Valdocco, preparava per questo stesso fine una petizione, da presentarsi al Ministro dell'Interno, sottoscritta da ben 10.154 firme di laici. Il Governo però fin dai primi tempi del Ministero Gioberti aveva deciso di privare, a tutti i costi, Mons. Fransoni della sua sede, ed un giornalismo empio ed immorale continuava a vomitare contro di lui calunnie ed insulti. Ciò non pertanto l'imperterrito Prelato, saputo il movimento dei buoni in suo favore, era entrato in Savoia, mandando ordine che gli fosse preparata la sua villa di Pianezza ove faceva conto di prendere stanza. Essendosi di ciò accorto il Governo, gli fece scrivere da Mons. Charvaz, come il Re non gradisse il suo ritorno in diocesi. E l'Arcivescovo si fermò nell'Episcopio di Chambery.

Erano queste le novelle che il Teol. Borel mandava, rispondendo a D. Bosco, mentre gli dava conto di ciò che si faceva nell'oratorio. Intanto si scusava di non poter recarsi a Morialdo, dovendo egli aiutare i canonici della SS. Trinità nel far sottoscrivere al clero un'istanza ragionata alle autorità civili, perchè fosse tolto un divieto ingiusto per l'Arcivescovo, dannoso per la diocesi.

D. Bosco rimandava allora al Teologo un biglietto in questi termini:

 

Carissimo Sig. Teologo,

 

Lodo a tutto cielo la intrapresa sottoscrizione di cui desidero anch'io far parte; però credo che una giornata non ritarderà l'opera, giacchè se vengono gli altri preti e non V. S. credo che la partita tornerà di poco profitto. Godo che l'oratorio sia andato bene e spero che il Signore ci vorrà continuare la sua benedizione. Dica solo al T. Vola che sia più breve nel predicare, altrimenti l'oratorio del mattino diminuisce. Tanti saluti ai soliti amici, e mi creda quale di tutto cuore mi dico

 

Morialdo, 25 Settembre 1849.

 

aff.mo amico

Prete Bosco.

 

 

Frattanto D. Bosco fin dal primo giorno che era giunto ai Becchi non aveva interrotta la sua scuola. Riposare per lui non significava oziare. I suoi discepoli imparavano quasi senza avvedersene dietro la viva voce del maestro. In tempo di colazione, di pranzo, di cena il tema della conversazione era normalmente vario. Fra un boccone e l'altro si parlava sempre di declinazioni e di coniugazioni. Sovente li conduceva a qualche paesello vicino, o nelle vigne mentre si vendemmiava; ma non si omettevano mai quelle lezioni. Unicamente con tanta tenacità di sacrificio e di dolce energia ei potè rendere i suoi allievi atti a subire con buon risultato gli esami di grammatica sul finire dell'ottobre.

D. Felice Reviglio l'11 agosto 1889, inaugurando una lapide posta al Becchi presso la casa dove nacque D. Bosco, concludeva il suo magnifico discorso con queste parole.

“ Addio luoghi benedetti, che mi richiamate alla mente i singolari tratti di bontà del mio insigne benefattore. Questi filari di viti, questi prati furono già le cattedre da cui istruiva nel rudimenti della lingua latina i suoi primi figli, che avviava alla carriera ecclesiastica. Tra il lavoro, nelle passeggiate, alle refezioni cori pazienza ammirabile ci faceva scuola, ripetendoci cento volte le medesime regole, rafforzate da frequenti esercizi, se occorreva, e avveniva di spesso, sino a che sapessimo dare la ragione, l'ultimo perchè delle nostre risposte. Quante volte pel timore d'esser interrogato mi teneva lungi dal mio buon maestro ed Egli chiamarmi dolcemente e propormi latinetti da tradurre, nomi da declinare, verbi da coniugare. Sebbene fossimo tardi nell'imparare, non si stancava d'insistere... Addio, casa diletta, in cui ho ricevuto prove di paterna predilezione perchè mi infervorassi nel bene ”.

È in questo autunno che D. Bosco si incontrò in un giovane di anni 15, che un giorno sarebbe stato suo appoggio e braccio in molte imprese, testimonio fedele delle sue virtù e che doveva morir missionario nella Repubblica dell'Equatore. Andato a Ramello, Borgata di Castelnuovo d'Asti, in casa di Carlo Savio per comperare delle uve, questi, che era padre del chierico Ascanio, e aveva preparato un pranzo per i giovani dell'oratorio, presentò a D. Bosco un altro suo figliuolo di nome Angelo e lo pregò a volerlo annoverare tra i suoi discepoli. D. Bosco lo accettò volentieri e l'anno seguente 1850 egli stesso lo condusse a Torino.

Celebratasi la novena e la festa dei Santo Rosario i giovani lasciarono i Becchi e D. Bosco dopo qualche giorno doveva raggiungerli in Torino.

Una sera D. Bosco soletto soletto, dalla borgata dei Becchi si recava a Buttigliera, o, come altri racconta, da Capriglio a Castelnuovo. Giunto a metà del cammino sulla strada pubblica, fiancheggiata da un bosco che la rendeva scura e deserta, a un tratto scopre un giovinotto seduto sopra una ripa, il quale vedendo il prete che gli si avvicinava scese e gli venne incontro chiedendo soccorso. La sua voce però minacciosa faceva intendere come la sua preghiera equivalesse ad un'intimazione. D. Bosco senza turbarsi si fermò e gli disse: Abbi pazienza un momento.

 - Che pazienza! datemi subito i danari, o che lo vi uccido.

 - Danari per te io non ne ho; in quanto alla vita me l'ha data Dio ed Egli solo me la può riprendere. - In quel luogo, senza testimoni, un colpo era presto fatto. Ma D. Bosco, benchè il giovane avesse il cappello sugli occhi, lo aveva riconosciuto pel figlio di un proprietario dei dintorni; tanto più che lo aveva catechizzato e confessato nelle carceri di Torino, dalle quali era uscito da pochi giorni e per sua raccomandazione al Procuratore del Re. Il giovane in quel momento e per la notte che era molto oscura e per il turbamento naturale che lo agitava nel commettere il delitto, non ravvisava chi fosse l'aggredito. Perciò D. Bosco, alzando il capo, continuò sottovoce: - Come! e tu, Antonio, fai questo brutto mestiere? Così mantieni le tante promesse che mi hai fatte, sono pochi giorni... in quel luogo... là... presso S. Agostino, di non più rubare?

Il disgraziato, che da queste parole aveva riconosciuto D. Bosco, rimase avvilito e, abbassata la testa: - Ha ragione, rispondeva... ma, vede bene... la necessità ho rossore a ritornare al mio paese. Del resto io non sapeva che fosse lei. Se l'avessi riconosciuto, non le avrei mai fatto simile affronto... Le chiedo perdono.

 - Ciò non basta, mio caro Antonio, bisogna mutar vita. Tu stanchi la misericordia di Dio, e se non fai presto a convertirti, temo che ti manchi il tempo.

 - Certo che desidero mutar vita: glielo prometto.

 - Non basta ancora; bisogna incominciar subito e confessarti, perchè se morissi adesso, saresti perduto per sempre.

 - Ebbene, mi confesserò.

 - E quando?

 - Anche subito se vuole: ma non sono preparato.

 - Ti preparerò io. E tu prometti al Signore di non, offenderlo più.

D. Bosco, preso quel poveretto per mano, salì con esso per quella ripa, s'inoltrò alquanto in mezzo agli alberi, sedette sopra un rialto erboso e gli disse: - Inginocchiati qui. - Il giovanotto s'inginocchiò a lui vicino, e commosso fino alle lagrime, si confessò, dando tutti i segni di un vero dolore. Ciò fatto, Don Bosco gli donò una medaglia di Maria Immacolata e quel po' di danaro che aveva seco, e lo condusse con sè a Torino. Questo giovane era stato imprigionato per il furto di un orologio, e il padre lo aveva scacciato di casa pel disonore che aveva recato alla famiglia. D. Bosco, dopo averlo indotto a vivere onestamente, gli procurò un impiego, ed egli visse poi sempre da uomo dabbene, buon cristiano e virtuoso padre di famiglia.

Mentre D. Bosco rientrava in Torino, il 12 ottobre, vi giungeva, sbarcata a Genova, la salma dei Re Carlo Alberto, la quale, dopo i solennissimi funerali nella metropolitana, fu portata nella basilica di Superga e deposta nei sepolcri reali. Era eziandio arrivato in tempo per apporre la sua firma alla istanza promossa dai Canonici della SS. Trinità, la quale sottoscritta da oltre mille Ecclesiastici, il 25 ottobre 1849 era presentata al ministro di Grazia e Giustizia. D. Bosco sospirava con ansietà ed amore la presenza del suo Arcivescovo; con lui aveva tenuta corrispondenza per lettere ed aveva ricevuto da quel buon pastore qualche somma per il suo oratorio. Nel registro delle elemosine e delle spese il Teol. Borel notò che Mons. Fransoni il 5 febbraio 1849 aveva elargite 100 lire. Ma soprattutto era necessaria una sapiente e ferma direzione pel clero. Il Governo il 15 ottobre poneva un nuovo incaglio alla Chiesa, nell'esercizio dei suoi diritti, vietando con legge ai corpi e alle persone morali, ed erano le persone e le istituzioni Ecclesiastiche, l'acquistare stabili anche per disposizioni testamentarie, venderli, far locazioni di lunga durata, senza l'autorizzazione del Governo, previo il parere del Consiglio di Stato.

 

 

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