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Capitolo 44

La pazzia di D. Bosco - Il pianto di un vero amico - Le parole del profeta - D. Cafasso dà giudizio dei sogni di D. Bosco - Al manicomio - L'isolamento - Il Teologo Borel e le confidenze di D. Bosco.


Capitolo 44

da Memorie Biografiche

del 26 ottobre 2006

 Sparsasi la voce delle gravi difficoltà che insorgevano ad ogni pie' sospinto ad incagliare l'opera di Don Bosco, parecchi suoi amici, invece di confortarlo alla perseveranza, presero a suggerirgli di abbandonare la sua impresa. Vedendo come egli fosse sempre soprappensiero per l'Oratorio, come non sapesse distaccarsi da' suoi ragazzi, li visitasse più volte alla settimana sui loro lavori, li custodisse alla festa con sollecitudine più che paterna, ne raccogliesse sempre dei nuovi in mezzo alle vie, continuasse a comparir nelle piazze in mezzo ad una turba di monelli, di questi parlasse spessissimo e con tutti; cominciavano seriamente a temere che fosse colto da monomania.

Alcuni suoi condiscepoli di Seminario e di Convitto vollero tentar la prova di consigliarlo almeno almeno a mutare metodo nel suo apostolato. - Vedi, gli dicevano; tu comprometti il carattere sacerdotale.

 - E in che modo? rispondeva D. Bosco.

 - Colle tue stravaganze; coll'abbassarti a prender parte ai giuochi di tanti monelli, col permettere che questi ti accompagnino con tanti schiamazzi irriverenti. Sono cose non mai viste in Torino, e contrarie alle antiche abitudini di un clero così grave e riserbato come il nostro. - Ma siccome D. Bosco, senza perdersi in troppe parole, dava segno di non essere persuaso dalla logica di quegli avvisi, ripetevano fra di loro: - Ha la testa alterata, non ragiona più!

Un giorno lo stesso impareggiabile Teologo Borel, che pure entrava pienamente nelle sue idee, in presenza di Don Sebastiano Pacchiotti, prese a parlargli così: - Caro D. Bosco, per non esporsi al pericolo di perdere il tutto, è meglio che noi salviamo almeno la parte. Aspettiamo tempi più favorevoli ai nostri disegni. Perciò diamo il congedo agli attuali giovanetti dell'Oratorio, ritenendo soltanto una ventina dei più piccoli. Mentre privatamente continueremo ad occuparci di questi pochi, Iddio ci aprirà la via a fare di più, provvedendocene i mezzi e un locale opportuno.

D. Bosco, come persona sicura del fatto suo, rispose: - Non così, non così! Il Signore nella sua misericordia ha incominciato e deve finire l'opera sua. Lei sa, signor Teologo, con quanta pena noi abbiamo potuto strappare dalla via del male così gran numero di giovanetti, e quanto bene ora questi ci corrispondano. Io sono adunque di parere che non convenga abbandonarli nuovamente a se stessi e ai pericoli del mondo con grave danno delle loro anime.

 - Ma intanto dove radunarli?

 - Nell'Oratorio.

 - Dove è quest'Oratorio?

 - Io lo vedo già fatto: vedo una chiesa, vedo una casa, vedo un recinto per la ricreazione. Questo c'è, ed io lo vedo.

 - E dove sono tutte queste cose? domandò il buon Teologo.

 - Non posso ancora dire dove siano, soggiunse D. Bosco, ma esistono certamente, ed io le vedo e saranno per noi.

All'udire tali parole il Teologo Borel, come assicurava egli stesso quando, parecchi anni dopo, raccontava questo fatto ad alcuno dei più provetti Salesiani, si sentì profondamente commosso. A lui pareva di avere in queste asserzioni una prova abbastanza certa della pazzia del caro amico, ed esclamò: - Povero mio D. Bosco! davvero che gli ha dato volta il cervello! - Quindi, non potendo più reggere all'immensa pena che ne provava in cuore, gli si accostò, gli diede un bacio, e poi si allontanò da lui versando caldissime lagrime. Anche D. Pacchiotti gli diede uno sguardo di compassione, dicendo: - Povero D. Bosco! e si ritirò addolorato.

Eziandio alcuni venerandi Sacerdoti, tra i primi della Diocesi, si recarono a visitarlo, e da lui accolti col più grande rispetto, presero a dimostrargli come egli avrebbe potuto fare un gran bene alle anime, esercitandosi in altri offici del sacro ministero, come per esempio, nel predicare le missioni al popolo, nel coadiuvare qualche parroco della città, nel dedicarsi tutto alle opere della Marchesa Barolo. Siccome D. Bosco li ascoltava in silenzio, sperarono per un istante di essere riusciti a persuaderlo e gli dissero: - Non bisogna ostinarsi; Ella non può fare l'impossibile, e la stessa divina Provvidenza sembra chiaramente indicare che non approva l'opera che Lei ha incominciata. È un sacrifizio, ma bisogna farlo: congedi i suoi giovani! - D. Bosco li interruppe, e alzando al cielo le mani, mentre lo sguardo gli brillava di straordinario splendore: - Oh la divina Provvidenza! Ma voi siete in errore. Io son ben lungi dal non poter più continuare l'Oratorio festivo. La divina Provvidenza mi ha inviato questi fanciulli, ed io non ne respingerò neppur uno, ritenetelo bene.... Ho, l'invincibile certezza che la stessa Provvidenza mi fornirà tutto ciò che è loro necessario.... Anzi i mezzi già sono preparati.... E poichè non mi si vuole affittare un locale, me ne fabbricherò uno coll'aiuto di Maria SS. Noi avremo vasti edifizi, molte camere per le scuole e per i dormitori, capaci di ricevere tanti giovani quanti ne verranno; noi avremo delle officine di tutte specie, affinchè i giovani possano apprendere un mestiere secondo la loro inclinazione; avremo un bel cortile e uno spazioso porticato per le ricreazioni, infine noi avremo una magnifica chiesa, chierici, catechisti, assistenti, capi d'arte, professori pronti ai nostri cenni; e numerosi sacerdoti che istruiranno i fanciulli e si prenderanno cura speciale di coloro nei quali si manifesterà la vocazione religiosa.

Strabiliarono quei signori all'inaspettata risposta, e guardatisi l'un l'altro in viso, gli chiesero: - Vuole adunque formare una nuova comunità religiosa?

 - E se avessi questo progetto? disse D. Bosco.

 - E a' suoi religiosi quale divisa assegnerà?

 - La virtù! rispose D. Bosco, non volendo spiegarsi con più minuti particolari.

Ma gli altri, data gi√π la meraviglia, insistevano scherzando per sapere quale tonaca avrebbero indossata i nuovi frati.

 - Ebbene, replicò D. Bosco; voglio che vadano tutti in maniche di camicia come i garzoni muratori.

A questo punto risa e motteggi accolsero la strana rivelazione; e D. Bosco, dopo aver lasciato che a loro posta quei signori si ricreassero, egli pure sorridendo, osservò: - Ho forse detto una stranezza? Non sanno loro, signori, che andare in camicia vuoi dire povertà? E che una società religiosa senza povertà non può durare?

 - Abbiamo compreso benissimo! incominciarono a dire mentre si alzavano congedandosi. E quando furono usciti dalla stanza di D. Bosco, conclusero: - Abbiamo inteso: le sue facoltà mentali sono squilibrate!

E D. Bosco parlava in questo tenore perchè intimamente persuaso che gli avvenimenti avrebbero giustificate le sue parole e i suoi vivi desideri. Egli infatti fin dal bel principio aveva narrati a D. Cafasso i sogni avuti, chiedendogli consiglio. Il santo prete avevagli risposto: - Andate pure avanti tuta conscientia nel dare importanza a questi sogni, perchè io giudico che ciò sia di maggior gloria di Dio e di bene alle anime!

Intanto la diceria e la persuasione che l'amico e padre affettuosissimo di tanti poveri giovanetti fosse divenuto o stesse per divenir pazzo, si dilatava ogni dì più in Torino. Quindi i suoi veri amici se ne mostravano addolorati; gli indifferenti od invidiosi lo deridevano. Quasi tutti poi, e coloro stessi coi quali aveva contratta dimestichezza, si tenevano lontani da lui.

Qualcuno di questi, incontrandolo per via, o cercava di schivarlo, oppure, fermandosi impacciato e fissandolo in volto con una certa aria di compassione: - Signor Abate, domandavagli, come sta?

 - Io sto benissimo.

 - Ma non si sente un po' di male al capo?

 - Niente affatto.

 - Eppure sembra che Lei abbia un certo color rosso sul viso....

 - Oh! non guardi a questo! Avrò forse alzato un po' troppo il gomito.... diceva D. Bosco sorridendo, poichè intendenza il fine di quell'interrogazione. E l'amico, non persuaso scrollando il capo, affrettavasi ad allontanarsi.

Il giovanetto Michele Rua s’imbattè in quei giorni coll'uffiziale che presiedeva alla regia fabbrica delle canne da fucile, posta nei dintorni del Rifugio, e questi lo richiese: - Vai ancora all'Oratorio di D. Bosco? - E avuto per risposta che qualche volta vi si recava: - Povero D. Bosco, gli disse; non lo sai che è impazzito? - E altra fiata lo stesso Michele udì persone distinte esclamare: - D. Bosco si è tanto infatuato dei miseri giovani abbandonati, che gli ha dato volta il cervello.

Gli ufficiali della stessa Curia Arcivescovile mandarono persona prudente, perchè, senza averne le viste, esaminasse D. Bosco. Temevasi che se realmente fossero vere le voci che correvano, avvenissero scene che avrebbero potuto nuocere all'onoratezza e alla dignità del Sacerdozio. Il messo della Curia venne al Rifugio, e dopo un lungo preambolo avendo fatto cadere il discorso sull'importanza dell'Oratorio, D. Bosco non tardò a parlare con entusiasmo di ciò che stavagli sommamente a cuore: - Sì! Coll'aiuto di Dio, esclamava, potremo fare qualche cosa: là s'innalza la mia casa, e vicina a questa, la mia chiesa ove faremo magnifiche funzioni; qui scorgo radunati i miei preti e i chierici che or non sono, ma verranno e mi aiuteranno; in questo luogo vedo una moltitudine senza numero di giovanetti che mi circonda, mi ascolta, mi obbedisce e si fa buona! - Il Curiale dopo averlo udito con mesta sorpresa, ne riferì a coloro che lo avevano mandato. - Vaneggia, conclusero. È allucinato da un’idea fissa: quella di possedere ciò che non ha e non avrà mai! - Tuttavia, rimasero indecisi sul partito da prendersi, eziandio perchè il Vicario Generale Ravina, molto amico di D. Bosco, non avrebbe permessa una decisione precipitata.

Ma ciò che essi non fecero, si adoperarono di farlo altri rispettabili ecclesiastici di Torino. Radunati ad una conferenza teologica, in sul finire ragionarono sulle notizie del giorno riguardanti il clero e specialmente D. Bosco. Per conseguenza vennero in pensiero e deliberarono di tentare la guarigione di chi, così essi erano persuasi, soffriva di cervello: - D. Bosco ha delle fissazioni, che lo condurranno inevitabilmente alla pazzia; il suo male, essendo ancor sul principio, forse con una sollecita cura lo si potrà vincere, e saremo così in tempo ad impedire una totale sventura. Conduciamolo adunque al manicomio, e colà, coi dovuti riguardi, si farà quanto la carità e l'arte saranno per suggerire a suo vantaggio.

In D. Bosco rinnovavasi il fatto accaduto a N. S. G. C.: “Era circondato così fattamente dalle turbe, che non poteva nemmen prender cibo. Avendo saputo tali cose i suoi andarono per pigliarlo; imperocchè dicevano: Ha dato in pazzia”.

Si mandò pertanto a parlare coi Direttore dell'Ospedale dei matti, e si ottenne un posto pel povero D. Bosco. Allora due ragguardevoli Sacerdoti, di cui uno era il Teol. Vincenzo Ponzati Curato di Sant'Agostino e l'altro un pio egualmente che dotto membro del Clero Torinese, furono incaricati di andarlo a prendere con una carrozza chiusa, e con bel garbo accompagnarlo alla casa dei pazzerelli. Ed ecco che un giorno i due messaggeri si portano al Rifugio per compiere il loro mandato. Entrati nella camera di D. Bosco, essi fanno i primi convenevoli, e poi introducono il discorso sul prediletto Oratorio futuro; e D. Bosco ripetè loro quello che già aveva detto con altri, e con tanta franchezza come se vedesse ogni cosa sotto i suoi occhi. I due messi si guardarono in faccia, e con una certa aria di compassione e come sospirando dissero: È vero! Cioè proprio matto. Intanto D. Bosco, dalla visita inaspettata di quei due cospicui personaggi, dalle insistenti interrogazioni, che gli muovevano e da quella misteriosa esclamazione, si accorse che eglino erano pure di quelli, che lo credevano pazzo, e ne rideva in cuor suo. Stava poi attendendo come andasse a finire la cosa, quando i due interlocutori lo invitano ad uscire con loro a fare una passeggiata. - Un po' d'aria libera ti farà bene, caro D. Bosco, gli disse il Teol. Ponzati; vieni adunque; abbiamo appunto la carrozza che ci aspetta al di fuori. - D. Bosco, che era più savio di quei due signori, si avvide tosto del giuoco che gli volevano fare; quindi, senza darsi per inteso, accolse l'invito e discese con loro alla vettura. Là giunti, i due amici, un po' troppo gentili, lo pregarono ad entrarvi pel primo. - No, rispose D. Bosco, sarebbe questa una mancanza di rispetto alla loro dignità; favoriscano di salire essi per i primi. - E senza alcun sospetto, questi vi salgono, persuasi che D. Bosco vi monti subito appresso; ma egli, che voleva appunto respirare l'aria libera, perchè sapeva che gli avrebbe fatto bene, vistili dentro, chiude in fretta lo sportello della carrozza e dice al cocchiere: - Presto al manicomio, dove questi due sono aspettati. - Il vetturino dà una sferzata al cavallo e, più veloce che non si dica, giunge all'ospedale dei matti, vicinissimo al Rifugio, e trovato spalancato il portone, vi entra di corsa. Il custode chiude subito la porta e, gli infermieri, già stati prima avvertiti, circondano la carrozza e aprono gli sportelli. E qui fu il più bello della scena. I servi dell'ospedale avendo ordine di non lasciar più uscire quel pazzo che sarebbe stato condotto, e di ritenerlo, cori riguardi sì, ma a qualunque costo, non potendo indovinare chi fosse tra quei due il designato, li condussero ambidue in una stanza superiore. Non valsero ragioni, non valsero proteste; dovettero andare. I servi li trattarono alle buone, ma come si usa coi pazzi. I malcapitati chiesero di vedere il medico, e questi non era in casa. Domandarono il Direttore spirituale, ma fu risposto che in quel momento pranzava. Essi pure dovevano andare a pranzo e in simile impaccio non si erano mai trovati in vita loro. Finalmente dopo reiterate preghiere fu chiamato il Direttore spirituale, che; verificato l'equivoco, ruppe in saporite risa e li fece mettere in libertà. Come ne restassero quei due ecclesiastici, nel vedersi burlati da D. Bosco in modo così lepido, è facile immaginarlo. Per molto tempo, incontrandolo per via, scantonavano frettolosamente. Bastò questo solo fatto per far capire che egli o non era pazzo o che pure era un pazzo di nuovo conio: uno di quei pazzi appunto di cui suole servirsi il Signore per compiere le grandiose sue opere, poichè al dire di S. Paolo: Quae stulta sunt mundi elegit Deus, ut confundat sapientes: Le cose stolte del mondo elesse Iddio per confondere i sapienti.

Frattanto D. Bosco in questi mesi non curando le dicerie, aspettando con pazienza che i suoi amorevoli detrattori fossero stanchi, senza perdere la pace proseguiva la sua via. Per varie domeniche alcuni sacerdoti suoi amici, che avevano cominciato a coadiuvarlo, lo abbandonarono intieramente, vedendo che non voleva accondiscendere ai loro consigli e mutare metodo nell'Oratorio. D. Bosco, che appena si teneva in piedi, covando il germe di terribile malattia, fu veduto solo e soletto sostenere sopra le sue spalle il peso enorme di 400 e più ragazzi. Questo isolamento avrebbe sconcertato ed abbattuto qualsiasi più coraggioso uomo; ma Dio non permise che disanimasse D. Bosco, il quale col reale profeta andava ripetendo: Il Signore è la mia fortezza, ed il mio rifugio; in lui collocherò la mia speranza.

Tuttavia ad onor del vero dobbiamo pur dire che non tutti gli ecclesiastici lo abbandonarono in quei giorni di prova così dura. Mons. Fransoni non cessò mai di sostenerlo, e consigliavalo a continuare risolutamente l'opera incominciata. Fu veramente una grande fortuna che in quel tempo così procelloso si trovasse a reggere l'Archidiocesi di Torino un Arcivescovo così intelligente delle vie del Signore, e così benevolo a D. Bosco e al suo Oratorio; chè altrimenti, senza un miracolo, quest'opera sarebbe andata a monte. D. Cafasso la soccorreva con elemosine e diceva a D. Bosco, che non riuscendo egli a far comprendere ad altri i suoi disegni, vedesse di temporeggiare, non prendendo per allora nessuna determinazione e lasciandosi condurre dagli eventi che susciterebbe la Provvidenza. Il Teol. Borel era sempre pronto ad aiutarlo, ma allora osservava e taceva, compassionando l'amico omai logoro per i patimenti e le lunghe veglie sofferte. D. Bosco però volle finalmente toglierlo di pena e fargli intendere essere desso del miglior senno del mondo; quindi gli svelò in alto segreto come avesse avuta e più di una volta, certa visione, da Dio e dalla Beata Vergine; e che, nei pressi di Valdocco avrebbe culla l'Oratorio e una Congregazione religiosa che egli aveva in niente di fondare.

Il Teol. Borel fu pieno di gioia a questa rivelazione, e ricordava poi e ripeteva sovente queste parole di D. Bosco. Nel 1857, quando egli vide fabbricata la prima parte dell'attuale Oratorio, diceva al Chierico Michele Rua: - Nelle sue predizioni, D. Bosco mi ha descritta questa casa e la sua forma, in guisa che io debbo riconoscere pienamente effettuato il disegno di quegli edifizi ancora fantastici che egli in quei primi anni asseriva aver visti ne' sogni.

 

 

 

 

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